Roma 2014: più male che bene
Relazione sulla situazione della giustizia nel 2014 nel distretto della Corte d’Appello di Roma, svolta lo scorso gennaio dal dott. Antonio Marini nella cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2015. Qui la seconda parte.
Il poco tempo a disposizione mi costringe a limitarmi ad alcune considerazioni di carattere generale sui temi più importanti e attuali. La relazione contiene un’analisi dettagliata della situazione della giustizia penale nel Lazio, con particolare riferimento ai settori di competenza di questa Procura Generale e delle Procure della Repubblica del Distretto. Una situazione che non è sostanzialmente cambiata rispetto a quella degli anni precedenti: grave ed allarmante era allora e tale è rimasta nel 2014. Anzi, si può dire che si è ulteriormente aggravata, anche a causa del protrarsi della drammatica congiuntura economico-finanziaria che ha agevolato il diffondersi della criminalità organizzata nel Lazio e a Roma.
L’esempio più emblematico è rappresentato dall’inchiesta «Mafia Capitale», condotta dalla Procura della Repubblica di Roma, sotto la direzione del Procuratore Giuseppe Pignatone, che ha svelato l’esistenza di un’organizzazione di tipo mafioso, capace di intimidire e corrompere politici di ogni schieramento e mettere le mani su appalti e servizi pubblici del Campidoglio e della Regione Lazio. Un’inchiesta, altrimenti denominata «Mondo di mezzo», durata circa due anni, che ha portato all’adozione di 37 misure cautelari, emesse dal Gip Flavia Costantini, ed eseguite dai Ros dei Carabinieri e dalla Guardia di Finanza di Roma, e al sequestro di beni per un valore di circa 300 milioni di euro, in esecuzione di provvedimenti emessi dal Tribunale-Sezione misure di prevenzione, dalla quale è emersa l’esistenza di un sodalizio criminoso basato su un sistema di complicità tra politica e criminalità, ampiamente strutturato, capillare e invasivo, assolutamente originale, resosi responsabile di una serie di reati particolarmente gravi, tra cui l’associazione di tipo mafioso.
Si tratta di un’organizzazione criminale, guidata da un ex terrorista, ex banda della Magliana, negli anni riuscita ad infiltrarsi nella gestione degli appalti e servizi pubblici, dei centri di accoglienza per immigrati e dei campi nomadi, manipolando nomine e indirizzando scelte politiche dell’Amministrazione, finanziando campagne elettorali, affiliando imprenditori, avvalendosi della forza della intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà, differenziandosi dalle cosiddette mafie tradizionali.
Sottolinea il Gip: un’organizzazione tanto pericolosa quanto poliedrica che, per dirla con le parole degli stessi indagati, operava soprattutto in un «mondo di mezzo», un luogo dove, per effetto della potenza e autorevolezza di «Mafia Capitale», si realizzavano sinergie criminali e si componevano equilibri illeciti tra il «mondo di sopra», fatto di colletti bianchi, imprenditori ed esponenti delle istituzioni, e il «mondo di sotto», fatto di rapinatori, trafficanti di droga, gruppi operanti illecitamente con uso di armi. Il Tribunale del Riesame ha confermato in massima parte i provvedimenti cautelari emessi nei confronti degli imputati e riconosciuto la sussistenza del reato di associazione di stampo mafioso.
L’inchiesta romana ha messo in luce il crescente intreccio tra mafia e corruzione, due mali endemici della società, e che spesso coincidono perché dove c’è mafia è più forte e penetrante la corruzione. Un altro esempio significativo è l’operazione «Tramonto», svolta dalla Guardia di Finanza nella provincia di Roma, che ha fotografato una mafia moderna e imprenditrice, con struttura articolata e complessa, attitudine colonizzatrice ed espansionistica, in linea con le vere e proprie holding economiche e finanziarie, che ha raggiunto un’elevata efficienza operativa e una leadership conquistata grazie ad un’affidabilità economica consolidatasi nel tempo.
Le articolate indagini svolte dal dicembre 2013 all’aprile 2014 hanno accertato il compimento di plurimi trasferimenti fraudolenti societari finalizzati ad incrementare e preservare il patrimonio dell’associazione mafiosa di Ostia Lido denominata «Clan Fasciani», favorendone la continua operatività. Le indagini hanno documentato una vera «espansione mafiosa» e una capillare acquisizione di consistenti fette del mercato attraverso ramificati investimenti nei settori che meglio si prestano al reimpiego dei proventi illeciti, permettendo l’individuazione di nuove realtà imprenditoriali, strumentali al mantenimento economico e all’egemonia criminale del Clan: vera e propria joint-ventures tra mafiosi e imprenditori romani prestatisi a camuffare i patrimoni illeciti.
I criminali non hanno esitato a sfruttare i nuovi strumenti societari introdotti con la recente riforma del diritto delle società di capitali. Le astute forme di intestazione fittizia, infatti, sono state poste in essere mediante la costituzione delle cosiddette «S.r.l. semplificate» altrimenti note come «S.r.l. ad 1 euro», con le quali hanno acquisito i rami di società già sequestrate, svuotandole dei patrimoni aziendali, svilendo gli effetti di precedenti provvedimenti ablativi. Le investigazioni hanno accertato come le costituzioni di tali società rappresentassero solo atti fittizi in successione: dietro i quali veniva nascosta l’effettiva riconducibilità delle attività al Clan, resa possibile grazie al «volto pulito» offerto dalla cosiddetta area grigia che, lungi dall’affrancarsi dalle dinamiche criminali, è scesa a patti e ha fatto affari con la mafia.
Crea forte preoccupazione l’infiltrazione della criminalità organizzata nel mondo del calcio, come emerge da una serie di episodi e inchieste giudiziarie avviate di recente. Con le cifre folli che girano ormai da qualche anno, il calcio è diventato un grande business, ma è anche una potentissima arma di consenso e di coesione sociale, elementi di cui la criminalità è alla costante ricerca. Negli ultimi anni i rapporti fra la criminalità organizzata sono diventati sempre più stretti e connotati di ambiguità, soprattutto quelli con la tifoseria degli ultras.
Un episodio di questo tipo si è verificato in occasione della partita Fiorentina-Napoli del 3 maggio 2014 nello stadio olimpico di Roma, quando Gennaro De Tommaso, noto alle cronache come «Genny la carogna», scavalcando la barriera separatoria dell’interno del campo, in concomitanza con l’inizio della partita e la diffusione della notizia del grave episodio violento in cui era rimasto gravemente ferito il tifoso Ciro Esposito, ha cercato di influenzare l’andamento dell’evento sportivo, ostentando un’apparente capacità di controllo della massa dei tifosi partenopei di cui si poneva referente. Fatto, indubbiamente grave e sconcertante, che non ha generato conseguenze più gravi grazie solo alla freddezza e all’equilibrio delle forze di polizia. L’episodio dimostra come la violenza degli ultras dentro e fuori gli stadi non è solo questione di ordine pubblico. L’accurata attività di indagine svolta dalla Digos di Roma è sfociata nel provvedimento cautelare degli arresti domiciliari, emesso dal Gip Rosaria Monaco nei confronti del De Tommaso il 22 settembre 2014.
L’aggressione a Ciro Esposito ha portato invece all’arresto, in flagranza di reato, di Daniele De Santis, con l’accusa di tentato omicidio e rissa aggravata, poi mutata in omicidio volontario a seguito della morte del povero Esposito.
Per quanto riguarda la corruzione non v’è dubbio che abbia superato il livello di guardia per le sue intensità e pervasività, riguardando ormai tutti i settori della società, come dimostrano le inchieste giudiziarie Mafia-Capitale a Roma, Expo a Milano, Mose a Venezia e tante altre venute alla ribalta della cronaca. Per dirla con le parole usate dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, il fenomeno ha assunto una «dimensione intollerabile» che ci costa 4 punti di prodotto interno, riduce del 16 % gli investimenti stranieri e aumenta del 20 % i costi degli appalti. Secondo altre stime, il costo della corruzione per la collettività ammonta a 60 miliardi di euro, mentre l’evasione fiscale si attesta sui 130 miliardi e il fatturato delle mafie supera i 150 miliardi. L’ordine di grandezza di questi fenomeni illeciti è enorme.
È il segnale che un’ampia parte del Paese vive nell’illegalità e dell’illegalità. E ciò spiega anche l’origine del degrado politico, economico e sociale. Si tratta di fenomeni che non si possono combattere solo da un punto di vista giudiziario, ma occorre una vera e propria rivoluzione culturale. Per contrastare il fenomeno della corruzione occorre riscrivere le norme uniformandole alle convenzioni internazionali, modificare il sistema della prescrizione e prevedere operazioni di polizia sotto copertura per individuare i corrotti, analoghe a quelle previste per mafia e terrorismo.
Tali operazioni sono frequenti nel mondo anglosassone: negli Stati Uniti sono chiamate «test di integrità»: offerta o richiesta, da parte di un agente di polizia sotto copertura, di denaro o altra utilità e arresto di chi accetti la proposta. Sulla diffusione della corruzione è intervenuto Papa Francesco che, parlando del «peccato della corruzione, ha affermato con amarezza: «Ci sono i corrotti politici, i corrotti degli affari, i corrotti ecclesiastici. Ci sono corrotti ovunque».
Di qui la sconfortante affermazione del Pontefice che «a pagare il prezzo della corruzione sono sempre i poveri». Seguita dal severo monito a «servire i deboli e non a servirsi dei deboli». Chiaro il riferimento a quanto emerso dalle indagini sullo sfruttamento degli immigrati nell’inchiesta romana. Gli inquirenti lo definiscono un Sistema escogitato appositamente per l’emergenza immigrati, nella quale il meccanismo delle cooperative si è insinuato con metodo eminentemente corruttivo nella gestione dei fondi per i centri di accoglienza, alterando per un verso i processi decisionali, per un altro verso i meccanismi fisiologici dell’uso delle risorse economiche gestite dalla pubblica amministrazione. L’indice 2014 di Trasparency International, che riporta le valutazioni degli osservatori internazionali sulla corruzione in 175 Paesi del mondo, colloca l’Italia al 69esimo posto della classifica generale, lo stesso del 2013, fanalino di coda dei Paesi del G7 e ultimo nell’Unione Europea.
Nel panorama globale, in una scala da zero (gravemente corrotto) a 100 (assolutamente pulito) il nostro Paese con i suoi 43 punti si colloca tra le nazioni del mondo che non raggiungono neppure la sufficienza in trasparenza. Il fatto che, nel vertiginoso scivolamento verso il basso avvenuto negli anni precedenti, sia stato conservato nella classifica lo stesso posto del 2013 costituisce tuttavia un segnale positivo, coincidendo con i mesi in cui è stata varata la legge Severino sulla corruzione e a quelli più recenti in cui il Governo Renzi, mostrando di voler reagire con fermezza al dilagare della corruzione, ha dato un impulso concreto in tale direzione creando l’Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac) e scegliendo come presidente Raffaele Cantone, magistrato a lungo impegnato sul fronte della lotta contro la mafia. Fattori che hanno contribuito a non peggiorare ulteriormente la situazione agli occhi degli organismi internazionali, ma che non sono bastati a migliorarla.
Tuttavia il segnale dato questa volta dalla politica non sembra solo simbolico ma effettivo e reale. Si spera che l’Anac non rimanga una scatola vuota, e che Cantone sappia utilizzare nel modo migliore gli ampi poteri che gli sono stati attribuiti con il decreto legge del 24 giugno 2014 n. 90, mettendo in campo gli anticorpi necessari a prevenire la corruzione, come quello di una pubblica amministrazione sempre più trasparente.
La corruzione si annida soprattutto nelle pieghe della burocrazia che non funziona e che pone ostacoli, i quali spesso vengono superati proprio corrompendo funzionari infedeli o mettendoli a «libro paga», come è emerso dall’inchiesta Mafia Capitale. Nonostante sia molto diffusa, la corruzione resta però sostanzialmente impunita, anche a causa della prescrizione che falcidia proprio tali reati. Intorno a questo fenomeno vi è un’ampia zona grigia di omertà che rende le indagini spesso difficili, complesse e a volte scomode, per cui la prima cosa da fare sarebbe quella di spezzare il comune interesse al silenzio di corrotti e corruttori, prevedendo norme premiali per chi fornisce notizie di reato e prove, analogamente a quanto avviene in materia di collaboratori di giustizia in tema di criminalità organizzata e terrorismo. Prendiamo atto con soddisfazione che il Governo, come ha dichiarato il ministro della Giustizia nell’inaugurazione dell’anno giudiziario presso la Corte di Cassazione, ha espresso consenso ad un emendamento in fase di approvazione in Parlamento, che prevede un’attenuante per l’imputato che collabora nelle inchieste per corruzione. In un momento di crisi economica occorrono misure per tutelare le attività imprenditoriali dai rischi di contaminazione criminale del mercato, come tali devastanti la libera concorrenza e la capacità del sistema produttivo di attrarre investimenti e sostenere la crescita economica. Una strategia di lotta alla criminalità economica impone una risposta coordinata a livello internazionale con il rafforzamento della cooperazione. Il modo più efficace è introdurre nel sistema penale il reato di autoriciclaggio, dando risposta alle varie sollecitazioni formulate in sede sovranazionale e internazionale.
Va accolta con favore la nuova legge n. 186 del 2014 che introduce nel codice penale questa nuova fattispecie di reato, che renderà più incisivo il contrasto al fenomeno dell’accumulazione di patrimoni illeciti, e rinnoverà l’azione di indagine anche quando il reato non possa più essere perseguito. Una più efficace azione di contrasto alla corruzione e alla criminalità economica, richiede anche la reintroduzione del delitto di falso in bilancio cui sovente si fa ricorso per costituire fondi occulti destinati a fini corruttivi. (Continua)
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