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SPECIALE FORUM PA 2014 - vittorio conti: l’inps, istituto nazionale di previdenza sociale, al servizio del paese

Vittorio Conti, commissario straordinario dell’INPS

Se è vero che da un grande potere derivano grandi responsabilità, oggi l’INPS, Istituto nazionale di previdenza sociale, ha una responsabilità sostanzialmente unica nel panorama nazionale: quella di gestire non solo tutto il sistema pensionistico pubblico ma anche quasi tutte le prestazioni di carattere assistenziale. In buona sostanza tutto il sistema del Welfare ruota sui cardini dell’INPS.
Il Decreto Salva-Italia del Governo Monti del dicembre 2011 ha stabilito che nell’INPS confluissero anche l’INPDAP (Istituto nazionale di previdenza e assistenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica), che gestisce le pensioni degli ex lavoratori pubblici, statali, ministeriali della Sanità e degli enti locali, e l’ENPALS (Ente nazionale di previdenza e assistenza per i lavoratori dello spettacolo) che regola i versamenti contributivi dei lavoratori dello spettacolo e dello sport, dando così vita a quello che i media hanno subito ribattezzato «SuperINPS»: questa complessa integrazione si sta avviando su una strada ora definita da un nuovo piano industriale.
Dal 12 febbraio scorso al vertice dell’INPS c’è il dott. Vittorio Conti, in qualità di commissario straordinario con mandato fino al 30 settembre prossimo: 71 anni, economista di formazione, già commissario della Consob, una lunga esperienza in Comit e in Banca Intesa dopo aver iniziato la carriera nell’Ufficio Studi della Banca d’Italia, professore di Economia nell’Università Cattolica di Milano per 19 anni, Conti è un uomo esperto non solo nel condurre analisi quantitative ma, soprattutto, nel gestire le realtà che quelle analisi rappresentano.
A lui più che a chiunque altro, dunque, i numeri del nuovo «SuperINPS» danno la misura del compito che attende l’Istituto e chi lo «governa»: con l’integrazione delle attività e delle funzioni di INPDAP ed ENPALS, l’INPS conta oggi quasi 32 mila dipendenti dislocati in 129 sedi (direzione generale, direzioni regionali, direzioni provinciali) e in 175 agenzie; eroga l’89,5 per cento di tutte le pensioni percepite in Italia, per un importo annuo di 261 miliardi di euro (comprese le invalidità civili) a 15,9 milioni di pensionati (il 95,5 per cento del totale) e circa 32 miliardi di euro di prestazioni socio-assistenziali a più di 4,5 milioni di beneficiari (dati INPS 2012). Numeri che fanno dell’Istituto uno degli aggregati di spesa più rilevanti d’Europa, con un flusso finanziario annuo (somma di entrate e uscite) pari a 763 miliardi di euro, uscite correnti per 315 miliardi ed entrate per 307, di cui 210 provenienti dai contributi pagati da aziende e lavoratori dipendenti e autonomi e il resto oggetto di trasferimento da parte dello Stato.
Questo «gigante del Welfare europeo» è chiamato ad operare in un contesto economico e sociale interessato da profonde trasformazioni. Nel corso dell’audizione tenuta il 20 marzo presso la Commissione parlamentare di controllo sulle attività degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza sociale, il commissario Conti e il direttore generale dell’INPS Nori hanno così descritto tale scenario: «Nei Paesi dell’Unione europea la crisi globale ha determinato l’uscita dal mercato del lavoro di una quota rilevante della popolazione in età lavorativa contribuendo, da un lato, a ridurre le entrate contributive a supporto dei sistemi di Welfare, dall’altra ad incrementare il numero dei cittadini che necessitano di assistenza (19 milioni di non occupati e disoccupati a gennaio 2014)».
A complicare ulteriormente il quadro, continua ad aumentare l’incidenza della popolazione in età avanzata, cosa che rende ancora «più fragile la sostenibilità dei sistemi previdenziali e assistenziali; in tale contesto l’Italia si colloca al secondo posto, con 151 anziani (over 65 anni) ogni 100 giovani (meno di 15 anni)». E il tema della sostenibilità diventa ancora più rilevante se si considera che il rapporto fra spesa pensionistica pubblica e prodotto interno lordo in Italia, pari al 15,9 per cento, è nettamente superiore a quello di Germania (12,3), Francia (13,6), Spagna (9,3) e Gran Bretagna (5,4), «con il dato di 707 pensionati ogni 1.000 assicurati INPS e con un rapporto tra spesa pensionistica e spesa pubblica (escluse le indennità agli invalidi civili) pari al 34,8 per cento».
In questo scenario a dir poco complesso, ai vertici dell’INPS è stato chiesto di presentare un piano industriale che consenta all’Istituto di rispondere con efficienza ed efficacia ai nuovi bisogni di Welfare degli italiani. Ne parla, in questa intervista, il commissario straordinario dell’INPS, Vittorio Conti.

Domanda. Al momento della sua nomina, l’allora ministro del Lavoro Enrico Giovannini dichiarò che il suo primo compito consisteva nel presentare il nuovo piano industriale relativo all’incorporazione di INPDAP ed ENPALS. A che punto siamo?
Risposta. L’esperienza mi ha insegnato che in operazioni complesse come questa le prime fasi sono molto complicate: occorre mettere insieme culture aziendali diverse, armonizzare competenze specifiche, eliminare sovrapposizioni di funzioni. Nel caso specifico, direi che si tratta di un’operazione senza precedenti per il settore pubblico. Si tratta di gestire l’inserimento di circa 7 mila addetti accanto ai 26 mila già presenti, dunque numeri particolarmente significativi. Il processo non è ancora completato ma abbiamo approvato il piano industriale che lo guiderà. Con esso si sono poste le linee guida per un’allocazione delle risorse coerente con gli obiettivi a tendere. Ciò comporta l’individuazione dell’assetto organizzativo più adatto per affrontare le molte sfide che ci attendono.

D. Quali sono queste sfide?
R. Per comprenderle occorre prendere le mosse dai problemi del sistema previdenziale, non solo italiano ma europeo. Il punto di partenza è la crisi che ha colpito il sistema di Welfare in generale a partire dagli anni Novanta. È necessario sottolineare che la crisi attraversa tutti i Paesi, sia quelli che hanno da sempre un sistema contributivo come la Gran Bretagna - nei quali lo Stato si fa carico dell’assistenza mentre alla previdenza pensano i singoli cittadini -, sia quelli, com’è stata a lungo l’Italia, con un sistema retributivo che garantisce ai cittadini un reddito da pensione prossimo all’ultimo stipendio.

D. Siamo passati anche noi dal sistema retributivo a quello contributivo. Cos’è cambiato?
R. Questa transizione è ancora in corso. Con l’adozione del sistema contributivo il trattamento pensionistico erogato ai cittadini in pensione sarà progressivamente sempre più legato ai contributi versati durante l’attività lavorativa. Gli algoritmi di calcolo del montante contributivo e del valore atteso netto delle pensioni legano queste ultime al PIL, cioè alla crescita economica complessiva del Paese, che diventa fondamentale per garantire non solo la sostenibilità finanziaria ma anche l’adeguatezza del sistema previdenziale. Non bisogna poi dimenticare che il nostro sistema rimane a ripartizione pura, cioè le pensioni sono pagate con i versamenti dei lavoratori attivi; quindi l’altro fattore cruciale è rappresentato dal mantenimento di elevati livelli occupazionali. La lunga crisi che ci sta accompagnando in questi anni ha aggravato i problemi, già delineatisi con l’accelerazione di alcune dinamiche demografiche quali l’invecchiamento della popolazione. Secondo una recente stima della Commissione europea, il rapporto fra i cittadini sopra i 65 anni e quelli tra i 15 e i 64 era pari, nel 2010, al 26 per cento: in pratica, per un cittadino in pensione ce ne erano 3 in attività e le proiezioni lo danno in aumento al 53 per cento nel 2060. Per l’Italia queste percentuali sono rispettivamente del 31 e del 57 per cento.

D. Come si è agito in Italia di fronte a questo radicale mutamento di scenario?
R. Le varie riforme pensionistiche succedutesi, da quella di Giuliano Amato in poi, hanno operato sugli elementi che potevano rendere più sostenibile finanziariamente il peso delle pensioni sul PIL: si è spostata in avanti l’età pensionabile, sono stati aumentati gli anni di contribuzione necessari per andare in pensione; si è ridotta la base di calcolo del trattamento di quiescenza, diventata non più l’ultimo stipendio ma la media di un certo numero di annualità; è stato introdotto il riferimento alla vita attesa.

D. E poi?
R. Poi si è articolata la progressiva evoluzione verso il sistema contributivo cui ho già fatto cenno. Si tratta di un sistema sicuramente più sostenibile finanziariamente rispetto al precedente, ma anch’esso funziona solo se l’economia cresce in modo significativo. Il regime misto che accompagna la transizione al complementare si esaurirà entro il 2060. Per queste ragioni la previdenza complementare, insieme ad un adeguato tasso di crescita del PIL diventa un ingrediente fondamentale per garantire l’adeguatezza (la sostenibilità finanziaria è stata sostanzialmente raggiunta) delle prestazioni del nostro sistema pensionistico nel lungo periodo.

D. In che senso?
R. L’esistenza di una componente di previdenza complementare, nella quale far confluire ad esempio il trattamento di fine rapporto, darà ai cittadini la possibilità di essere in parte artefici del proprio futuro pensionistico. Un futuro formato da una componente obbligatoria, integrata dalla previdenza complementare. Si discute se quest’ultima dovrà essere volontaria o obbligatoria.

D. Quanto i cittadini sono consapevoli di ciò?
R. Non abbastanza, perché obiettivamente non è facile comprendere e adattarsi al nuovo contesto. L’INPS può e deve, in quanto da sempre punto di riferimento per il mondo delle pensioni, informare ed accompagnare gli italiani perché pianifichino nel modo migliore il proprio futuro pensionistico.

D. L’INPS sarà all’altezza dei compiti ai quali è chiamato?
R. I numeri dicono che oggi l’INPS è una struttura molto efficiente, con costi di funzionamento inferiori alla media europea, un rapporto fra dirigenti e numero complessivo di risorse umane di poco inferiore a 1 su 60 che lo pone fra gli esempi più virtuosi tra le amministrazioni pubbliche italiane, ed oltre il 90 per cento del personale impiegato nelle strutture territoriali a riprova di come l’Istituto sia concentrato pressoché totalmente sulle attività di erogazione delle prestazioni ai cittadini. Aggiungo che l’INPS ha contribuito significativamente agli obiettivi di contenimento della spesa pubblica indicati dalle politiche di «spending review», riducendo di oltre 515 milioni di euro le spese di funzionamento. Il potenziale e la giusta predisposizione al cambiamento ci sono: ora occorrerà investire nelle competenze tecniche necessarie per aiutare i cittadini a compiere scelte previdenziali più complesse che in passato.

D. Senza che questo vada a scapito della qualità del servizio?
R. In questi anni, attraverso il proprio personale e le proprie strutture e grazie all’intenso programma di innovazioni organizzative e di processo in cui si è impegnato, l’INPS ha reso esigibili i diritti previdenziali dei lavoratori e dei pensionati e ha erogato tempestivamente gli ammortizzatori sociali, riducendo i costi complessivi a carico del sistema produttivo e semplificando gli adempimenti delle aziende e degli operatori economici. Tutto questo malgrado la progressiva contrazione del personale, sceso dalle oltre 31.200 unità del 2007 alle 26.700 circa del 2011, prima dell’incorporazione di INPDAP ed ENPALS.

D. Tutto bene dunque?
R. Non nascondo che anche l’INPS ha dovuto compiere negli anni alcune rinunce, non solo in termini di personale. I numeri di confronto con l’Europa che citavo prima indicano come, con riferimento agli aspetti più specificamente tecnologici, nel 2012 l’INPS abbia speso in ICT quasi 440 milioni di euro, molto meno degli Enti omologhi di Francia (640 milioni) e Gran Bretagna (quasi 700). Ma, per quanto importanti, le tecnologie dell’informazioni sono solo uno strumento indispensabile, in un contesto di crescente complessità, affinché il personale svolga nel modo migliore il proprio lavoro. Per questo i dipendenti dell’INPS rappresentano - e continuano a rappresentare anche in futuro - la risorsa principale.

D. Che cosa prevede al riguardo il vostro piano industriale?
R. Dopo la riduzione dei costi operata negli anni passati, finalizzata a perseguire una maggiore efficienza operativa, è arrivato il momento di focalizzare gli sforzi sull’efficacia, vale a dire sull’ulteriore innalzamento della qualità dei servizi erogati. Di fronte all’ampliamento dei compiti assegnati all’INPS, l’unica strada percorribile sta nell’individuazione delle priorità da raggiungere commisurando su di esse le risorse necessarie e ragionando su eventuali ampliamenti degli organici e su maggiori investimenti in tecnologia.

D. Di quante persone in più avreste bisogno?
R. Abbiamo compiuto una stima: sarebbero utili circa 2.500 nuove unità. Insomma siamo arrivati al limite sotto il quale si rischia di non essere efficaci, quindi di non garantire la qualità necessaria. Ci vogliono nuove risorse umane, ma risorse qualificate. C’è bisogno di avviare un turnover che consenta soprattutto l’ingresso di giovani laureati, senza ovviamente depauperare il nostro patrimonio di competenze chiave e distintive già presenti in Istituto. Al di là dei numeri, ciò di cui abbiamo più bisogno è un personale motivato e dotato delle necessarie competenze tecniche. Per questo continueremo ad incrementare l’investimento nella formazione, che riveste un ruolo centrale per accrescere la professionalità e le conoscenze delle nostre risorse umane.

D. Fra le amministrazioni pubbliche l’INPS ha maturato negli anni una posizione di prima fila nella telematizzazione e digitalizzazione dei servizi. In quale direzione intendete muovervi?
R. L’informatica invecchia, come e anzi molto più velocemente delle persone. E soprattutto - ripeto - la tecnologia non va intesa come un fine ma come un mezzo per aiutare il nostro personale a lavorare meglio erogando così ai cittadini un servizio sempre migliore, capace di rispondere alle loro richieste ed esigenze in un contesto in cui, oltre la previdenza obbligatoria, sarà necessario scegliere tra forme di previdenza complementare. Quindi investiremo non solo sull’IT ma anche, anzi soprattutto, in competenze umane interne.

D. Qual è per lei, fra i tanti enunciati, il compito primario dell’INPS nei prossimi anni?
R. Credo che l’Istituto, e con esso tutto il Paese, abbia un obbligo prioritario: dare una risposta ai giovani che si affacciano oggi al mondo del lavoro. In un contesto di sempre più diffusa precarietà e di crescenti incertezze per il futuro, il compito dell’INPS è quello di aiutare le nuove generazioni a crearsi un futuro previdenziale sostenibile in un rinnovato clima di fiducia. In questa prospettiva è indispensabile pensare alle tutele investendo in cultura previdenziale e in cultura finanziaria.     

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