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Salone della Giustizia - Non solo magistratura, ma anche lotta al terrorismo

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Il Salone della Giustizia di quest’anno, che ha avuto luogo l’11, 12 e 13 aprile nel Salone delle Fontane all’Eur a Roma, quest’anno ha usufruito di un’attrezzatura tecnologica dotata di schermi giganteschi che proiettavano immagini evocate dalle relazioni dei vari relatori. I diversi «panel» hanno spaziato dal diritto di famiglia e ai problemi dei minori, alla professione dei magistrati, alla sicurezza stradale. Ho seguito con  interesse il panel dedicato alla prevenzione nella lotta al terrorismo intitolato: «conoscere e prevenire il terrorismo».
Tra gli oratori anche uno dei protagonisti della lotta al terrorismo negli Stati Uniti, il vicedirettore del National Counterterrorism Center, John J. Mulligan che insieme al generale Giuseppe Governale, capo dei Ros dell’Arma dei Carabinieri, al generale Riccardo Rapanotti, comandante del II reparto della Guardia di Finanza e Andrea Biraghi, direttore generale del Security Information System di Leonardo, hanno disegnato l’attuale perimetro della presenza, delle attività e della pericolosità del terrorismo internazionale. Mentre in precedenza si potevano considerare ad alto rischio terroristico determinate aree geografiche, oggi il terrorismo non ha confini, come i tragici attentati in diversi Paesi anche europei hanno dimostrato, non esiste più una zona «franca».
 La cosiddetta teoria della «carta moschicida» per la quale le concentrazioni nei luoghi bellici di un gran numero di terroristi nei luoghi di guerra come Iraq, Afghanistan, Somalia, Libia ed altri, ponevano al riparo da codesti attentati i Paesi europei, ha dimostrato di aver fatto il suo tempo. Le analisi effettuate dai relatori hanno dimostrato che dal punto di vista territoriale nessuno è più sicuro. È essenziale, quindi, l’individuazione dei mezzi più efficaci che possono essere utilizzati per contrastare questa minaccia.
Il nuovo scenario è relativo al terrorismo «domestico», che ha caratteristiche diverse da quello sperimentato precedentemente. Non c’è più bisogno di campi di addestramento, la scuola è permanentemente sul «web» ed abbraccia i vari settori delle conoscenze necessarie per essere terroristi operativi, dalla costruzione di ordigni esplosivi, ai convincimenti fideistici. In realtà, non è più necessario essere esperti nella costruzione e nell’utilizzazione di armi e/o di ordigni esplosivi perché, come gli ultimi episodi hanno dimostrato, un coltello o una mazza da baseball possono costituire un efficace mezzo di offesa.
L’arma fatale diviene oggi un’automobile, mentre l’imprevedibilità e la velocità di esecuzione fanno il resto. Il caso di Londra ha dimostrato che tra l’inizio dell’attività terroristica e la sua fine con l’uccisione dell’autore, sono addirittura trascorsi solo 82 secondi. Ma allora quali possono essere le contromisure? Le relazioni svolte sia dal generale Riccardo Rapanotti che dal direttore Santi Consolo del D.a.p. (dipartimento amministrazione penitenziaria), hanno evidenziato che malgrado il potenziale terrorista sia effettivamente difficile da scoprire perché spesso vive «senza dare nell’occhio», possono essere individuate e seguite tracce finanziarie che, se coltivate, daranno risultati interessanti. Anche se costui non usa carte di credito, deve pur vivere, pagare beni e servizi, quindi deve avere disponibilità di danaro e le rimesse, come ha documentato Rapanotti, lasciano tracce e costituiscono un mezzo di identificazione che spesso permette di allargare le indagini al supporto logistico che assiste il potenziale terrorista.
Normalmente queste persone hanno un vissuto di piccola criminalità, quindi è necessario indirizzare le ricerche. La risposta italiana alla minaccia terroristica che è emersa in tutta la sua efficienza è basata sulla circolazione di queste informazioni tra tutte le forze in campo; la cooperazione tra le varie unità speciali permette di esaminare migliaia di informazioni che quotidianamente giungono  alle strutture di riferimento che, oltre a Carabinieri, Pubblica Sicurezza e Guardia di Finanza, comprendono anche altri organismi quali, per esempio, l’Organizzazione Mondiale delle Dogane che tengono d’occhio le operazioni illecite e le dichiarazioni valutarie che i turisti effettuano all’ingresso nel nostro Paese, che possono anche riguardare destinazioni terroristiche. Il dato dei 5 miliardi di euro dello scorso anno esposto nelle dichiarazioni valutarie è indicativo, ma si tratta di somme importanti.
In generale il dibattito ha evidenziato che la scelta dell’impegno terroristico è una scelta spesso derivante da un vissuto di emarginazione e dalla ricerca di una prospettiva personale basata sul convincimento che l’atto terroristico, per noi occidentali di difficile, se non impossibile comprensione, costituisce la sublimazione, con il sacrificio della propria vita e di quella delle vittime, del disprezzo dei valori della nostra civiltà, dei nostri costumi e della qualità del nostro vivere. Certamente questi convincimenti, determinati spesso da un profondo odio per ciò che rappresenta e testimonia l’occidente, non vengono esteriorizzati, ma anzi vengono mistificati, pena la messa in pericolo della «missione» terroristica.
L’intervento del capo del D.a.p ha dimostrato che anche l’area carceraria, per raccogliere informazioni preziose per la lotta al terrorismo, va costantemente monitorata. Infatti dei 40 mila detenuti circa la metà sono di religione islamica, 12 mila lo sono senz’altro, gli altri sono simpatizzanti, o di area affine. Per esempio nelle carceri l’intelligence è attenta ai mittenti dei pacchi e delle rimesse economiche; a coloro che le persone sospette frequentano all’interno dello stesso carcere e al proselitismo. Anche codeste informazioni vengono messe a disposizione, allargando la gamma degli elementi di valutazione della pericolosità e dei collegamenti dei sospetti.
Con riferimento alla situazione esistente in altri Paesi europei nei quali sono stati consumati attentati terroristici è stato osservato che la ricerca e l’individuazione delle persone sospette è complicata dall’assenza di controlli periodici su coloro che sono a tutti gli effetti cittadini dei Paesi ove risiedono, e comunque cittadini europei con pieni diritti di circolazione e di stabilimento nei Paesi dell’area europea. È il caso, ad esempio, dei magrebini di terza generazione, nipoti di coloro che dopo la prima guerra mondiale si trasferirono in Francia, oggi a pieno titolo cittadini francesi, e quindi europei, mentre in Paesi come l’Italia ove queste realtà sono molto più ridotte, la necessità di rinnovare periodicamente i permessi di soggiorno comporta controlli ed autorizzazioni frequenti di grande importanza per il puntuale controllo del territorio.
Ciò che è emerso dal confronto tra la metodologia americana e quella italiana è particolarmente significativo e differenziante. Ferma restando l’importanza per la lotta al terrorismo, del continuo interscambio informativo a livello internazionale che esiste tra gli Usa e l’Italia, Mulligan ha posto in risalto che di fronte:
a) all’abilità dell’Isis nell’utilizzo di strumenti di comunicazione moderna e di tecnologie avanzate per identificare, reclutare e mobilitare i potenziali terroristi operativi;
b) alla capacità di rendere sempre più sicure le loro comunicazioni con e tra i potenziali terroristi in tutto il mondo;
c) alla scelta di far agire in molti casi, terroristi isolati, o in piccoli gruppi;
d) ai tempi molto ridotti tra l’ideazione e l’esecuzione dell’atto terroristico («flash to bang ratio» - dal fulmine al tuono) spesso con conseguente impossibilità di intervenire per impedirne l’esecuzione;
e) all’abilità dell’Isis di presentare agli adepti come vittorie anche le loro sconfitte, con effetti celebrativi per i proseliti.
Di fronte a questo scenario instabile e imprevedibile, la risposta americana è duplice: da un lato si contribuisce a costruire la Comunità di Intelligence  armonizzando i sistemi di protezione che si applicano a livello mondiale quando si ottengono, si conservano, o si diffondono informazioni personali di identificazione; dall’altro approfondendo le modalità di utilizzo della tecnologia nell’individuazione di minacce terroristiche, così da ridurre la raccolta di informazioni basate su relazioni interpersonali per la corretta valutazione delle informazioni e delle minacce e da richiedere un minor controllo umano delle informazioni raccolte.
Da questa strategia, si differenzia la soluzione italiana illustrata dai rappresentanti della nostra sicurezza, in particolare i nostri relatori hanno sottolineato la necessità di filtrare la gran mole di informazioni e notizie, attraverso una valutazione che non può essere effettuata che da esperti, affidando, quindi, al filtro dell’esperienza e dell’interpretazione ogni valutazione degli elementi di rischio che dalle varie informazioni emergono.
Il nostro sistema di sicurezza è basato, per esempio, per quanto attiene ai Carabinieri, sull’esistenza di ben 4.600 stazioni dell’Arma dei Carabinieri, esistenti su tutto il territorio nazionale, anche nei più piccoli agglomerati periferici e rurali, alle quali si sommano i commissariati di pubblica sicurezza, gli uffici della Guardia di Finanza e le ulteriori molteplici fonti della Polizia penitenziaria, strutture queste che sono tutte collegate telematicamente e in tempo reale alle rispettive centrali di controllo, ove anche con l’aiuto di sofisticate tecnologie, vengono filtrate e analizzate in tempo reale tutte le informazioni raccolte da esperti che hanno specifiche capacità valutative.
In questo quadro complesso quanto ricco di variabili e in perenne divenire, la moderatrice dell’incontro, Fiorenza Sarzanini, giornalista del Corriere della Sera, ha introdotto un’ulteriore problematica. Il binomio Sicurezza - Libertà, regge ancora su basi paritarie? La domanda interessa tutti noi, ovvero tutti i cittadini dei Paesi sotto attacco terroristico. Oppure, l’aumento della necessità di assicurare un livello più alto di sicurezza ai cittadini comporta necessariamente una diminuzione delle libertà individuali? Come esempio, sotto il profilo delle garanzie democratiche per gli Stati di diritto come quelli europei, si è discusso dell’espulsione dei presunti terroristi. Si tratta di un’anticipazione della condanna prima ancora che sia stato effettuato un giudizio, non costituisce l’espulsione, una prova dell’indebolimento del valore della libertà rispetto all’esigenza di sicurezza collettiva?
Personalmente ritengo che la morte delle persone coinvolte nell’attentato, per le stesse rappresenti la fine di ogni libertà e suggella un «vulnus» essenziale per lo Stato di diritto che deve assicurare tra i valori fondamentali la sicurezza dei propri cittadini, ma la loro difesa deve avvenire nel rispetto delle norme. I relatori, infatti, hanno illustrato il percorso garantista che viene compiuto dalle istituzioni competenti, per giungere con l’intervento della magistratura al provvedimento di espulsione. Dall’identificazione del presunto terrorista sulla base di una serie di gravi indizi di pericolosità, si giunge al convincimento che l’attentato ipotizzato abbia oggettivi elementi di realizzabilità, si pensi alle intercettazioni telefoniche, ai messaggi sul web, alle frequentazioni, agli acquisti di armi e/o di esplosivi che grazie al minuzioso controllo del territorio l’antiterrorismo raccoglie.
A riguardo è stato osservato che, dall’accertamento degli indizi o degli elementi di pericolosità, alla sentenza di condanna, trascorrono, nella migliore delle ipotesi, 8 mesi. In 8 mesi purtroppo il presunto terrorista, che è in grado di agire in 85 secondi (vedi Londra), può porre in essere più attentati e quindi coronare la sua missione.
È evidente che la posizione informale ed espressa a titolo personale da Mulligan è stata più orientata a favorire la sicurezza. In realtà, aggiungo io, la nostra è già una libertà «vigilata» perché  ciascuno di noi è sottoposto ad una serie di controlli che vanno dall’acquisto con carte prepagate, alle registrazioni telefoniche e degli sms, dall’uso della carta di credito, ai prelievi bancari. Oggi, pressoché tutti i nostri «movimenti» economici sono tracciabili e possono essere ricostruiti; esiste quindi un’esigenza sociale di trasparenza nei nostri percorsi di vita che già limita fortemente le nostre libertà personali, penso al diritto alla riservatezza per esempio.
Tali limitazioni però potrebbero essere rese «relative», se ed in quanto gli obblighi di segretezza e di riservatezza si trasferissero sugli organismi che ricevono queste informazioni, e se gli stessi fossero tenuti, pena pesanti sanzioni economiche personali a non divulgare ed a distruggere tutte le notizie prive di interesse antiterroristico.
Il quadro che questo panel ha permesso di realizzare pur nella sua complessità ha valenze senz’altro positive perché ha dimostrato come le nostre forze dell’ordine hanno realizzato un profondo know how ed efficaci modalità operative, apprezzate anche all’estero. È emerso, infatti, uno speciale modello italiano basato sulla circolazione, sull’esistenza della capillare presenza delle forze dell’ordine sul territorio nazionale; sulla circolazione in tempo reale di migliaia di informazioni, manifestazioni di anormalità e sulla loro analisi effettuata da centinaia di esperti dei diversi organismi e centri di controllo sul territorio.
Una volta tanto, l’individualismo italico ha ceduto il passo alla necessità di fare «sistema», per contrastare efficacemente la minaccia terroristica. Questo sforzo collettivo, l’orgoglio e la passione per il proprio impegno istituzionale che i vari rappresentanti dell’ordine pubblico italiano hanno trasmesso alla platea del «Salone della Giustizia 2017», meritano un sentito ringraziamento.

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