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ANTONIO MANGANELLI: LE FORZE DI POLIZIA CONTRO LA CRIMINALITà E L'INSICUREZZA DEI CITTADINI

Antonio Manganelli Polizia

a cura di ANNA MARIA BRANCA

 

Laureato in Giurisprudenza, specializzato in criminologia clinica, entrato nella Pubblica Sicurezza, dagli anni 70 Antonio Manganelli, capo della Polizia italiana dal 25 giugno 2007, ha operato costantemente nel campo delle investigazioni acquisendo una particolare esperienza e preparazione tecnica prima nel settore dei sequestri di persona a scopo di estorsione poi in quello della mafia, anche al fianco di valorosi magistrati e di organi giudiziari investigativi europei ed extraeuropei. Ha legato il proprio significativo nome alla cattura di alcuni latitanti di maggior spicco delle organizzazioni mafiose, è stato docente di Tecnica di polizia giudiziaria nell’Istituto Superiore di Polizia ed è autore di pubblicazioni scientifiche in materia di sequestri di persona e di tecnica di polizia giudiziaria. Ha diretto inoltre il Servizio centrale di protezione dei collaboratori di giustizia, è stato questore di Palermo e di Napoli, nel 2000 è stato nominato prefetto di prima classe, con l’incarico di direttore centrale della polizia criminale e vicedirettore generale della pubblica sicurezza, con funzioni vicarie dal 2001.
Domanda. Com’è la situazione italiana in materia di criminalità?
Risposta. Nel 2010 l’andamento della delittuosità ha registrato una flessione rispetto agli anni precedenti. Questo è il frutto di un lavoro che si è articolato sia nel controllo del territorio, sia nella maggiore attenzione verso quei reati che sembrano di minor importanza, un tempo inseriti nell’ambito della «microcriminalità», spesso considerati riduttivamente rispetto alla loro gravità che investe senza sosta la sfera del singolo cittadino. Le rapine in banca e i furti in appartamenti sono diminuiti di circa il 30 per cento, mentre la lotta alla criminalità organizzata, condotta dalla Magistratura e dalle forze di Polizia, ha raggiunto risultati superiori rispetto a sempre: tra le altre operazioni eseguite, sono stati catturati 29 dei 30 latitanti ricercati, tra i più pericolosi in Italia, dediti alle varie attività criminali, e si è fatto un grande lavoro anche nel campo del sequestro e della confisca dei beni. È un vero e proprio salto di qualità per il nostro Paese, perché catturare i grandi latitanti significa dare uno scossone alla tenuta delle organizzazioni criminali. A ciò deve seguire la sottrazione dei beni accumulati: il vero successo si raggiunge intervenendo sulla ricchezza e impoverendo l’organizzazione, obiettivo prioritario del terzo millennio e verso il quale ci stiamo muovendo molto bene.
D. Cosa accade ai beni una volta confiscati alla criminalità organizzata?
R. I beni sequestrati - denaro, azioni, titoli, mobili, immobili e mobili registrati come elicotteri ed automobili, opere d’arte ma anche aziende - sono assegnati allo Stato al termine di un complesso iter processuale e solo quando lo stesso porta alla confisca. A quel punto, vengono messi a disposizione di chi, per fini sociali, può averne interesse alla loro utilizzazione. Il tutto ha anche un forte valore simbolico.
D. Quale procedura viene svolta per ottenere tale risultato?
R. Si individua prima l’esigenza istituzionale, quindi si procede alla riconversione. Può accadere che non si percepisca l’utilità di alcuni beni nel momento di riconvertirli, e per ciò è stata costituita, ed opera dalla fine del 2010 l’ANBSC, Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, che ha il quadro e la regia della conservazione e dell’investimento da attuarsi attraverso la gestione o la vendita dei beni in questione. Lo scorso anno è stato istituito con legge un «fondo unico giustizia» in cui far confluire parte di tali beni, e sin dallo scorso mese di febbraio le somme liquide vengono distribuite a fini di sicurezza e di giustizia, rivolgendone metà alle esigenze delle forze di Polizia e metà a quelle del sistema giudiziario. Definita «modello Caserta», questa soluzione è stata per l’Italia una grande conquista.
D. Qual è la funzione delle nuove agenzie per i beni confiscati?
R. Si tratta di articolazioni territoriali dell’agenzia nazionale che sono state aperte già a Reggio Calabria e a Roma, mentre si aspetta di aprirne a Palermo, a Milano e a Bari per snellire le procedure, giacché i beni sono tanti e non facilmente utilizzabili o gestibili. Si pensi alle aziende nelle quali va prima di tutto salvaguardato il posto di lavoro degli operai e il cui fatturato prima della riconversione era facilitato, in alcuni casi, dall’essenza criminale dell’organizzazione. Intendo dire che un’azienda mafiosa in certe aree del territorio in quanto tale può essere esclusivista nella fornitura di un prodotto ed incontrare difficoltà quando viene gestita secondo le regole della libera concorrenza. All’agenzia nazionale tocca il difficile compito di individuare la migliore soluzione per dare un futuro a quell’azienda ed evitare che, di fronte alla perdita del posto di lavoro, si arrivi a ritenere che la mafia garantisca più dello Stato i posti di lavoro. Il lavoro dell’ANBSC è enorme ed abbraccia l’intero territorio nazionale perché i beni sono sparsi dal Sud al Nord. La stessa Milano, infatti, non è indenne; lo vediamo dal numero dei beni sequestrati e confiscati: subito dopo la Sicilia e la Calabria viene la Lombardia, e ciò prova l’interesse della criminalità mafiosa all’investimento economico.
D. Che si intende per «modello Caserta» e quali organici sono stati usati?
R. Il modello Caserta è soprattutto la messa a fattor comune, in forma coordinata, delle energie di Magistratura, forze di Polizia e Forze armate. Abbiamo usato esclusivamente le nostre forze ordinarie perché l’attuale situazione finanziaria dello Stato non consente possibilità di impiego né di personale aggiuntivo né di risorse strutturali straordinarie. Ciò dimostra che quando si razionalizzano le forze in campo si migliora la produttività.
D. Come procede l’azione di contrasto al terrorismo?
R. Nella lotta al terrorismo si registra una situazione di silenzio in aree che abbiamo conosciuto negli anni passati, ad esempio quella brigatista e, più in generale, quella di matrice marxista-leninista. L’Occidente è esposto al rischio di attacchi che derivano da Al Qaeda, in cui si riconoscono non solo coloro che fanno parte dell’organizzazione omonima, quella riconducibile a Bin Laden, ma anche quei fanatici religiosi che ritengono di essere loro stessi cellule destinatarie di una sorta di autorizzazione tacita di Al Qaeda, in nome del quale compiono attentati che noi definiamo «fai da te», nei quali l’organizzazione e il confezionamento degli ordigni sono il frutto di uno studio compiuto su internet.
D. Il terrorismo oggi funziona molto con i simboli, meno forse con la forza di un leader: è vero?
R. Bin Laden è sicuramente il leader dell’ideologia e dell’operatività qaedista. Il problema è che oggi si va al di là della persona fisica e dell’organizzazione, e si finisce per leggere il Corano con quella lente particolare che vuole vedervi un invito alla grande rivolta che Bin Laden e Al Qaeda propugnano. Definisco questo fenomeno una sorta di franchising del terrore, come se il terrorismo avesse un quartier generale e avesse concesso in franchising l’ideologia, cosicché ognuno autonomamente è in grado di passare dalla predicazione alle azioni.
D. Come mai non si riesce ancora a catturare Bin Laden?
R. Non è certo impresa facile. Bin Laden non vive a Londra in hotel ma si muove nelle montagne del Pakistan, dell’Afghanistan, prevalentemente nelle zone di guerra, ed è sufficientemente protetto. Non credo comunque che la cattura di Bin Laden sia il problema perché, anche se ci si riuscisse, la questione rimarrebbe intatta e in tutta la sua gravità. Noi stiamo facendo molto nel nostro territorio, sia nell’attività di intelligence e di prevenzione sia in quella investigativa. Anche di recente, nel febbraio scorso, sono stati arrestati a Catanzaro tre sospetti terroristi aderenti ad Al Qaeda. Non abbiamo, comunque, ragioni specifiche di allarme per minacce provenienti dal terrorismo internazionale. Invece è molto rilevante il problema della presenza anarco-insurrezionalista, quindi degli attentati e delle operatività in genere di un’area che sfrutta ovviamente il malcontento di piazza e la tensione sociale, si infiltra nei cortei, alimenta l’area antagonista anche poi staccandosene e producendo attentati non sempre di bassa pericolosità. A volte è presente anche un collegamento internazionale.
D. Molte manifestazioni e molte polemiche: qual è l’attuale situazione dell’ordine pubblico?
R. Ad oggi è ben governata. Nel 2010 si sono registrate circa 10 mila manifestazioni in Italia, e anche se solo alcune hanno la ribalta della cronaca, tutte presuppongono uno studio della situazione, un’ordinanza del questore, l’investimento di poliziotti e carabinieri nella piazza; solo il 2 per cento di quelle tenutesi hanno riportato tensioni, cariche, lanci di lacrimogeni, e in generale la piazza è stata governata senza gravissimi problemi di disordine. Nell’ordine pubblico l’aspetto principale è garantire il diritto di manifestazione del pensiero, la protesta, l’esercizio del dissenso, ma anche che ciò avvenga nelle forme previste dalla legge. Quando sono commessi reati, prima di intervenire con la forza si opera con la dissuasione e la ricerca di punti di incontro attraverso il dialogo nella piazza. Sulle manifestazioni sportive si è raggiunto forse il risultato più positivo in termini di riduzione delle tensioni perché, rispetto al campionato di calcio del 2007 in cui a Catania morì l’ispettore Filippo Raciti, si è raggiunto un calo degli incidenti di oltre il 42 per cento. Prima di quel tragico evento lo stadio contava ogni domenica decine, a volte centinaia di feriti tra forze di polizia e tifosi. Dall’inizio degli anni 90 al 2007 abbiamo registrato, nel corso di manifestazioni sportive o in situazioni strettamente connesse, 19 morti e circa 8 mila feriti, un bollettino di guerra considerando solo i cinque campionati di calcio prima di quello in cui perse la vita Raciti. Abbiamo posto intorno a un tavolo tutti gli attori di una manifestazione sportiva - Federcalcio, Lega, Ferrovie dello Stato, Autogrill, Agenzia delle Entrate, Guardia di Finanza, Arma dei Carabinieri, Polizia e tutti coloro che hanno un ruolo - creando un «osservatorio per le manifestazioni sportive» che determina di domenica in domenica le misure da adottare per la partita della settimana successiva, come la limitazione nella vendita di biglietti di partite tra squadre per le quali si siano già verificati scontri tra tifosi e la possibilità di usare biglietti nominativi e un lettore ottico.
D. È la società che ha portato i giovani ad avere una tale rabbia e a disprezzare le istituzioni? Non bisognerebbe agire alla radice del problema per far rientrare il gioco entro i suoi limiti?
R. Occorre compiere una riflessione sull’evoluzione di alcuni sport, e del calcio in particolare, verso il grande affare in cui sono entrati sponsor, diritti televisivi e altre categorie che non hanno nulla a che fare con il gioco e con i temi che vanno gestiti dal ministero dell’Interno e dalle forze di Polizia. Oltre a ciò esiste l’esigenza di armonizzare le nostre iniziative sportive con quelle che si sviluppano in Europa; ormai il mercato, il costo dei calciatori, l’invasività degli sponsor non sono diffusi soltanto in Italia. D’altra parte le società di calcio sono quotate in borsa e vendono la partita e i prodotti ad essa connessi in un mercato internazionale televisivo. Ma non vedo una stretta connessione tra gli affari, che esasperano il significato di una partita di pallone, e lo sfogo dei giovani che nello stadio trovano invece alleati e avversari e usano come strumento l’ideologia di fede per la squadra, a volte politica.
D. Cosa accade, invece, per le strade?
R. L’impegno della polizia stradale e ferroviaria è costante: il treno è una città che viaggia e su di esso si svolgono i fenomeni sociali dell’incontro e dello scontro, che richiedono un presidio fisso. Sulle autostrade invece, si è registrata la diminuzione degli incidenti di oltre il 15 per cento e per quelli mortali abbiamo raggiunto lo standard che l’Europa si era ripromessa per il 2012. L’Italia sta compiendo un lavoro speciale con la Polizia postale, chiamata oggi Polizia delle comunicazioni, soprattutto nel campo del cyber-crime. Attualmente Italia, Canada, Stati Uniti e Regno Unito sono i quattro centri di eccellenza del mondo; noi abbiamo gli specialisti più bravi e la migliore organizzazione. La Polizia delle comunicazioni è la naturale evoluzione della Polizia postale, che prima si occupava di valori e informazioni che viaggiavano nei sacchi di juta con un poliziotto di scorta; oggi i valori camminano per via telematica e le grandi aziende firmano protocolli d’intesa con la Polizia postale per la tutela delle proprie banche dati, perché non abbiano accessi illegali da parte di terroristi, criminali e hackers.
D. Dopo l’introduzione dello stalking, in tre mesi sono stati arrestati circa 400 stalkers e denunciati oltre mille casi. Perché prima questi fatti non emergevano?
R. Il reato di stalking, che potrebbe sembrare per certi versi modesto per quanto riguarda la gravità, consiste in un modo ossessivo di perseguitare e in una serie di comportamenti che prima non erano puniti o lo erano in modo blando, e che oggi sono invece ricondotti a una figura giuridica precisa, che ha una sanzione grave e un proprio rigore specifico. Anche prima della legge venivano presentati esposti, ma erano di inquadramento non sempre agevole. La regolamentazione introdotta ha anche incoraggiato la denuncia del reato, le cui vittime sono soprattutto donne che si sono sentite protette ed hanno usufruito di quella che per loro è stata a tutti gli effetti un’opportunità. Non è facile denunciare uno stalker, ma è ancora più difficile ricevere una denuncia da parte dell’ispettore, che deve essere in grado di cogliere aspetti particolarmente complessi e delicati.
D. Com’è attualmente la situazione dell’immigrazione?
R. Oggi è in atto un’emergenza umanitaria che nasce dalla crisi di alcuni Paesi africani, che sta portando ad esodi di massa. Nel 2010 era molto migliorata, gli sbarchi sulle coste siciliane sono diminuiti del 90 per cento e quelli sulle coste italiane, comprensive di Puglia, Calabria, di oltre il 70 per cento. L’immigrazione via mare è stata fortemente ridotta con la collaborazione internazionale; un accordo fondamentale è stato da noi stretto con la Libia, un Paese di transito che ci aiuta a bloccare i passaggi verso l’Italia. Il problema italiano è anche di «overstaying» e riguarda coloro che, entrati legittimamente, si trattengono clandestinamente; questa clandestinità incide per oltre il 60 per cento. Non ci si può, in via preventiva, difendere dall’ingresso regolare, nemmeno tramite altri Paesi europei, né è possibile rinviare un clandestino nel suo Paese se non acconsente l’autorità consolare di riferimento e se non fornisce i dati per l’identificazione. Da quando esiste l’area Schengen non esiste più controllo all’interno dell’Europa; il problema dovrebbe interessare più gli altri, perché dall’Italia molti extracomunitari vanno all’estero, e l’apertura della frontiera ci garantisce più flussi in uscita che in entrata.
D. Non ritiene che le Forze dell’ordine siano sottopagate e non abbiano riconoscimento?
R. Non posso che essere d’accordo, ma non sono l’interlocutore giusto. Le nostre richieste sono quotidiane. All’inizio un poliziotto guadagna 1.400 euro netti e, nonostante l’impegno, la produttività e il rischio che corre, non è incoraggiato nel proprio lavoro con un trattamento economico adeguato.
D. In che modo le forze di Polizia si comportano con i cittadini?
R. Ciò che noi diciamo sull’ordine pubblico, sulla sicurezza, sul terrorismo, sulla criminalità, ha il grosso limite della comprensione da parte del cittadino: in un momento storico di grandi paure e incertezze è profonda la sensazione di insicurezza. Lo sforzo che si fa non è soltanto quello di ridurre la criminalità o il terrorismo, ma anche di stabilire un rapporto di fiducia e avviare iniziative che rassicurino i cittadini al di là delle competenze della Polizia, la cui cultura di prossimità va proprio incontro all’esigenza di ridurre questa insicurezza.
D. Quale messaggio vorrebbe trasmettere alle persone?
R. Quello di coinvolgersi nella grande sfida della sicurezza partecipata, che va conquistata momento per momento non solo attraverso l’opera delle forze di Polizia o della Magistratura, ma anche tramite tutti i soggetti istituzionali come i sindaci, e non istituzionali come le associazioni di volontariato e di categoria, che possono dare un contributo nel rispetto del proprio ruolo e della propria funzione.

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