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GIULIO ANSELMI: FIEG, IL GIORNALISMO TRA IERI, OGGI E DOMANI

di VICTOR CIUFFA

 

Fra i più illustri giornalisti italiani, dopo un’intensa carriera al vertice dei più prestigiosi quotidiani e periodici nazionali, per la sua competenza, preparazione ed esperienza Giulio Anselmi è stato scelto dagli editori addirittura al vertice della loro categoria, ovvero la Federazione Italiana Editori Giornali, oltreché alla presidenza dell’ANSA, la maggiore agenzia di stampa italiana a servizio dei giornali voluta e sostenuta dagli stessi editori. Laureato in Giurisprudenza, cominciò nel giornalismo nel Corriere Mercantile di Genova, per passare a Stampa Sera, poi a La Stampa quindi, come inviato speciale, al settimanale Panorama. Successiva tappa fu Il Secolo XIX di Genova, quindi divenne direttore del settimanale Il Mondo, vicedirettore e poi condirettore del Corriere della Sera. Nel novembre 1993 fu nominato direttore de Il Messaggero, quindi di nuovo al Corriere della Sera come editorialista, poi direttore dell’ANSA e de L’Espresso ed editorialista del quotidiano dello stesso Gruppo, ossia La Repubblica. Dal 2005 al 2009 Giulio Anselmi ha diretto La Stampa di Torino quindi è stato nominato presidente dell’ANSA. Lo scorso anno è stato chiamato anche al vertice della FIEG. Una carriera giornalistica eccezionale, caratterizzata da una grande attività professionale come quelle di giornalisti famosi di un tempo. Sulla sua poltrona, al vertice della FIEG, si sono seduti negli ultimi decenni illustri giornalisti come Gianni Granzotto e Giovanni Giovannini. Una carriera, quella di Anselmi, sognata da tutti i giornalisti, di ieri, di oggi e sicuramente da quelli di domani.

Domanda. Attualmente si parla di crisi nell’editoria cartacea e, come rimedio, si investe nel digitale, ovvero nei giornali on line. Siamo sicuri che internet, oltre ad essere un utilissimo strumento di lavoro, di diffusione di notizie e di cultura, non si riveli prima o poi una bolla, come sono state nel recente passato quelle delle cosiddetta new economy e dei futures?
Risposta. La crisi che noi conosciamo non è dell’informazione, ma dell’informazione cartacea. Quest’ultima attraversa un periodo difficile, ha perduto una grande quantità di lettori. Quelli dei quotidiani erano già 6 milioni all’inizio della crisi economica e sembravano già pochi; nel giro di pochissimi anni sono scesi a meno di 4 milioni. È un dato evidentemente preoccupante, che ci costringe a distinguere l’informazione tradizionale almeno su due piani, a parlare cioè di una doppia informazione, quella cartacea e quella cosiddetta digitale. Il ruolo degli editori è quello di difendere il proprio prodotto, cioè i contenuti che riescono a produrre nel quadro di un’economia che si sta completamente spostando verso il digitale. Il mondo sta cambiando, è in atto una grande trasformazione, dall’era analogica si sta passando a quella digitale. In questo contesto l’informazione, anche se non lo volesse, è costretta ad adeguarsi al cambiamento che sta subendo la società.

D. In quale modo avviene questo adeguamento?
R. In questo quadro si parla ormai ininterrottamente di multimedialità, cioè di usare diverse piattaforme per cui alcuni gruppi editoriali e molti giornalisti possono continuare a svolgere la tradizionale attività di informazione cartacea; altri gruppi, ed anche gli stessi, possono dedicarsi all’informazione digitale diffusa attraverso i tablet, che offrono una versione del giornale molto simile a quella cartacea, caratterizzata dalle stesse tempistiche e dalla stessa struttura logica. Oltre a questa forma esiste poi il sito, che richiede un aggiornamento dei notiziari ininterrotto per 24 ore su 24, compiuto in tempo quasi reale. Per svolgere tali attività è evidente la necessità di un modello di azienda e di giornalismo nuovo.

D. Quali precisamente?
R. Per quel che riguarda l’azienda, l’organizzazione del lavoro deve essere impostata su nuovi criteri. L’ufficio centrale dei giornali deve decidere quali contenuti indirizzare da una parte e quali dall’altra, ferma restando la constatazione che ormai si è abbandonata l’idea di resistere il più possibile nell’informazione cartacea. Ricordo che quando dirigevo giornali diffusi in edizione cartacea e digitale, mi preoccupavo della cosiddetta «cannibalizzazione» dell’una in danno dell’altra; adesso, per quanto riguarda le notizie, non si può più avere questo tipo di preoccupazione. Oltre a una sorta di rielaborazione finale delle notizie, si può conservare al giornale cartaceo la realizzazione di una serie di prodotti originali, che possono essere interviste, inchieste, editoriali, news analysis, ma vanno abbandonati tutti i prodotti legati alla velocità.

D. Qual è la strada per arrivare a questo obiettivo finale?
R. Sia nell’organizzazione del lavoro che negli investimenti finanziari il modello dell’azienda deve cambiare, come pure deve cambiare il modo di fare il giornalista. Ricordo alcune «firme» che 10 anni fa rifiutavano ancora il computer e usavano la macchina da scrivere Olivetti. Non sono mai stato tra questi, ho subito imparato a usare il computer perché ritenevo che servisse, come pure il telefonino, pur non essendo un appassionato delle tecnologie che considero uno strumento; mi sono sempre sforzato di usare quello che aiuta il nostro lavoro. A proposito di «firme» che rifiutavano di lavorare con il computer, ritengo che chi lo fa oggi in un giornale sbagli. Ricordo altresì che, se il direttore ci avesse chiesto anche di fotografare la persona che dovevamo intervistare, ci saremmo sentiti offesi; ed infatti ci recavamo ad intervistarli accompagnati da un fotografo.

D. Come deve essere oggi, secondo lei, il giornalista?
R. Deve essere in condizione di svolgere l’intervista, eseguire la fotografia, preparare eventualmente una sintesi per la radio, realizzare un video per la televisione. Oggi, chiunque voglia intraprendere questa professione, deve saper svolgere tutte queste attività, e ciò non solo costituisce un fattore assolutamente preferenziale per un’assunzione, ma è consigliabile anche per chi desidera conservare il posto di lavoro.

D. Cosa indicherebbe agli editori per superare la crisi?
R. Credo che sbaglierebbero se si rifugiassero in internet considerandola una via di salvezza. Internet è certamente una strada per il futuro, nel senso che bisogna investire in essa, avere prodotti in rete, ritenerla una soluzione per lo sviluppo. Ma pensare, come avviene oggi, che basti semplicemente usare internet come strumento di salvezza è assolutamente insufficiente. Perché esiste un problema di qualità che resta centrale in ogni tipo di informazione.

D. La crisi economica ha ridotto l’acquisto di giornali, ma molti giornalisti, forse per direttive aziendali, da qualche anno ricorrono ad artifici grafici che allontanano i lettori. Ad esempio lasciano ampi spazi del giornale vuoti, o li occupano con foto, tabelle o disegni spesso inutili, riducendo il numero e la completezza di notizie e articoli pubblicati. Ne risulta uno svuotamento del contenuto che i lettori avvertono, mentre il prezzo del giornale non cala in proporzione. Si risparmia sull’impiego dei giornalisti?
R. La prima volta che fui caporedattore al Secolo di Genova, per chiudere velocemente la prima edizione del giornale in occasione di elezioni politiche riempii uno spazio vuoto della prima pagina con la foto di un pacchetto di sigarette. Ma sul ricorso alla grafica occorre distinguere. Ha un’importanza enorme perché trasforma un giornale in un oggetto, e può renderlo più piacevole e gradevole. Io portai La Stampa, ultimo quotidiano che ho diretto, dal grande formato a quello attuale. In questo senso la grafica è di grande aiuto, consente di inserire foto, di organizzare meglio il materiale. Ancor più della ricchezza di notizie, oggi conta la loro presentazione. Spesso però si dimentica che la grafica è uno strumento per arricchire l’informazione. Quando, sulla base di valutazioni puramente estetiche, vengono eliminati spazi e resa più difficile la lettura, la grafica e chi la fa, che sono solo strumenti, non migliorano più l’informazione. Altre volte lo spazio si spreca per accontentare persone o categorie, per cui sullo stesso tema gli articoli si moltiplicano, si sovrappongono, affaticano il lettore.

D. Un tempo in un solo articolo il «pastonista» faceva il punto su tutto, affiancato dai resocontisti dell’attività di Camera, Senato, Presidenza del Consiglio. Non è eccessivo e frastornante per i lettori il numero degli articoli oggi dedicati alla politica?
R. Certamente le pagine ad essa dedicate sono eccessive. Ma il «pastone» è stato recuperato e molti giornali, come il Corriere della Sera, sia pure sotto forma di rubrica, sostanzialmente l’hanno reintrodotto. Era molto criticato come genere, ma credo dipendesse dal fatto che poteva servire a nascondere alcune notizie; essendo un articolo sintetico, consentiva di avere un quadro della giornata politica, e da quel punto di vista era molto utile.

D. Un tempo c’erano anche i partiti tradizionali che stabilivano la loro linea programmatica in congressi periodici, consigli nazionali, comitati e direzioni centrali. Oggi ogni esponente politico si sente libero di parlare, soprattutto dinanzi a una telecamera. In tal modo la televisione non nuoce al vero giornalismo, ed ancora di più a quello su carta?
R. Sicuramente la televisione ha ridotto molto l’efficacia del giornalismo cartaceo soprattutto per i grandi numeri dei cittadini che raggiunge. Il giornalismo cartaceo da anni si è ridotto a parlare all’establishment politico. Sui grandi numeri dei cittadini la tv è largamente dominante, un conduttore di talk show conta più di gran parte dei direttori di giornali. Non c’è dubbio che la situazione sia cambiata. Per il giornalismo è nocivo il metodo attuato in molti talk-show nei quali l’esponente politico afferma quello che vuole, al limite anche un falso plateale, senza avere un qualche contro-interrogatorio, per cui spesso il giornalista non è in grado di replicare. Ma questo non è propriamente giornalismo. Il giornalismo televisivo si fa nei telegiornali ed è altrettanto rispettabile quanto quello cartaceo. Anzi per molti aspetti è anche più efficace. Quello dei talk-show è una via di mezzo, è «entertainment», spettacolo, metà giornalismo e metà intrattenimento, ha il meglio e il peggio delle due attività.

D. Questo riduce però l’interesse verso i giornali, anche se esiste uno zoccolo duro di lettori che cercano in questi maggiori approfondimenti. Ritiene che il giornalismo cartaceo sparirà?
R. Non posso prevederlo, mi auguro di no. Negli Stati Uniti molti osservatori ne hanno previsto da tempo la fine. Alcuni avevano indicato date che sono state già superate, mentre i giornali esistono ancora. Io credo che questi dovranno essere diversi, meno legati alle notizie, meglio costruiti, più approfonditi, rivolti a un numero minore di lettori ma più acculturati. È vero che oggi, per i lettori più acculturati e per l’establishment, se una notizia non compare sul Corriere della Sera o su La Repubblica è come se non esistesse.

D. È possibile la rinascita di giornalisti come Orio Vergani, Indro Montanelli, Dino Buzzati, Domenico Bartoli, Virgilio Lilli, Max David, Vittorio G. Rossi, Eugenio Montale, Gaetano Afeltra, ossia dei grandi inviati dell’epoca costituenti lo staff del Corriere di allora? È facile assurgere alla notorietà grazie alla televisione, ma mancano la qualità e l’autorevolezza delle grandi firme degli anni 50 e 60. È possibile formare una classe di giornalisti culturalmente preparati, che sappiano trattare tutti i temi del mondo?
R. Ci sono ancora molti giornalisti capaci, ma francamente non riesco a immaginarne in questo momento un numero significativo di quel livello. Ma è anche vero che la funzione crea l’organo, per cui se non si legge più, è difficile che vi sia gente che sappia scrivere. Temo che il mestiere di giornalista come noi l’abbiamo conosciuto sia destinato a un declino; il giornalista professionista medio continuerà ad esservi, anzi si assiste alla nascita di nuove figure come il «citizen journalism». I grandi eventi come le «primavere arabe» dimostrano l’esistenza di fotografi improvvisati e quello su Twitter è un tipo di giornalismo diverso, non professionale, ma pur sempre giornalismo. Così come quello dei giovani su internet.

D. Ma è anche di qualità?
R. Per la qualità occorre anche la formazione, non basta essere «battitori di tastiera». Grazie a internet assistiamo a una quantità crescente di informazione che prima non c’era, e sulla quale spesso non c’è verifica, viene messa in rete senza preoccuparsi che sia fondata. Meccanismi di grande successo come l’Huffington Post definiscono l’importanza delle notizie sulla base dell’interesse dei lettori. Chi di noi dirigerebbe un giornale i cui lettori indicassero come fare la copertina e i titoli? Credo che da noi i giornalisti continueranno a pilotare i lettori, Montanelli diceva che cercava di anticipare i gusti dei lettori. È ininfluente dove questo avverrà, sulla carta, su internet o in altri modi, ma continuerà ad avvenire, sia pure non come prima. Il «profumo della carta» stimola le idee, ma i giovani sono allergici ad esso. Per noi andare in giro con un giornale in mano costituiva uno status symbol.

D. La FIEG si trasformerà? Un editore operante solo sul web potrà entrare a farne parte?
R. Oggi gli editori usano due gambe: la carta e il web. Le agenzie di accertamento della diffusione assommano le copie cartacee e digitali. Non vedo alcuna controindicazione all’ammissione di editori solo digitali. Gli editori oggi hanno due problemi: la modernizzazione e l’abbattimento del costo del lavoro, troppo alto perché l’editoria possa sopravvivere. Le provvidenze cosiddette «dirette» riguardano solo giornali politici e cooperative, e per il pluralismo dell’informazione è un bene. Ma gli altri ricevono ben poco.   

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