URGE UN CAMBIO DI MARCIA E DI MENTALITÀ: SI TASSINO I REDDITI, NON SI AGGREDISCA LA PROPRIETÀ
di DOMENICO BENEDETTI VALENTINI
deputato di Alleanza Nazionale e vicepresidente della commissione Affari Costituzionali della Camera
Il sopravvivere a se stesso del Governo Prodi sta causando al Paese grandi danni. Naturalmente è l’opinione di un oppositore, e quindi legittimamente controvertibile. Ma non è questa la sede per innescare un dibattito sulla negatività o meno dell’attuale Esecutivo. Piuttosto voglio segnalare agli osservatori più sensibili, in particolare agli operatori economici, alcuni aspetti della politica fiscale governativa che mi preoccupano anche più degli altri.
Sì, politica fiscale, perché ormai non c’è scelta, non c’è misura o conato di riforma, in qualsiasi campo, che non veda in cima ai criteri ispiratori il contrasto all’evasione fiscale, il recupero di gettito all’erario, il conseguimento dei presunti fini strategici indicati dal viceministro Vincenzo Visco: personaggio che proprio per le sue invasate logiche tributarie è sempre parso indifendibile, da ben prima che lo vedessero coinvolto nelle poco edificanti vicende dei rapporti con i vertici della Guardia di Finanza.
Intendo dire che la lotta all’evasione e all’elusione fiscale, l’emersione del «nero», l’individuazione delle reali capacità contributive e insomma l’ottimizzazione e la perequazione sociale del sistema di prelievo sono sicuramente obiettivi di grandissimo rilievo civile e politico. Dico di più: sono imperativi per qualsiasi Governo che viva il senso popolare dell’equità e voglia acquisire, ove esistono, le proporzionate risorse per le riforme necessarie a rendere più moderno e vivibile il Paese. Ma questi obiettivi non possono costituire l’unico e primario valore delle scelte di Governo, e men che meno delle opzioni legislative, perché vi sono valori anche più importanti, di massimo rilievo costituzionale, che attengono ai più delicati diritti - non solo individuali - i quali non devono essere in alcun modo e per qualsiasi ragione sacrificati.
Esemplifichiamo. La vita privata stessa del cittadino è ormai, per legge fiscale, violata fin nel dettaglio, fin nell’intimo. E non sto parlando del mitico segreto bancario, spazzato via senza remore e distinzioni. In nome della «tracciabilità» fiscale non c’è più praticamente atto della vita quotidiana che, a voler ottemperare alla lettera, non sia passabile di pubblica osservazione e registrazione. Questo vero e proprio «grande fratello» pubblico, che oltre tutto il Governo sta delegando e addirittura istigando in capo agli Enti locali e a una quantità di aziende semipubbliche erogatrici di servizi, rende risibile e provocatoria la fitta e immemorizzabile rete di norme che si continuano a produrre, fino all’isterismo, per la tutela della così detta «privacy», dei così detti «dati sensibili», con una congerie di adempimenti, scartoffie, controlli incrociati e terroristiche sanzioni che, senza raggiungere lo scopo dichiarato, ottengono invece quello di paralizzare aziende, professionisti e operatori, aumentandone costi e ritardi improduttivi.
Ancora. Il Governo a tappe accelerate sta espellendo la moneta dal corso legale, dalla vita dei cittadini; la sta mettendo al bando mentre restano in vigore - fino a prova contraria - norme che impongono l’accettazione della moneta ufficiale e puniscono penalmente chi la rifiuta. Visco ha scelto questo suo precipuo compito, l’ha detto apertamente in audizioni parlamentari. Sempre in nome della «tracciabilità» fiscale, intende far sì che di qui a poco non sia più la moneta a circolare nella vita delle aziende e dei privati, ma soltanto titoli documentali abilitati e sostitutivi. Strumentalizza, a questo fine illiberale, la direttiva europea che spinge per l’informatizzazione delle transazioni onerose, e ottiene dal Governo di cui fa parte continue norme ispirate a questa incostituzionale e maniacale finalità.
Ha già stabilito che a imprese e professioni non possano più farsi pagamenti se non mediante bonifico bancario o titolo intestato, tutto a transitare su conti correnti dedicati. Anche nel secondo provvedimento sulle presunte liberalizzazioni e facilitazioni per il cittadino consumatore, che al pari del primo viene intitolato a Pier Luigi Bersani ma, a miglior diritto, deve esserlo a Visco, si prevede che non possano più essere pagati stipendi e pensioni in moneta contante o in assegni, ma solo con strumenti informatici e di accredito bancario.
Tutto questo ha qualche cosa a che fare con la tutela dei cittadini comuni e dei consumatori? Certamente no. Serve soltanto alla logica del «grande fratello», mette in crisi milioni di lavoratori, pensionati, professionisti minuti, sconvolgendo inutilmente le loro non perverse abitudini, imponendo un’illogica e fittizia «modernizzazione» che è del tutto incongrua con la realtà umana e sociale dell’Italia, ma anche, sia ben chiaro, degli altri Paesi europei. Specularmente, rappresenta una vergognosa complicità con gli aspetti più parassitari e urtanti dell’egemonia bancaria. Mentre si finge di voler promuovere la «moralizzazione» e la diminuzione dei costi bancari per il cittadino, si obbliga il popolo ad accendere qualche milione di conti bancari in più e a corrispondere per tutte le operazioni conseguenti un vertiginoso importo complessivo di commissioni che a sua volta concorre ad impoverire i redditi più modesti, a restringere l’area dei consumi reali, ad appesantire l’incidenza del terziario più parassitario.
Altro aspetto allarmante, anch’esso violatore dei valori costituzionali primari, è l’innegabile aggressione alla proprietà, cioè al risparmio tramandato e al risparmio sanamente investito nelle proprietà immobiliari, sia urbane sia rurali. Sulla spinta di un’ideologia solo a chiacchiere abbandonata, si sta adottando come indice di capacità contributiva e tributaria la proprietà invece che la redditività. Questo è arcaico, ingiusto, incivile e pericolosissimo per la solidità e le prospettive virtuose di un’economia che guardi prudentemente al domani e al dopodomani. La casa, il bene casa, è diventato una emergenza. Il peso e l’assortimento delle imposte e dei tributi che schiacciano questo tipo di proprietà, a livello nazionale, regionale, provinciale, comunale e consortile, è allucinante. Già dall’acquisto. Le riviste delle settimane scorse hanno documentato che in Italia vigono i mutui per l’acquisto di case più cari d’Europa.
Quello che sta succedendo in materia di Ici è sulla soglia della rapina autorizzata, senza benefici corrispettivi per il malcapitato proprietario. Alla Camera è stato bocciato un emendamento - presentato da un deputato della maggioranza poi costretto a ritirarlo, e fatto proprio da noi dell’opposizione per farlo discutere e votare -, che introduceva l’imposta secca del 20 per cento per i proprietari locatori, con benefici aggiuntivi per gli inquilini, affinché i canoni lordi non finissero a far cumulo sulla denuncia dei redditi, scontando un’aliquota iniquamente maggiorata di tassazione. Eppure una norma del genere era stata inclusa anche nel programma delle promesse elettorali del centrosinistra.
La legnata è in via di completamento con la revisione in forsennato aumento degli estimi catastali. Anche i redditi di professionisti e imprese sono nel mirino incostituzionale del Governo con la revisione degli «studi di settore»; ma in quel caso, almeno, si sta controvertendo su presunti redditi. Per gli estimi invece parliamo della mera appartenenza del bene. Non si colpisce, dunque, ciò che la proprietà rende, magari intensificando il rigore degli accertamenti, anche incrociati. Si tartassa invece il titolo di proprietà in quanto tale. Osserviamo, in aggiunta, che in tal modo si mette in fuga il risparmio dall’investimento reale, spingendolo verso la speculazione finanziaria, caratterizzata sempre più dall’economia di carta e dalla perdita di controllo individuale.
Tra gli infiniti esempi concludiamo con uno riguardante le proprietà rurali. Già la sparizione di quasi tutte le esenzioni e i benefici per il settore agricolo - sempre sotto l’usbergo e il pretesto delle politiche comunitarie - ha demotivato e soppresso gran parte delle esistenze, con rigetto degli innumerevoli microinvestimenti che lo tengono in vita. La flessione della remunerazione dei generi al produttore, concomitante con l’inesorabile aumento dei costi, sta facendo tutto il resto. L’incremento degli estimi catastali, calato sui beni rurali, in un contesto del genere diventa il colpo di grazia alla nuca di quanti hanno perseverato a mantenere i capitali in un settore che i «progressisti» hanno decretato marginale, mentre è essenziale in qualsiasi Paese responsabile della propria indipendenza e del proprio futuro. Ma il misfatto diventa paradossale in questi giorni, con la scadenza degli obblighi di nuovo accatastamento dei beni immobili. I proprietari di predii agricoli sono, in molti casi, alla disperazione e non sono pochi quelli che si preparano alla svendita: naturalmente a favore della cooperativa «regione-alimentata» di turno, o di oligopoli agricoli-alimentari, o di speculatori fondiari senza alcun interesse di natura rurale.
Nulla da eccepire rispetto a un’indagine che facesse emergere immobili risultanti rurali, mentre sono o sono stati trasformati in più o meno adorne residenze con caratteristiche urbane. Ma diametralmente opposta è la situazione di migliaia di rustici, spesso semidiroccati e comunque in abbandono o in disuso o semiuso, anche di notevole superficie, oppure di annessi e pertinenze, retaggio di destinazioni agricolo-zootecniche oggi dismesse oppure riconvertite, che si ha obbligo di accatastare con risorse immobiliari autonome, con l’automatica prospettiva di insostenibile tassazione pur in assenza totale di reddito e magari con oneri di puro mantenimento.
Si parla di inclusione, nelle cubature accatastabili, perfino dei fienili o capannoni coperti da lamiera e ricovero di mezzi. E l’alleggerimento degli obblighi interverrebbe solo in presenza dei requisiti soggettivi del conduttore agricolo, lasciando esposti gli immobili che sono di indubbia natura rurale e non produttivi di reddito, ma appartengono a soggetti non imprenditori agricoli a titolo principale.
Significa essere fuori della realtà, voler ignorare che migliaia di famiglie italiane, tutte rubricabili nel ceto medio o popolare, hanno conservato predii agricoli, magari con terreni concessi in affitto a imprese coltivatrici. L’assoggettamento dei rustici ad accatastamento, alla stregua di abitazioni urbane, è una vessazione esorbitante che nessuna voracità fiscale può giustificare. Anche in questo caso si sta movendo all’assalto non del reddito ma della mera proprietà, ignorando che il mondo agricolo sopravvive largamente per l’affluenza di piccoli e medi capitali destinati ad esso da proprietari che esercitano altri commerci o professioni.
In sintesi: il Governo, per non impreviste ipoteche ideologiche, sta asservendo al fiscalismo leggi che investono tutte le materie, sta violando i diritti primari consacrati dalla costituzione, sta mettendo in fuga forme tradizionali e affidabili di risparmio, investimento e scambio economico. Questa non è modernizzazione del Paese. E c’è da augurarsi che, percependo la crisi di rigetto che dal Paese gli giunge proprio per queste concrete ragioni, l’esecutivo, quale che sia il suo destino, comprenda quanto sia urgente un’inversione di marcia e di mentalità.
Tags: Camera dei Deputati aziende agricole mercato immobiliare immobili casa fisco Giugno 2007