una lucida diagnosi, una confortante prospettiva
Seconda parte contenente i punti più salienti della relazione sulla situazione della giustizia nel 2014 nel distretto della Corte d’Appello di Roma, svolta lo scorso gennaio dal Procuratore Generale f.f. dott. Antonio Marini nella cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2015.
Qui la prima parte.
L'eccessiva durata dei processi. La macchina della giustizia penale continua ad arrancare, rivelandosi inadeguata ed inefficiente. Anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha già condannato più volte il nostro Paese per violazione dell’articolo 6 della convenzione europea dei diritti umani a causa della eccessiva durata dei procedimenti penali (e civili), ha ormai preso atto della difficilissima situazione in cui si trova la macchina della giustizia italiana. Nelle più recenti sentenze i giudici di Strasburgo hanno stabilito che il sovraccarico cronico dei Tribunali italiani non può in alcun modo essere addotto a giustificazione dei ritardi, dato che ogni Paese che ha sottoscritto la convenzione europea deve rispettarne pienamente i principi.
Alla sacrosanta riforma del «giusto processo» non ha fatto seguito una riforma organica della giustizia penale, essendosi limitato il legislatore a varare una serie di riforme improvvisate e ispirate a situazioni contingenti insoddisfacenti o disorganiche, che hanno dilatato anziché ridurre, i tempi del processo, accentuando la grave crisi di efficienza e di funzionalità in cui versa il sistema giudiziario italiano, che si traduce in crisi di credibilità della giustizia, con gravi ricadute sulla legalità e l’uguaglianza dei cittadini. Tale situazione è causata principalmente dalla cronica carenza di risorse materiali e personali, dai gravi vuoti nell’organico del personale amministrativo, largamente inferiore alla necessità minima del sistema. Mentre il magistrato esamina, istruisce e definisce una buona quantità di fascicoli, segreteria o cancelleria non riescono a dar corso agli adempimenti conseguenti, ritardando l’inoltro del procedimento verso le fasi successive. Alla Procura di Roma si è cercato di porre rimedio con l’istituzione di segreterie centralizzate dove, sotto la guida di un procuratore aggiunto, vengono definiti i procedimenti cosiddetti «seriali».
La spada di Damocle della prescrizione. Il Tribunale non è in grado di gestire la massa di procedimenti inoltrati dalla Procura, per cui si è stabilito di procedere a un inoltro scaglionato dei procedimenti, cercando di mantenere sotto controllo l’avvicinarsi della prescrizione, spada di Damocle che pende sul capo di molti processi. Strettamente connessa all’eccessiva durata dei procedimenti è la ricorrente prescrizione dei reati. «Fermare lo scandalo della prescrizione», ha detto con risolutezza il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, dopo che la Corte di Cassazione dichiarando prescritto il reato ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna di appello a 18 anni di reclusione per disastro doloso del magnate svizzero Steven Schmidheiny, nel maxi processo Eternit. «Come può cadere in prescrizione la ricerca della verità e la speranza della giustizia?», si è chiesto stupefatto il Capo del Governo, che ha aggiunto: «Da premier dico: processi più veloci, ma senza l’incubo della prescrizione; bisogna cambiare le regole; serve subito una corsia preferenziale: sarebbe un atto di assoluta giustizia per il Paese». Parole che riaccendono la speranza su una giustizia più rapida e giusta.
Poche volte una legge, come quella attuale, in materia di prescrizione, è stata percepita come «sbagliata» e quindi da cambiare, eliminando le storture di un sistema che vanifica anni di lavoro con grave dispendio di energie umane e risorse economiche. La soluzione più drastica è abolirla o farla decorrere dal momento in cui si scopre il reato: la «notitia criminis» viene molto spesso acquisita a distanza di tempo dalla commissione del reato, e renderla inoperante dopo la pronuncia della sentenza di primo grado. Nel Regno Unito e negli Stati Uniti i tempi della giustizia penale (e civile) sono resi ragionevoli da altre norme, senza prescrizione dei reati.
Nei Paesi in cui questa non esiste, i colpevoli si dichiarano tali per avere uno sconto di pena, così i processi finiscono subito e alle vittime viene resa giustizia. In Italia si è presunti innocenti anche se si confessa il reato, fino alla sentenza di condanna definitiva dopo ben tre gradi di giudizio. Non ci si deve meravigliare se l’imputato fa di tutto per allungare i tempi del processo e per guadagnare la prescrizione e farla franca a danno delle vittime. L’annunciata modifica della prescrizione, oggi patologica e patogena - denuncia l’Associazione Nazionale Magistrati -, non tocca la riforma del 2005, avvenuta con la cosiddetta legge ex Cirielli, una delle varie leggi ad personam, risolvendosi nella debole scelta di introdurre due nuove ipotesi di sospensione temporanea ed eventuale del suo decorso. A quanto pare la riforma sulla giustizia proposta dal Governo non piace all’ANM che la ritiene «deludente ed inefficace».
Il 9 novembre 2014, l’ANM ha denunciato il diffondersi di un dibattito pubblico superficiale intriso di propaganda, pregiudizi e luoghi comuni, fino a rivolgere ai magistrati accuse infondate e ingiuriose di inefficienza e irresponsabilità. In realtà, solo l’impegno straordinario dei magistrati e del personale di cancelleria, ha potuto finora contenere i danni peggiori e ridurre in molti casi l’arretrato grazie a una produttività eccezionale. Secondo il ministro della Giustizia Andrea Orlando «la modifica della legge Vassalli sulla responsabilità civile dei magistrati non è un attacco alla loro indipendenza ma un intervento a tutela dei cittadini»; e «il Governo ha contrastato qualsiasi ipotesi possa comprimere l’autonomia del magistrato».
La minaccia terroristica. Si fa sempre più grave la minaccia di matrice jihadista, come dimostrano la strage al giornale satirico Charlie Hebdo e quella al supermercato ebraico Kosher, che hanno colpito il cuore dell’Europa e insanguinato le vie di Parigi. Questa volta i protagonisti sono i «foreign fighters», quei cittadini europei che si sono uniti all’Isis o ad Al Qaeda, andando a combattere in Siria e in Iraq e che poi fanno ritorno in patria con l’intenzione di continuare l’attività jihadista nei rispettivi Paesi, dando vita a forme diverse del conflitto a cui hanno partecipato nei teatri di guerra, secondo una strategia definita dei «mille tagli», intesa come lento dissanguamento del nemico che per loro è il mondo occidentale. L’Europol stima che siano circa 5 mila i cittadini europei che si sono uniti ai jihadisti nei teatri di guerra e che potrebbero compiere attentati terroristici una volta tornati in patria.
Secondo il suo direttore, Rob Wainwright, l’Europa ha di fronte «la più grave minaccia terroristica dall’11 settembre». In Italia, secondo l’ultima stima fornita dal ministro dell’Interno, Angelino Alfano, sono 59 le persone coinvolte con i trasferimenti verso i teatri di guerra della Siria e dell’Iraq. Ultimamente sono stati espulsi dal territorio italiano nove soggetti a rischio. Due avevano coinvolto le loro famiglie per andare a combattere in Siria, il terzo si era auto-radicalizzato sul web, il quarto aveva assunto quasi il ruolo di reclutatore, gli altri erano internauti attivi e avevano aderito all’Isis.
È un’organizzazione terroristica, di matrice jihadista-sunnita, guidata da Abu Bakr al Baghdadi, stella nascente del fondamentalismo islamico, che combatte nella guerra civile in Siria contro il presidente sciita Bashar Al Assad e che ha assunto il controllo di parti rilevanti del territorio siriano e iracheno, dichiarando la nascita di uno Stato islamico, amministrato secondo i dettami della Sharia. Un’organizzazione spietata, che non ha precedenti nella storia del terrorismo internazionale, con un’attività essenzialmente terroristica, ma anche militare nel senso tradizionale del termine; che si è resa responsabile di crimini e che teorizza una guerra totale e interna allo stesso Islam, oltre che contro l’occidente, con il proposito di annientare ogni minoranza etnico-religiosa. Il suo capo, in uno dei suoi deliranti discorsi diffusi in rete da siti jihadisti non ha esitato ad evocare Roma come obiettivo della guerra santa.
Anche a voler ritenere che la città eterna, culla della cristianità, di cui si vagheggia la conquista sia stata evocata con riferimento al suo valore simbolico, è bene non sottovalutare il pericolo. Sui muri della capitale sono apparsi slogan e scritte in arabo che inneggiano ai guerrieri di Allah, con accanto il disegno della bandiera nera dell’Isis, divenuta un’icona del terrore.
Fra i principali fattori di rischio v’è anche l’accensione improvvisa di cellule dormienti, persone che, pur non facendo parte di associazioni terroristiche strutturate, sono pronte a risvegliarsi e a realizzare attentati aderendo al richiamo della jihad globale. Purtroppo sono sempre più numerosi i soggetti presenti in Europa e in Italia vicini alle posizioni più radicali all’estremismo islamico che possono essere considerati a rischio: tra loro convertiti, predicatori, migranti di seconda generazione e reduci dai teatri di guerra.
La stragrande maggioranza si radicalizza sul web, attingendo dalla propaganda dei siti e dei forum jihadisti presenti in rete. Il web costituisce un mezzo potente di propagazione della minaccia portata dall’Isis al mondo occidentale. La capacità diffusiva della rete costringe a fare i conti con la dimensione di massa che ha assunto il fenomeno della cooptazione e del reclutamento attraverso internet, nel quale il contatto con l’aspirante jihadista non richiede né strutture, né articolazioni organizzative complesse.
V’è la necessità di rafforzare gli strumenti normativi in materia di terrorismo per affrontare con più efficacia questo grave e insidioso fenomeno, elaborando nuove norme che sembrano in arrivo come è stato annunciato dal ministro dell’Interno, Alfano, che tengano conto della evoluzione della minaccia terroristica. Apprezzabile la proposta di introdurre una nuova fattispecie di reato che renda possibile la punizione di chi partecipa a conflitti armati o ad atti di terrorismo che si svolgano fuori dai nostri confini, anche quando il responsabile non risulti appartenere ad alcuna associazione di stampo terroristico, né abbia svolto il ruolo di reclutatore, ipotesi quest’ultima già prevista e punita dall’articolo 240-quater del codice penale.
Qualche proposta. Una quella di includere tale soggetto tra quelli cui è possibile applicare la sorveglianza speciale con obbligo di dimora, sottoponendo l’aspirante terrorista a uno stretto controllo di polizia e applicando nei suoi confronti tutta quella serie di misure di prevenzione che oggi vengono applicate ai mafiosi che lo priverebbero di ogni libertà di movimento, vanificando sul nascere, il proposito di compiere attentati. Resta sempre valido il progetto di costituire una squadra multinazionale dedicata al fenomeno dei combattenti stranieri per favorire la cooperazione operativa, già accolto positivamente dal coordinatore europeo per la lotta al terrorismo, Gilles de Kerchove, il quale ha messo in guardia contro il rischio di «radicalizzazione nelle carceri», sostenendo che «le prigioni sono una incubatrice della radicalizzazione massiccia».
Nell’era del cambiamento, promosso con vigore e determinazione, da un Presidente del Consiglio, che ha messo il «turbo» alle riforme, come egli stesso ha detto, l’auspicio è che sia finalmente istituita la Procura Nazionale Antiterrorismo, attesa dal 1992 quando fu istituita la Procura Nazionale Antimafia, alla quale fui trasferito nello stesso anno, insieme a Nitto Palma e Luigi De Ficchy, già impegnati come me nella lotta alla criminalità organizzata e terrorismo. Sono quasi 40 gli anni trascorsi da quel fatidico 1978, anno in cui le Brigate Rosse hanno attaccato il cuore dello Stato, con la strage di Via Fani, il sequestro e l’omicidio del Presidente della D.C. onorevole Aldo Moro. Abbiamo dovuto aspettare tanto per avere un organismo tanto agognato quanto continuamente rinviato, che renda più efficace il coordinamento delle indagini sul terrorismo. Una strategia d’indagine efficace e tempestiva non può prescindere dalla costituzione anche di una banca dati nazionale, analoga a quella realizzata per la criminalità mafiosa.
La giornata per la giustizia. Il 17 gennaio è stato un momento prezioso per far conoscere il punto di vista dei magistrati sulle riforme emanate e prossime del Governo, e portare a conoscenza dei cittadini le reali condizioni di lavoro dei giudici e del personale ausiliario senza spirito di polemica. La manifestazione è servita ad avvicinare i cittadini al mondo giudiziario. Il guardasigilli, dopo aver riconosciuto che l’inversione di rotta dei dati ministeriali, soprattutto su carcere e giustizia civile, è in buona parte dovuta a quanto è stato seminato dai due Governi precedenti, ha assicurato l’impegno a proseguire puntando sull’«innovazione tecnica», garantendo un supporto essenziale alle riforme normative per il recupero di efficienza. Un impegno in passato disatteso per le politiche orientate più alla resa dei conti con la magistratura che al buon funzionamento della giustizia. Prendiamo atto con soddisfazione di quanto affermato dal ministro, che cioè «la modifica della legge sulla responsabilità civile dei magistrati non è un attacco alla loro indipendenza ma un intervento a tutela dei cittadini».
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