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«Il segreto del cambiamento è nel focalizzare l’energia non nel combattere il vecchio ma nel costruire il nuovo»

GIORGIO BENVENUTO  presidente della fondazione  Bruno Buozzi

«Il segreto del cambiamento è nel focalizzare tutta l’energia non nel combattere il vecchio ma nel costruire il nuovo» (Socrate). L’Italia è ferma, immersa in un «letargo esistenziale collettivo, la politica tenta di trasmettere coinvolgimento e vitalità al corpo sociale», ma non ci riesce: una sorta di «limbo italico», dice il presidente del Censis Giuseppe De Rita, citando Filippo Turati, fatto di «mezze tinte, mezze classi, mezzi partiti, mezze idee e mezze persone».
Eppure, osserva il rapporto Censis 2015, gli italiani si muovono, non più come collettività, certo non dentro un «progetto generale di sviluppo» che non esiste più da tempo, ma da singoli, all’interno magari di piccoli territori, o di piccoli gruppi sociali. Mettono a reddito il patrimonio immobiliare, inventano nuove forme di imprenditoria all’insegna dell’«ibridazione», coniugando gastronomia e turismo, design e artigianato, moda e piattaforme digitali.
Il Fiscal Compact, cioè il trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria è stato varato nel 2012. Sarà integrato dopo la sperimentazione nei trattati europei nel 2018. Esso rende vincolante il pareggio di bilancio. Impone un meccanismo di correzione automatica per il superamento dei gradi di avanzamento imposti. Stabilisce l’obbligo di ridurre di un ventesimo all’anno la quantità di debito che eccede il 60 per cento del prodotto interno. Obiettivi, nel caso italiano irraggiungibili, e insensati in un contesto di stagnazione economica e di disoccupazione di massa.
In particolare nei prossimi due anni 50 miliardi dovranno in Italia essere sottratti all’economia per raggiungere la parità di bilancio. Nel futuro altri 40/50 miliardi dovranno essere impiegati ogni anno per ridurre il debito pubblico. Con la nuova legge di stabilità il Governo ha disattivato le clausole di salvaguardia previste dalla legge di stabilità del 2013, spostando al 2017 gli aumenti delle aliquote previsti dalla legge di stabilità del 2014. Quella legge prevedeva che entro il 15 gennaio 2016 il Governo avrebbe dovuto apportare aumenti alle aliquote di imposta e riduzioni delle agevolazioni fiscali fino al raggiungimento di 3.272 milioni di euro per il 2016 e 6.272 milioni di euro a decorrere dal 2017. Vengono, invece, ora rimandati al 2017 gli aumenti sulle aliquote Iva attualmente previsti per il 2015.
La legge di stabilità 2016 prevede un aumento dell’aliquota ia del 10 per cento di 3 punti percentuali a partire dal 2017, ed un aumento dell’aliquota Iva del 22 per cento di 2 punti percentuali dal 2017 e di un ulteriore punto percentuale dal 2018. È ridimensionato l’aumento previsto per le accise sui carburanti. Qualora nel 2016 non si raggiunga la soglia di due miliardi di euro di maggiori entrate previste per il rientro dei capitali (il cosiddetto «voluntary disclosure»), il ministro dell’Economia e delle Finanze dovrà varare un aumento delle accise dei prodotti energetici ed elettricità, tabacchi e lavorati, bevande alcoliche, al fine di conseguire maggiori entrate pari fino al raggiungimento della predetta soglia.
Il dossier del centro studi Confindustria citato dal presidente della Repubblica nel suo messaggio di fine anno stima in 122 miliardi di euro le tasse non versate; l’omessa fatturazione dell’imposta sul valore aggiunto pesa sui conti pubblici per 23 miliardi. La differenza tra gettito teorico ed effettivo è del 33,6 per cento. Il gettito evaso nel 2015 può essere così stimato, in miliardi di euro: Iva 39,819; contributi sociali 34,418; Irpef 23,449; altre imposte indirette 11,402; Ires 5,188; imposte 4,881; Irap 3,052 per un totale di 122,208. Gli incassi della lotta all’evasione sono risibili: 6,659 nel periodo gennaio-ottobre 2015 con una flessione rispetto allo stesso periodo del 2014 dell’1,6 per cento.
Il documento «Completare l’unione economica e monetaria dell’Europa», conosciuto come «documento dei 5 presidenti» in quanto presentato a giugno 2015 da Jean-Claude Juncker per la Commissione Ue, Donald Tusk (Consiglio Europeo), Jeroen Dijsselbloem (Eurogruppo), Mario Draghi (Bce) e Martin Shulz (Parlamento Ue) si pone l’obiettivo da un lato di espandere ulteriormente e dall’altro di rendere permanente delle scelte ben determinate in ambito economico e finanziario. La competitività è considerata in quel documento come un valore a se stante. L’obiettivo non è il benessere dei cittadini ma la potenza commerciale. Si sacrificano così i diritti sociali, ambientali, pur di vincere la battaglia per conquistare maggiori spazi all’esportazione. La politica dell’austerità imposta dall’Europa ha determinato deflazione e attacco ai diritti e alle tutele sociali. In pratica in Italia ha significato recessione, disoccupazione di massa, crescita di disuguaglianza, aumento della povertà. I rendimenti offerti sui bond se salgono aumentano il loro rischio di default.
Le norme Ue spingono i soldi dei clienti verso altri lidi. «È la regola aurea–ha scritto l’editorialista Roberto Sommella–del mercato: il denaro va dove viene trattato meglio». Proprio come i profughi, che scappano verso i Paesi più ricchi, sempre che Schengen glielo permetta ancora. Gli effetti sono simili. Gli investitori danno per scontata una cosa che non esiste più, la protezione statale del risparmio. Gli immigrati credono di essere accolti nel continente delle libertà nel momento in cui questi stessi principi vengono messi in discussione.
Un pericolo per l’Italia è rappresentato dalla speculazione. Draghi, è vero, l’ha bloccata. È stato però un intervento per superare l’emergenza. L’Italia è il Paese più esposto per il debito pubblico agli attacchi speculativi. In questo scenario, così complesso e problematico, un’attenzione particolare va prestata in via prioritaria a quello che avviene nel settore bancario. Il Governo sulle banche è finito nel pantano. Le misure sono ancora in salita. I quattro provvedimenti (bad bank, misure sulle quattro banche salvate, riforma degli istituti di credito cooperativo, recupero dei crediti) sono incagliati, anzi sono in sofferenza. Il Governo ha in effetti ereditato la politica confusa praticata a fasi alterne negli ultimi decenni nel sistema bancario.
Non si può dimenticare lo «stop and go» con il quale si è oscillato in quel settore tra aiuti di Stato mascherati, la Robin tax, la strumentalità dell’applicazione dell’abuso di diritto per fare cassa. Il sistema bancario è stato a volte protetto a volte demonizzato. Non si è andati mai alla radice. Si era giustamente ventilata l’idea di una commissione di inchiesta parlamentare sulle banche e sui sistemi di vigilanza. Era un’ottima idea. Matteo Renzi ha dovuto fare clamorosamente una rapida marcia indietro. Banca d’Italia e Consob non sono state all’altezza della situazione. La vigilanza non è stata sufficiente. Le speculazioni finanziarie sono state incontrollate.
Ora, con colpevole ritardo, quando i buoi sono scappati, la Banca d’Italia chiude le stalle. Le regole del bail-in, le norme per il salvataggio delle banche, volute dall’Europa, devono per Fabio Panetta, vicedirettore generale della Banca d’Italia, essere riviste nelle modalità e nei tempi. Bisogna rinviarle perché il bail-in può aumentare i rischi di instabilità sistemica provocati dalla crisi delle singole banche: «Si sta mettendo a repentaglio la fiducia, considerato l’elemento cardine su cui poggia l’attività bancaria. L’effetto stabilità tanto auspicato non sta dando i frutti sperati. Anzi gli effetti sono negativi».
Il centro studi Confindustria ha sottolineato che le nuove norme sono penalizzanti per l’Italia e costituiscono un ostacolo serio alla risalita dell’attività economica. L’intesa tra Governo e Comunità Europea per consentire alle banche di liberarsi dei crediti deteriorati non è entusiasmante. La reazione dei mercati è stata debole. L’esecutivo è in ritardo nel varo dei decreti attuativi. Manca una strategia. La legge sulla trasformazione delle maggiori banche popolari in spa stenta a trovare attuazione. Ma come si fa ad operare delle fusioni quando in borsa i titoli bancari rimbalzano continuamente senza che ci sia un’intelligente azione di vigilanza ed un’appropriata strategia? Le banche popolari continuano a studiarsi tra di loro; Padoan continua a ripetere «banche più forti, più grandi e più trasparenti gestiranno con più efficienza i crediti deteriorati».
Ma non è così. Si discute solo di posti e di poltrone. Non si parla di piani industriali. Non c’è il controllo degli stipendi dei manager. Non vengono sanzionati i comportamenti illeciti. Si chiudono gli occhi di fronte alle direttive che impongono ai dipendenti delle banche di piazzare titoli nocivi ai clienti, costi quello che costi, se vogliono fare carriera e se vogliono avere incentivi economici. Sul crollo delle banche italiane ha pesato una «gestione della comunicazione poco accorta da parte della Vigilanza Bce». L’ha detto il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, che a proposito delle perdite arrivate al 50 per cento su alcuni titoli spiega che a causa di quell’errore «c’è stata una redistribuzione della ricchezza».
La Commissione Europea ha consentito a Paesi come la Germania di utilizzare fondi pubblici per salvare le banche anche statali, ma poi ha detto di no alle ricapitalizzazioni di banche locali da parte di un privatissimo fondo (il Fondo interbancario di tutela dei depositi alimentato da risorse del sistema bancario). In un recente articolo sul Corriere della Sera sulle questioni bancarie europee si legge: «Sul piano tecnico l’impegno del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan è stato costante, quello del suo direttore generale Vincenzo La Via no. Nessuno in Commissione, o nel gelido palazzo di Elke König sembra averci mai parlato dei vitali dettagli bancari che potrebbero decidere il futuro del Paese».
Dal centro internazionale Luigi Sturzo hanno spiegato: «Sulle obbligazioni subordinate vendute direttamente ai piccoli risparmiatori le banche italiane hanno di fatto ignorato i richiami delle autorità finanziarie europee di tutela del risparmio. A partire dal 2014, l’Esma (una sorta di Consob dell’Unione Europea) aveva inviato agli istituti di credito una raccomandazione volta a riconoscere che i sottoscrittori di obbligazioni subordinate si collocano in una posizione meno favorevole rispetto ai detentori di obbligazioni ordinarie, dal momento che il rimborso è subordinato, appunto, al rimborso prioritario di altri debiti». Secondo quella ricerca, la posizione meno favorevole di chi investe in bond subordinati è più difficile da valutare per la clientela media retail: «Il prospetto e la documentazione prevista per questi titoli sono spesso incomprensibili: per questo dovrebbero essere considerati complessi».
«La raccomandazione si riferisce alle obbligazioni subordinate in genere–sottolineano al centro Sturzo–ma già un anno prima l’Esma inseriva questo tipo di titoli nello stesso elenco di prodotti complessi in cui si trovano i derivati, anch’essi di ardua valutazione, difficili da monetizzare e collocare in uno scenario di rischio e, per questo, meritevoli di estrema attenzione quando vengono collocati presso i piccoli risparmiatori. Molti titoli sono stati emessi da piccole banche, presso clienti che si trovano nel territorio, spesso famiglie non pienamente consapevoli del rischio e che non hanno adottato efficienti strategie di diversificazione. Molti hanno i loro depositi nella stessa banca di cui hanno acquistato le obbligazioni subordinate. Il risparmio delle famiglie ha costituito a lungo una risorsa fondamentale per un sistema bancario che aveva bisogno di ricapitalizzarsi nelle more delle crisi e in risposta ai sempre più stringenti requisiti di capitale; ora, però, il dubbio che vi sia stata scarsa trasparenza nei collocamenti rischia di avere effetti disastrosi nei confronti di chi vi ha fatto ricorso con eccessiva leggerezza».
Dario Ciccarelli, nel libro «Il bandolo dell’euromatassa», ha rivelato che la CE ha insistito perché un trattato di aggiornamento tecnico al trattato del 1994 istituente l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) non venisse ratificato dai parlamenti degli Stati membri bensì dalla CE medesima, ma in modo autoreferenziale e contrario al diritto internazionale ed ai diritti costituzionali di tutti i 28 Stati membri. Alla CE il trattato di Roma diede il compito di «rappresentare» gli Stati membri, non di sostituirsi ad essi nelle trattative commerciali internazionali; in effetti sino ad ora la CE si è mossa nell’ambito di deleghe specifiche conferitele di volta in volta dal Consiglio dei ministri del Commercio con l’estero dei 28 Paesi membri. Da quando esiste la democrazia parlamentare, ha ricordato Giuseppe Pennisi, la ratifica dei trattati internazionali è compito precipuo dei Parlamenti degli Stati firmatari. Affidarla, quasi di soppiatto, ad un organo come la CE (che dovrebbe essere un segretariato tecnico dell’attuazione delle politiche concordate dagli Stati membri) significa abolire uno dei cardini chiave della democrazia parlamentare e spogliare i Parlamenti di una delle loro funzioni essenziali.
Il poker si gioca in quattro, oppure in tre col morto, o anche meglio in tre col pollo. È quello che è avvenuto con le obbligazioni subordinate: il pollo è il risparmiatore; gli altri tre giocatori sono l’Europa, il Governo, le autorità di vigilanza. La Banca d’Italia è sul banco degli accusati. Ecco perché Panetta ha di recente dichiarato che «le banche hanno il dovere e l’interesse a promuovere questi cambiamenti, accompagnandoli con una profonda revisione dei rapporti con la clientela. Per favorire lo sviluppo dei mercati saranno necessari interventi volti a migliorare la formazione dei dipendenti, la loro capacità di assistere le aziende nell’accesso ai mercati; a prevenire con efficacia i conflitti di interesse in capo alle banche, derivanti dal loro contemporaneo ruolo di creditore, promotore dell’accesso al mercato e gestore (diretto o indiretto) del risparmio delle famiglie. I prenditori più rischiosi–ha proseguito il vicedirettore di Bankitalia–possono essere anch’essi accompagnati sul mercato, garantendo però la trasparenza necessaria a consentire scelte consapevoli ai potenziali finanziatori. In mancanza di questi presupposti sarebbe messa a repentaglio la reputazione della banca, la stessa fiducia da parte della clientela».
Il presidente del Consiglio Renzi ha alzato la voce e battuto i pugni sul tavolo in Europa. Non ha però nessun aggancio, se non l’adesione al Partito socialista europeo. Aggancio che si realizza nel momento di massima debolezza del socialismo europeo. Nell’Inghilterra, in Francia, in Spagna ci sono solo declino e lacerazioni. La SPD è da tempo subalterna nei confronti della Merkel e della CDU.CSU. Non si riesce a capire perché il Governo italiano non faccia squadra. Ha posizioni importanti. Nel Parlamento europeo Gianni Pittella è il capogruppo del PSE; Federica Mogherini è titolata a rappresentare la politica internazionale dell’Unione Europea, Luca Visentini è il segretario generale della Confederazione europea dei Sindacati. Ognuno si muove per conto proprio.
Le esternazioni di Renzi, violentemente polemiche nei confronti della Merkel, non trovano riscontro nel comportamento dei titolari in quelle posizioni autorevoli. A ciò si aggiunge la scarsa incidenza dei parlamentari italiani in Europa, tenuti ai margini nel dibattito politico. In questo scenario così disarticolato non brilla la presenza dei nostri rappresentanti nelle strutture decisionali delle istituzioni europee. Il Corriere della Sera ha ricordato che con cadenza quasi mensile, funzionari tedeschi di alto grado della Commissione, del Consiglio e del Parlamento Europeo, rappresentanti della grande industria, diplomatici della rappresentanza berlinese alla UE si ritrovino a cena da qualche parte nella capitale belga. Renzi ai Consigli europei è annoiato, non gli piacciono i rituali, i meccanismi, il modo di lavorare. Attacca questo e quello ma poi si spazientisce con i dettagli. Ora ha nominato Carlo Calenda come rappresentante permanente alla UE al posto di Stefano Sonnino, considerato troppo remissivo. Ha detto Renzi che «Carlo Calenda è uno più rissoso di me».
Ma, da solo, commentano a Bruxelles, Calenda non può far primavera. I problemi strutturali dell’Europa non si potranno risolvere alzando la voce, occorre coltivare una strategia, occorre essere una squadra capace di individuare le priorità irrinunciabili per l’Italia. Renzi non ha un pensiero strategico sull’Europa, è circondato, purtroppo, da molti ventriloqui, da yes men e persino da yes woman. «Un debito e una spesa pubblica come quelli italiani–ha ricordato l’ex direttore del Corriere della sera Paolo Mieli–ci mettono in condizioni peggiori di quanto fossero quelle di oltre un secolo fa, quando avevamo alle spalle Lissa e Custoza. E per quello che riguarda i nostri successi, il ruolo nuovo che abbiamo conquistato nel consesso internazionale, aspettiamo che siano gli altri a prenderne atto. Le lodi che ci diamo da noi, valgono poco. Anzi, niente».
Alberto Statera ha ricordato in un sarcastico corsivo che i sergenti borbonici del Regno delle due Sicilie ordinavano «fàcite a faccia feroce» alle reclute. A quelle più fiacche rincaravano: «chiu feroce». Più o meno è la stessa direttiva che, pur con fonetica toscana, Matteo Renzi ha dato ai suoi nei confronti dell’Unione Europea. Quando si formano le norme europee ci deve essere invece una partecipazione all’elaborazione incisiva. Le norme sul bail-in sono state impostate anni fa; l’Italia le ha sottovalutate. I Governi, i partiti, le forze sociali non hanno ancora capito che larga parte della nostra vita è condizionata da regole esterne: occorre presidiarne la nascita con le persone migliori ed anticiparne gli impatti. Alessandro Profumo ha criticato la norma sul bail-in: «Mi chiedo, ha detto in un’intervista a La Repubblica, se chi ha scritto le regole e chi le applica, la BCE, abbiano pensato all’impatto sistemico, che per ora porta danni anziché benefici. Gli effetti impropri delle norme aumentano: l’Europa è sempre meno capace di interpretare politicamente le regole».
«È vero–ha commentato Giuseppe De Rita–che l’apparato burocratico è considerato come origine di sprechi e di assistenzialismo. Ma gli apparati sono fondamentali, purché non elefantiaci, anche perché fanno formazione. Gli italiani sono assenti dall’apparato burocratico di Bruxelles. È un errore. Così un giorno scopriamo ex post che una direttiva sulle banche ci ha messo in mutande».
Il modello italiano della gestione delle sofferenze e degli incagli è praticamente cancellato con le direttive comunitarie ed in particolare con bail-in. In Italia, soprattutto in questa lunga fase di crisi, il debitore (investitore, imprenditore, professionista) è stato «coccolato» con una gestione flessibile nei tempi e nelle quantità sul rientro di quanto dovuto. È un modello che è stato esportato in Equitalia. Sono state concesse per la riscossione dei tributi rateazioni per 33 miliardi di euro. Sono tre milioni le dilazioni concesse e non revocate: il 70 per cento riguarda importi fino a 5 mila euro. Con la legge di stabilità è stato previsto di riammettere istanze per 1,5 miliardi.
L’impressione è che in Europa ci si stia muovendo come in «Brancaleone alle crociate», dove la diffidenza reciproca e l’ignoranza del contesto generava un dialogo, perfetta metafora di quanto è apparso finora: «Onde ite?» «Sanza meta». «Anca noi, ma per diverso percorso…». Ci si deve convincere che il cambiamento è nel focalizzare tutte le energie, non nel combattere il vecchio senza costruire il nuovo.   

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