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RIMEDI INEFFICACI PER DEFLAZIONARE I RICORSI PER CASSAZIONE E GLI APPELLI: VIOLATI I DIRITTI DI DIFESA

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di Maurizio de Tilla

Per accelerare i tempi della giustizia si modificano a ripetizione le impugnative. In particolare, il giudizio per cassazione cambia ogni anno e si è arrivati addirittura a proporre quattro riti per risolvere le controversie. Importante non è però questo, ma assumere la responsabilità da parte dei cittadini (e quindi degli avvocati) di proseguire la propria sorte giudiziaria davanti al giudice delle impugnative solo nel caso di probabilità di successo e di erroneità palese della decisione di merito. Dalla loro parte, i giudici dovranno studiare i processi, leggere bene tutte le carte, non utilizzare gli strumenti deflattivi in maniera abnorme (qualcuno lo fa) ed assicurare stabilità di principi e di criteri decisionali.

Si sono introdotte forti innovazioni per il ricorso per cassazione anche nel settore penale. Si elimina la possibilità che il ricorso possa essere proposto personalmente dall’imputato; si prende atto della necessità di assicurare una selezione più efficace dei ricorsi in entrata (nel 2015 risultano sopravvenuti oltre 53 mila ricorsi), prevedendo che almeno le inammissibilità evidenti siano dichiarate in base ad una procedura semplificata, senza formalità; si prevede che, in ragione della causa di inammissibilità, la sanzione pecuniaria in favore della cassa delle ammende possa essere aumentata; si propone di delimitare il ricorso per cassazione alla sola violazione di legge in caso di «doppia conforme» assolutoria; si ampliano i casi in cui la Corte di cassazione provvede all’annullamento senza rinvio; si propone la costruzione di un modello legale di motivazione della decisione di merito, che si accorda con l’onere di specificità e decisività dei motivi di ricorso.

Un’attenzione particolare viene riservata alla funzione di assicurare l’uniforme interpretazione della legge e, quindi, la certezza del diritto, introducendo meccanismi di raccordo tra le sezioni semplici e le sezioni unite della Corte di cassazione, diretti a ridurre i casi di contrasto giurisprudenziale. Ma resta fermo il fatto che nessuna svolta radicale del processo in termini di celerità ed efficienza potrà essere realizzata, se non si sarà in grado di risolvere il problema del numero abnorme dei procedimenti penali, derivante da un complesso di fattori: ipertrofia del diritto penale, eccessiva latitudine del ricorso per cassazione, numero abnorme degli avvocati cassazionisti.

Una recente proposta legislativa estende i casi in cui la Suprema Corte decide in Camera di consiglio: la Cassazione, a sezione semplice, si pronuncia sempre con ordinanza in Camera di consiglio, salvo casi di particolare rilevanza della questione di diritto. Da notare che in Camera di consiglio la Corte Suprema decide senza l’intervento del pm e delle parti, che hanno un termine per depositare gli atti difensivi scritti. Si trattengono in Camera di consiglio i procedimenti per la decisione sulle istanze di regolamento di giurisdizione e di competenza. Allo stesso modo sulla rinuncia, e nei casi di estinzione del processo disposta per legge, la Corte provvede con ordinanza, a meno che debba decidere altri ricorsi contro lo stesso provvedimento fissati per la pubblica udienza. Viene modificata la procedura di correzione di errori materiali, che può essere chiesta, e rilevata d’ufficio, in qualsiasi tempo. La revocazione può essere chiesta entro il termine perentorio di 60 giorni dalla notificazione, ovvero di sei mesi dalla pubblicazione del provvedimento. In ogni caso, anche quando si va in udienza, non ci devono essere lungaggini: si abbrevia la discussione, in quanto non sono ammesse repliche.

Rinforzi in Cassazione anche per smaltire le pendenze tributarie attraverso 70 giudici ausiliari, scelti anche tra avvocati e docenti universitari. Lo prevede lo schema di decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri recante «Misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione, per garantire la ragionevole durata del processo e per l’efficienza degli uffici giudiziari». Lo schema, messo a punto dal Ministero della giustizia, è suddiviso essenzialmente in due parti: da un lato introduce una serie di modifiche della procedura davanti alla Suprema Corte volte a contenere al minimo i tempi della giustizia; dall’altro, con i primi 11 articoli, detta norme specifiche per deflazionare il contenzioso tributario pendente presso la Corte di cassazione, rimpinguandone l’organico.
L’incarico di giudice ausiliario avrà durata quinquennale, con cessazione anticipata al compimento del settantottesimo anno di età. Ai giudici ausiliari così nominati, che il primo presidente assegnerà alla sezione tributaria, sarà attribuita un’indennità onnicomprensiva trimestrale di 200 euro per ogni provvedimento che definisce il processo fino a un massimo di 30 mila euro annui. Lo schema punta a evitare il rischio di un collasso della Cassazione.

Come documentato dal Rapporto 2016 della Banca mondiale, la giustizia italiana, pur classificandosi al secondo posto in termini di «qualità del servizio» (dietro solo al Regno Unito), schizza addirittura al centoundicesimo in rapporto ai «tempi e costi» di risoluzione delle controversie, disincentivando marcatamente lo sviluppo dell’iniziativa economico-privata. In questo scenario la Corte di cassazione è l’istituzione che più di tutte risulta congestionata nella propria efficienza in considerazione dell’ontologica incapacità del proprio organico a far fronte ai nuovi ricorsi che ogni anno vengono presentati (stimati in circa 80 mila) che, conseguentemente, finiscono per aggravare una situazione sempre più irrecuperabile. Con riferimento alla materia civile, in particolare, nonostante i ripetuti aumenti delle spese di giustizia, vengono iscritti ogni anno circa 30 mila processi (con un arretrato che si aggira intorno ai 100 mila) dei quali circa la metà riguardano la sezione tributaria.

Si cerca di aiutare anche con la sintesi nella compilazione degli atti. Intanto, si è ritenuto che l’obbligo di redigere un paragrafo di sintesi finale con un quesito di diritto nel ricorso in cassazione, che riassuma il ragionamento seguito e indichi il principio di diritto che si ritiene violato, è conforme alle regole dell’equo processo garantite dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. È la Corte di Strasburgo a stabilirlo, con la sentenza depositata il 15 settembre con la quale i giudici internazionali hanno respinto un ricorso contro l’Italia (ricorso n. 32610 del 2007). I giudici internazionali partono dalla constatazione che il diritto a un giudice non è un diritto assoluto, ma si presta a limiti. Gli Stati possono intervenire, grazie al margine di apprezzamento previsto nella stessa Convenzione, prevedendo regole idonee ad assicurare il buon funzionamento della giustizia.

Detto questo, però, pur nella discrezionalità concessa, gli Stati possono porre unicamente limiti che perseguano un fine legittimo e siano proporzionali. Inoltre, nella fase applicativa, i giudici nazionali non devono procedere a interpretare le condizioni di ricorso in modo troppo formale, rischiando di violare il diritto di accesso alla giustizia. La compatibilità dei limiti previsti dall’ordinamento interno con il diritto di accesso alla giustizia dipende, poi, dalle particolarità della procedura, tenendo conto dell’insieme del processo e del ruolo svolto dalla Cassazione. Con la conseguenza che le condizioni di ricevibilità in ultimo grado possono essere più rigorose che nei casi di azione in appello. Il principio può essere giusto, ma è incerta l’applicazione che potrà farne il legislatore italiano che pone norme dirette solo alla deflazione dei processi, con soppressione dei diritti.

Per abbreviare e facilitare i giudizi agli immigrati è pronta una riforma processuale. Oggi un richiedente asilo resta in attesa di una risposta non meno di 24 mesi: i primi 12 vanno via, in media, per istruire la pratica e ottenere risposta alla domanda di protezione presentata alla competente commissione territoriale. In caso di diniego, almeno un anno poi trascorre tra il primo e il secondo grado di giudizio, visto che quasi sempre i migranti presentano ricorso contro la decisione sfavorevole.

Gli ultimi dati del Ministero dicono che nel 2016 circa il 60 per cento delle domande di protezione presentate vengono rigettate. Questo incremento si è tradotto inevitabilmente in un altrettanto esponenziale aumento del numero delle impugnazioni in sede giurisdizionale. Durante i primi 5 mesi del 2016 nei tribunali sono stati iscritti 15 mila ricorsi in materia, con circa 3.500 nuovi ricorsi al mese. Aumentano quindi i dinieghi, e crescono di pari passo i ricorsi in tribunale. Le sedi maggiormente oberate sono Napoli e Milano, seguite da Roma e Venezia. Prima che un ricorso possa essere definito, però, serve del tempo: nei primi mesi del 2016 soltanto 985 casi sono andati a sentenza e con una bassissima percentuale di accoglimenti totali.

Di qui la proposta di abolire il grado di appello per i profughi. Una scelta impropria che sostituisce quella necessaria (e dovuta) di predisporre risorse e procedure per abbreviare i tempi dei procedimenti. In Italia solo il 5 per cento dei richiedenti asilo ottiene lo status di rifugiato. Il 13 per cento riceve il permesso di soggiorno per protezione sussidiaria, che dura 5 anni e viene rilasciato a chi rischia di subire un danno grave nel caso di rientro nel proprio Paese, mentre il 19 per cento consegue la protezione per motivi umanitari (24 mesi, prorogabili).

Ma negli ultimi anni, a fronte dell’aumento dei flussi, il Viminale ha imposto una stretta rendendo i criteri più stringenti. Il risultato è che la quota di domande respinte si è impennata: 22 per cento nel 2012, 39 per cento nel biennio successivo, 59 per cento nel 2015, fino a toccare il 63 nei primi otto mesi del 2016. Le richieste di asilo sono in aumento. Quel che è certo è che, dei quasi 58 mila migranti che da inizio 2016 hanno ricevuto risposta alla domanda di asilo in Italia, la maggioranza non può restare: oltre 34 mila stranieri hanno ricevuto un foglio di via con l’obbligo di lasciare il territorio nazionale entro dieci giorni. Cosa che quasi mai accade: il documento, spesso, è il preludio a una vita da fantasma nel mondo della clandestinità.

Per i migranti che si vedono respinta la richiesta d’asilo resta la possibilità di presentare ricorso in un tribunale ordinario, le cui sentenze possono essere a loro volta impugnate davanti alla Corte di appello e, in ultima istanza, in cassazione. Nei primi cinque mesi dell’anno i migranti ad aver presentato ricorso sono stati 3.500 al mese, circa la metà di coloro che si erano visti rigettare la domanda d’asilo. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha proposto di creare tribunali specializzati con giudici dedicati e di sopprimere l’appello. I precedenti interventi deflattivi si sono rivelati fallimentari.
La negoziazione assistita in materia di famiglia è un flop. Si susseguono indagini fiscali da parte delle procure per stabilire la congruità dell’assegno per i minori nonostante gli accordi già verificati e certificati dagli avvocati, oltre che l’applicazione delle regole a macchia di leopardo sul territorio: dalla documentazione da allegare in fase di trasmissione dell’accordo alla procura, al momento dal quale far partire i termini per l’invio dell’accordo all’ufficio di stato civile, alla possibilità di ascolto del minore. Ogni ufficio giudiziario fa a modo suo. Con il rischio di sanzioni per gli avvocati e invalidità dell’accordo ove impugnato. È questo il risultato di un’indagine svolta dall’OUA, l’Organismo unitario del’avvocatura italiana.

Riguardo alle indagini fiscali, numerosi avvocati hanno risposto positivamente alla domanda se vengano effettuate, da parte del pm, indagini fiscali sui redditi dei coniugi, ai fini della verifica della congruità dell’assegno di mantenimento in favore dei figli. Con effetti sulle statuizioni economiche, effetti fiscali, anche attraverso delega alla Guardia di finanza o con modifica dei provvedimenti già certificati dagli avvocati. Il problema è che, trattandosi di accordi certificati da pubblici ufficiali, il pm non dovrebbe poter mettere in dubbio che quanto verificato in sede di negoziazione non corrisponda al vero. Ne va della convenienza dell’utilizzo dello strumento della negoziazione e del ruolo chiave degli avvocati all’interno dell’accordo.

Altra questione è il rilievo da parte della Procura del mancato rispetto del termine di dieci giorni per la trasmissione dell’accordo stesso; e ulteriore punto controverso riguarda la decorrenza del termine per la sua trasmissione all’ufficio di stato civile. A macchia di leopardo il comportamento dei presidenti del tribunale: il 38 per cento suggerisce ai coniugi le modifiche dell’accordo che ritiene opportune e, se recepite, lo autorizza, il 12 per cento trasmette alla Procura per l’autorizzazione, il 18 per cento valuta l’accordo e quindi lo autorizza, l’8 per cento lo trasmette alla Procura con le proprie osservazioni. Vi è da rilevare che a cinque anni dall’applicazione della direttiva UE 2008/52 la Commissione europea ha fatto il punto sull’attuazione dell’atto Ue, tracciando il quadro degli effetti negli Stati membri. Nodo centrale resta sempre quello dell’obbligatorietà o no della mediazione. L’articolo 5, paragrafo 2, della direttiva, infatti, lascia autonomia agli Stati che, in base alla legislazione nazionale, possono rendere obbligatorio il ricorso alla mediazione, prevedere incentivi o sanzioni a condizione che non sia compromesso l’esercizio del diritto di accesso al sistema giudiziario.

Sotto questo profilo le strade degli Stati europei si sono divise: sono 5 i Paesi membri che sanciscono l’obbligatorietà della mediazione per numerose controversie. In questo gruppo rientrano l’Italia, l’Ungheria e la Croazia, quest’ultima soprattutto in materia familiare. Ci sono poi Stati (13 in tutto) che prevedono incentivi finanziari talvolta sotto forma di riduzione o rimborso integrale delle spese e dei costi legati al procedimento se è raggiunto un accordo. La Slovacchia rimborsa, a seconda della fase processuale in cui viene raggiunto l’accordo, il 30 per cento, il 50 per cento o il 90 per cento dei diritti di cancelleria. La Germania, invece, prevede incentivi finanziari sotto forma di patrocinio a spese dello Stato, sempre previsto per la mediazione giudiziale, mentre con portata più limitata nei casi di quella extragiudiziale. Hanno scelto la strada delle sanzioni per promuovere la mediazione 5 Stati membri. L’Ungheria, ad esempio, le prevede per le parti che, dopo aver concluso un accordo, agiscono comunque in giudizio; l’Irlanda nei casi in cui vi sia un «rifiuto ingiustificato di prendere in considerazione la mediazione». L’Italia preclude alla parte vincitrice di ripetere le spese «se il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde al contenuto di una proposta di mediazione» rifiutata in precedenza. Stessa situazione per le parti che, malgrado la previsione dell’obbligatorietà della mediazione, agiscano immediatamente in giudizio. In Slovenia, penalizzate le parti che senza giustificazione rifiutano la mediazione.

Per quanto riguarda il campo oggettivo di applicazione della mediazione, è l’ambito familiare a essere quello più interessato soprattutto per le questioni sull’affidamento di minori, i diritti di visita e i casi di sottrazione. Resta, invece, ancora al palo o poco utilizzata la mediazione nelle procedure d’insolvenza. Sul fronte dell’esecutività dell’accordo finale, alcuni Stati si sono spinti oltre, in positivo, rispetto alla direttiva. Italia, Belgio, Repubblica Ceca e Ungheria ammettono l’esecutività degli accordi di mediazione anche senza il consenso di tutte le parti.
Completa attuazione, in tutti gli Stati membri, delle regole che impongono la riservatezza della mediazione, così come per gli effetti della prescrizione e della decadenza. In tutti gli Stati è garantito alle parti di avviare un procedimento giudiziario dopo la mediazione anche se durante l’iter sono scaduti i termini di prescrizione. Per attuare l’articolo 4 della direttiva, che impone meccanismi di controllo della qualità, 19 Stati membri hanno previsto codici di comportamento, ispirandosi in molti casi al Codice europeo di condotta per mediatori, mentre altri Paesi hanno lasciato spazio ai fornitori delle prestazioni di mediazione. Molto utilizzata, per monitorare la qualità dei servizi, la procedura di accreditamento obbligatoria per i mediatori e per i registri dei mediatori.

Non tutte le cause richiedono un’ampia ed elaborata istruttoria e un ulteriore approfondimento delle questioni giuridiche. Alcune cause si possono risolvere subito. L’accordo bonario fra le parti può essere agevolato dal giudice, con una proposta formulata alla prima udienza e, comunque, prima dell’istruttoria. Ciò lo consente l’art. 185 bis c.p.c.; per formulare la proposta il giudice può sentire in contraddittorio le parti (e i loro difensori), dopo aver letto attentamente le carte del processo. Pochi giudici fanno però uso di questa norma. E fra costoro si segnalano, purtroppo, proposte fuori da ogni possibile realtà conciliativa, Va chiarito che il giudice deve avere pazienza e disponibilità (non essendo un despota) e deve ricercare, con sapienza ed abilità, il dialogo tra le parti. In conclusione, va sottolineato che qualsiasi innovazione processuale non può ledere il diritto di difesa (art. 24) e il giusto processo (art. 111) di cui alla nostra Costituzione. 

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