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PARMALAT. La lezione di Enrico Bondi su come ha risolto un'insolvenza di 14 miliardi di euro

di LUCIO GHIA

Varie opportunità sommatesi nell’arco di pochi giorni mi hanno offerto l’occasione di una rivisitazione della vicenda Parmalat. Infatti, il 20 ottobre scorso, nella monumentale e gremita aula delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, innanzi a una platea di magistrati, professionisti e addetti ai lavori, Enrico Bondi, il «salvatore» della Parmalat, ha svolto con la precisione e la lucidità di chi ha saputo risolvere un’insolvenza da 14 miliardi di euro e con la passione di chi crede nel proprio lavoro, un’applaudita relazione sull’origine, le cause e l’epilogo della più grande insolvenza italiana; si è soffermato sui successi ma anche sugli insuccessi, e sui costi di un tormentato iter durato dalla fine del 2003 a pochi giorni fa, con l’acquisto della Parmalat da parte del gruppo francese Lactalis.
La prima occasione per questa rivisitazione si è realizzata con la presentazione del quinto volume del «Trattato delle nuove procedure concorsuali» edito dalla Utet e diretto da me e da due illustri magistrati, Carlo Piccininni e Fausto Severini, volume dedicato proprio alle amministrazioni straordinarie e alle liquidazioni coatte amministrative secondo le regole del nuovo diritto concorsuale italiano. Tra i relatori, non poteva mancare il protagonista di uno straordinario risanamento. La vicenda affonda le radici in tempi insospettabili, come hanno precisato numerose ricostruzioni giudiziarie, confermate dalla recentissima sentenza n. 37.370/11 della Corte di Cassazione penale. Il crack esplose a metà del dicembre 2003, quando deflagrò la notizia che la Bank of America aveva dichiarato di non avere presso di sé i «famosi» 3 miliardi e 900 milioni di dollari della controllata Bonlat, che avevano reso attraenti i bilanci consolidati del Gruppo Parmalat. Il comunicato stampa divulgato intorno al 20 dicembre, dalla stessa Parmalat, confermava che non vi erano conti attivi o giacenze nella Bon Lat Financing.
Il nuovo consiglio di amministrazione Parmalat nel quale sedeva da qualche giorno Bondi si riunì per chiedere le protezioni di legge, e il legislatore italiano questa volta reagì con apprezzabile velocità. In pochi giorni fu aggiornata la legge sull’amministrazione straordinaria, la cosiddetta legge Marzano e promulgato il decreto legge del 23 dicembre 2003, n. 347 recante misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in grave stato di insolvenza. Le novità normative ivi introdotte sono interessanti, specie per i giuristi perché hanno fatto da battistrada per le riforme più importanti che si sono succedute nell’ultimo lustro sotto il profilo concorsuale, dando vita a una cultura di settore nuova. Infatti l’attuale regolamentazione del concordato preventivo e fallimentare riprende alcune innovazioni della legge Marzano. Ad esempio con l’articolo 4 rese possibile che più società appartenenti allo stesso Gruppo fossero sottoposte alla stessa procedura di amministrazione straordinaria, pur facendo salva l’autonomia patrimoniale di ogni singola massa attiva e passiva appartenente a ciascuna.
Si guardò a modelli snelli e flessibili di gestione della crisi delle imprese. Gli innesti legislativi e le innovazioni adottate pur «guardando ad ovest», ovvero all’esperienza americana della «procedural consolidation», indicarono una via italiana rispettosa dell’autonomia di ogni massa attiva e passiva, consentendo una gestione comune in capo al commissario straordinario e realizzando una gestione più unitaria e meno costosa rispetto all’alternativa delle singole procedure separate, relative a società appartenenti allo stesso gruppo.
L’articolo 4bis prevedeva un’ulteriore innovazione; all’inerzia dei creditori che non esprimevano il loro voto sul concordato conseguiva la tacita approvazione dello stesso; mentre al decimo comma dello stesso articolo, veniva stabilita l’immediata esecutorietà della sentenza di approvazione del concordato anche nel caso di impugnativa da parte dei creditori. Queste normative di protezione entrarono in vigore il 24 dicembre 2003, e costituirono il grande binario su cui la procedura partì, tra le speranze di oltre 30 mila creditori, sotto la guida del commissario straordinario Enrico Bondi che immediatamente riuscì a risolvere i problemi più gravi, relativi alla continuità aziendale, attraverso numerosi accordi soprattutto con i trasportatori e i fornitori di latte, «per far sì che prodotti con il marchio Parmalat non venissero a mancare sugli scaffali dei supermercati neanche per un giorno» per dirla con le sue parole. Nella specie infatti per effettuare i pagamenti richiesti in contanti data la situazione, non si dovette far ricorso al credito bancario poiché il flusso di cassa generato dalle operazioni commerciali era più che sufficiente per pagare immediatamente i fornitori. Questo rese tutto più facile, poiché con l’apertura della procedura di amministrazione straordinaria i «vecchi debiti» sia per sorte che per interessi, originati dalle pregresse gestioni, erano rimasti «congelati» dovendo essere pagati dalla liquidazione della vecchia Parmalat.
La prima società che fu attratta nell’alveo dell’amministrazione straordinaria fu la Parmalat spa, nota leader del mercato italiano del latte e capogruppo industriale del gruppo Parmalat. Il suo dissesto determinò l’insolvenza a catena di ben altre 69 società e di queste 15 strettamente collegate ad attività finanziarie della stessa Parmalat. Infatti, nel periodo 1990-1998, erano state acquisite altre aziende con lo scopo di incrementare la crescita soprattutto all’estero del Gruppo, ed erano nate quindi altrettante entità societarie. Il periodo 1998-2003, invece, pone in evidenza, segnale apprezzabile ex-post, il cambio di strategia della capogruppo: non più iniziative industriali o commerciali ma finanziarie.
Furono, infatti, create società che avevano il compito di emettere bond sui mercati secondari, al ritmo di circa 80 milioni di euro al mese, interamente assorbiti dal pagamento degli interessi e dei debiti in scadenza, per onorare i bond già emessi. Nell’amministrazione straordinaria confluirono ancora ulteriori 35 società riconducibili alla famiglia Tanzi, operanti nella distribuzione dei prodotti Parmalat e collegate a vario titolo con la capogruppo, sia per la fornitura del latte, sia come supporto al marchio, sia ancora per lo svolgimento di attività finanziarie come le tedesche Deutsche Parmalat e Parmalat Molkerei, come Eurofood IFSC, come Parmatour.
Il dissesto evidenziò debiti per circa 14 miliardi di euro, di cui 12,5 miliardi relativi alle 16 società direttamente collegate alla Parmalat, e 1,4 miliardi facenti capo alle restanti società a vario titolo collegate al Gruppo. L’Eurofood merita un discorso a parte, specie per noi giuristi, in quanto nonostante l’amministrazione straordinaria italiana fosse stata riconosciuta a livello europeo - in Germania, Olanda, Lussemburgo e Malta - per Eurofood IFSC era stata aperta una procedura di insolvenza in Irlanda. Eurofood fu così sottratta all’amministrazione straordinaria italiana. Un lungo contenzioso, infatti, prima svoltosi innanzi alle Corti irlandesi, si concluse innanzi alla Corte di Giustizia delle Comunità europee che dichiarò applicabili la legge e la giurisdizione irlandese. Per quanto riguarda invece le società collocate nel continente americano - Usa, Argentina, Cile, Brasile, Messico, Venezuela - che furono trascinate nel default dall’insolvenza di Parmalat, prevalsero le leggi fallimentari locali; negli Stati Uniti, il Chapter 11.
La procedura di amministrazione straordinaria italiana tentò di salvare anche la continuità delle attività svolte negli Usa e in Brasile, sostenendo quelle società industriali con circa 60 milioni di euro, per evitarne il default. Tale sforzo risultò però insufficiente, anche perché le banche creditrici locali preferirono ottenere il fallimento della Parmalat in quelle giurisdizioni, al fine di recuperare, almeno in parte, i loro crediti attraverso la vendita degli asset ivi esistenti e per evitare lungaggini giudiziarie e problemi legati alla procedura di amministrazione straordinaria. La procedura italiana riuscì comunque a salvare il marchio nei mercati di Stati Uniti, Brasile, Cile e Cina.
L’andamento generale delle società del Nord-Sud America e Cina ha subito una diminuzione del fatturato di circa due miliardi di euro all’anno e un abbattimento delle perdite a livello del margine operativo lordo di circa 100 milioni di euro all’anno, perdite ben maggiori nell’utile netto per gli oneri finanziari sul debito.
Per quanto riguarda le altre società, in totale 53, la flessibilità della normativa Marzano consentì di operare con tutti gli strumenti classici delle procedure concorsuali: concordato, cessione di rami d’azienda, liquidazione. Si ottenne così il mantenimento dell’80 per cento circa dell’occupazione inizialmente presente e la soddisfazione al 100 per cento dei creditori privilegiati. Fa eccezione il caso del Parma Calcio, che è tuttora in liquidazione dopo la cessione del ramo d’azienda e i cui creditori privilegiati sono stati soddisfatti al 60 per cento. Nelle società minori, legate al turismo, i creditori privilegiati sono stati soddisfatti invece nella misura del 31 per cento circa.
Anche i creditori chirografari sono stati soddisfatti al 100 per cento in 37 delle 53 società in esame, tutte caratterizzate da passivi meno rilevanti, al 50 per quanto riguarda la Boschi e al 21 per cento per Parmatour. Bondi ha altresì posto in risalto che vincente si è rivelata la cogente tempistica imposta al commissario dalla legge Marzano per presentare e ottenere l’approvazione delle linee guida del piano di ristrutturazione, approvato dal ministro il 23 luglio 2004, dopo essere stato presentato ai creditori nelle linee essenziali il 26 marzo 2004.
A questo iter tipicamente concorsuale si è aggiunto poi l’iter necessario alla riammissione dell’azienda alla quotazione in Borsa, funzionale al buon esito della proposta di concordato preventivo. Infatti la scelta strategica del piano di risanamento Parmalat è stata la proposta ai creditori di uno scambio tra crediti ed equity di una società divenuta priva di debiti, cosicché la quotazione in Borsa di tale società consentisse agli ex creditori, divenuti azionisti, di monetizzare il proprio credito. L’equity, ovvero il numero di azioni da attribuire ai creditori delle singole 16 società partecipanti al concordato, venne calcolato sulla base dei recovery ratio, individuati separatamente per ciascuna società, tenendo conto anche dei crediti infragruppo.
Inoltre, aggiunge Bondi, va considerato che al momento della quotazione la nuova Parmalat divenne titolare di un ulteriore e potenziale indennizzo per gli azionisti ex creditori, rappresentato da azioni risarcitorie e revocatorie nei confronti dei soggetti coinvolti nel dissesto, per un petitum complessivo di 7,5 milioni di euro per le azioni revocatorie e 12,5 milioni di euro circa per le risarcitorie. Il relisting è avvenuto il 6 ottobre 2005, meno di due anni dopo il crack, con un valore di apertura di 3,1 euro ad azione rispetto a un valore nominale di un euro, cosicché il debito ristrutturato è stato di 19,8 miliardi di euro, di cui 12,5 di principal e 7,3 di debiti con garanzie.
Sostanzialmente tutti i creditori votanti si espressero a favore di tale proposta di concordato; infatti la percentuale dei voti favorevoli fu pari al 94 per cento e tenendo conto anche dei non votanti - che, si ripete, ai fini del concordato sono da considerare implicitamente favorevoli -, questa percentuale raggiunse il 96 per cento. La ripartizione dell’azionariato iniziale si è rapidamente evoluta, giungendo a una Parmalat posseduta all’80 per cento da Fondi esteri, al 5 da banche italiane e al 12 per cento dal retail costituito da piccoli azionisti italiani ex obbligazionisti. Nel 2011, il Gruppo è presente in 26 Paesi con un totale di 65 impianti, circa 13.900 dipendenti e un fatturato di circa 4,7 milioni di euro. Pertanto, aggiunge con un pizzico di compiacimento il commissario Bondi, si può affermare che durante l’amministrazione straordinaria il Gruppo Parmalat non ha perso quote di mercato.
Una notazione che merita un rilievo a sé riguarda il controllo dell’amministrazione straordinaria da parte degli organi preposti: Ministero delle Attività produttive e comitato di sorveglianza. Infatti, il Ministero delle Attività Produttive, di concerto con quello dell’Agricoltura, fornì indicazioni al comitato di sorveglianza di salvaguardare al massimo sia i piccolo risparmiatori, sottoscrittori delle obbligazioni della Parmalat insolvente, e i produttori di latte. Inoltre la previsione, contenuta nel piano del concordato, di poter scambiare il credito privilegiato con quello chirografario ha consentito a molti, in particolare ai fornitori di società ad alto recovery ratio, ad esempio Eurolat, di fare un ottimo affare con questo scambio: un credito di valore nominale 1 è stato scambiato con un’azione di valore nominale molto superiore a 1 per tutto il periodo ottobre 2005-luglio 2011.
Per quanto riguarda, invece, i piccoli risparmiatori sottoscrittori di bond Parmalat, il concordato prevedeva di assegnare a ciascuno dei medesimi, oltre alle azioni derivanti dal recovery ratio, anche 650 warrant da esercitare al valore nominale di un euro. Per effetto di questo provvedimento i piccolissimi investitori, fino a 20 mila euro, hanno ottenuto un recupero percentuale decisamente superiore a quello dei grandi investitori, arrivando a superare il 60 per cento circa, con un valore dell’azione di 3 euro, calcolato come sommatoria del valore del titolo e dei dividendi pagati.
L’altro aspetto che il comitato di sorveglianza ha curato in maniera particolare è stata la distribuzione dei dividendi, in particolare tenendo conto delle sopravvenienze legate alle azioni risarcitorie e revocatorie che il commissario aveva proposto. L’attenzione ai piccoli azionisti della Parmalat Finanziaria in amministrazione straordinaria, società quotata in Borsa fino al default del dicembre 2003, non ha potuto avere conseguenze pratiche di rilievo poiché, per consolidata disposizione della legge fallimentare, esiste una ferrea distinzione tra capitali di rischio (azionisti) e capitali di finanziamento (obbligazionisti, banche, crediti commerciali), e dunque il riparto medio di Parmalat Finanziaria in favore dei piccoli azionisti è stato solo del 5,7 per cento. Questi i punti salienti della relazione Bondi, ma ciò che ha colpito maggiormente la platea e ha fatto riflettere, al di là dei dati e della vicenda che ha riguardato oltre 30 mila creditori, è stata la passione con la quale il commissario straordinario Bondi ha parlato del lavoro svolto trasmettendo il proprio profondo convincimento: la grande scommessa sul risanamento della Parmalat è stata vinta grazie ad uno sforzo collettivo. Non basta un «bravo» al commissario, la cui attività è diventata un «leading case», ma esso va rivolto a tutti i protagonisti coinvolti nella vicenda, dal ministro al Governo, ai componenti del comitato di sorveglianza della procedura, alla Consob, nella fase della riammissione al listino, ai creditori, ai fornitori di latte, ai trasportatori, ai dipendenti, ai collaboratori tutti, i quali hanno creduto e lavorato per il salvataggio di questa grande azienda e per la sua riorganizzazione industriale e commerciale. Il gioco di squadra, infatti, è vincente quando tutti compiono la loro parte con convinzione, passione e fiducia, lavorando intensamente e onestamente.
L’occasione dell’incontro a New York con i miei colleghi è stata originata, oltre che dalla periodica necessità di fare il punto sulle azioni giudiziarie pendenti in Italia, anche dalla necessità di spiegare la sentenza n. 37370/2011 emessa dalla Corte di Cassazione, V Sezione Penale in relazione alle condanne inflitte a molti dei protagonisti di questo straordinario dissesto. In questo caso nella sentenza - tralasciando sia le parti dedicate alle responsabilità dei singoli imputati che le motivazioni specifiche adottate per ognuna delle attività criminose dalle stesse poste in essere -, diviene particolarmente interessante l’inquadramento che la Corte di Cassazione compie in termini sia storici sia più generali del default, ponendosi la domanda come mai sia stato possibile e come mai nessuno degli addetti ai lavori si sia reso conto che la Parmalat marciava verso il dissesto.
Infatti la Corte ripercorre le tappe salienti, l’ascesa irresistibile di un marchio prestigioso nell’economia globale che andava accumulando debiti per oltre 13 miliardi di euro e rendeva inevitabili le dichiarazioni di insolvenza delle numerosissime società collegate e controllate. Come mai, aggiunge la Corte, «era giunto però il momento di chiedersi come fosse stato possibile che un sistema aziendale, così strutturato e famoso, eludendo i controlli istituzionali preposti a tutela anche del risparmio, oltre a quelli che ordinariamente avrebbero dovuto esercitare gli organi di vigilanza degli istituti di credito, giungesse sull’orlo del baratro, pregiudicando gravemente le ragioni di tanti creditori e bruciando i risparmi di tantissimi privati investitori.
Insomma, come fosse stato possibile che, nonostante inequivoci segni di sofferenza agevolmente rilevabili da qualsiasi pur inesperto analista sulla base dei soli dati Bloomberg sulle obbligazioni e delle informazioni della Centrale dei rischi quanto alle esposizioni nei confronti delle banche - peraltro in stridente dissonanza con un’ostentata copiosa liquidità - quel sistema avesse continuato a godere del credito bancario e della fiducia dei mercati, anche grazie ai sorprendenti giudizi lusinghieri delle agenzie di rating di merito creditizio. Si dovette attendere il 2003 perché finalmente un’agenzia di rating, la Merrill Linch, valutasse negativamente i titoli del Gruppo a causa dell’inspiegabile antinomia tra la spasmodica ricerca di risorse finanziarie e l’ostentata riserva di liquidità.
Nel febbraio dello stesso anno funzionari Lehman Brothers cominciarono a prospettare dubbi sull’effettiva esistenza della liquidità dichiarata, e per questo furono destinatari della strumentale denuncia di aggiotaggio, datata 24 marzo 2003, che a sua volta ha originato la controdenuncia per calunnia nei confronti di Gian Paolo Zini e Calisto Tanzi e l’odierna imputazione ex art. 368 del Codice penale a loro carico. E come fosse stato possibile che agli occhi di un qualsiasi attento, osservatore di dinamiche societarie sia potuta sfuggire la vera natura di alcune società, cosiddette società veicolo, costituite al solo fine di fungere dal collettore di debiti, cosiddette discariche, ed accortamente collocate fuori bilancio proprio allo scopo di occultare quelle esposizioni debitorie.
L’inevitabile momento di riflessione ha fatto emergere una realtà inquietante, di incontrovertibile rilevanza, anche di dimensione penalistica. Quanto accaduto era, infatti, imputabile a una capillare attività fraudolenta mediante la precostituzione di una falsa rappresentazione della realtà aziendale sulla base della manipolazione dei documenti contabili e delle comunicazioni sociali, sì da prospettare al controllore di turno, incredibilmente disattento o forse non troppo voglioso di farsi carico delle dovute incombenze, una situazione assai diversa dalla reale. Il colosso Parmalat sarebbe stato, dunque, null’altro che un castello di carte false, che, con ottusa pervicacia dei responsabili, ha continuato a sopravvivere nonostante tutto, sacrificando tanti interessi, ingannando tanti creditori e risparmiatori, portando il sistema oltre ogni limite di ragionevole aspettativa di ripresa, ove invece sarebbe bastato attivare tempestivamente le ordinarie procedure di salvaguardia per impedire gli effetti devastanti del dissesto economico-finanziario.

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