Mario Guidi: l’agricoltura cresce, ad essere in crisi sono le aziende agricole italiane
L'agricoltura italiana? Un settore più sano che mai, perfettamente in grado di trainare il Paese fuori dalla crisi. Ma salvarsi si può solo alla duplice condizione di acquisire la consapevolezza che il mercato su cui misurarsi ha una dimensione non meno che mondiale e che, quindi, le regole del gioco - tecnologiche, fiscali, organizzative e, soprattutto, culturali in senso lato - devono essere riscritte in un sistema che sia il più ampio possibile.
Mario Guidi è da tre anni al vertice di Confagricoltura. Cinquantatreenne di Codigoro in provincia di Ferrara, ha una solida preparazione teorica, la laurea in Scienze agrarie, ma non solo. Dall’osservatorio dell’azienda di famiglia, seicento ettari a prevalente indirizzo cerealicolo e risicolo, ha potuto farsi molto più che un’idea di come stiano le cose per chi voglia fare questo mestiere e per chi, attraverso questo mestiere, voglia davvero cambiare un po’ le cose. Impegnato con passione nella vita organizzativa e amministrativa del settore agricolo, ha ricoperto numerosi incarichi in ambito associativo, cooperativo e consortile e da un anno è anche coordinatore di Agrinsieme, sigla che unisce Cia, Confagricoltura e Alleanza delle cooperative agroalimentari.
Il tempo, fa capire Guidi, stringe. E l’Italia non può perdere la scommessa di un’uscita dalla crisi che punti sull’agroalimentare come risorsa chiave di una rinascita non effimera. E, se non nasconde di essere nato ottimista, spiega però che la sua fiducia nel futuro ha solide basi e molteplici prospettive.
Domanda. Cominciamo dalle prospettive. L’Expo 2015 è ormai alle porte ed è una grande occasione per l’agricoltura e l’alimentare made in Italy. Quali le principali iniziative messe in campo dalla Confagricoltura e con quale spirito?
Risposta. Comincerei dagli obiettivi. Intanto, contribuire a un’idea corretta della nostra agricoltura, che è una delle più grandi agricolture del mondo, perché sa coniugare l’innovazione con la tradizione. Solo che forse abbiamo un po’ perso il senso della nostra capacità di essere un settore all’avanguardia. Per comunicare questo ci serviremo anzitutto di immagini, visto che dovremo catturare l’attenzione del pubblico in modo estemporaneo. Quindi riempiremo Palazzo Italia, che sponsorizziamo, di immagini dell’agricoltura innovativa, che produce dei capolavori che sono i prodotti della nostra terra. E poi valorizzeremo la chance dell’Expo di essere quello che è: un momento importante in cui il pianeta intero, o buona parte di esso, si interroga sul proprio futuro includendovi l’agricoltura. Faremo sei mesi di convegni e di incontri proprio per stimolare la riflessione e la discussione. E per fare il punto in modo non certo autoreferenziale, ma planetario e globale, sui temi dell’agricoltura. Tenendo sempre presente il titolo dell’Expo: «Nutrire il pianeta, energia per la vita», che richiama la vocazione originaria dell’agricoltura, con qualcosa in più dovuto alla molteplicità di significato della parola «nutrire», che vuol dire in primis nutrire con il cibo, ma anche nutrire la mente e l’ambiente. E c’è la produzione di energia da fonti rinnovabili. Ci sono insomma tanti modi con cui l’agricoltura si trova attorno a noi. E il pianeta avrà bisogno in futuro di tutto questo, così come i cittadini del pianeta. Per questo, durante questi sei mesi, ci occuperemo anche di organismi geneticamente modificati o, meglio ancora, di impiego della genetica in agricoltura per la sostenibilità. E poi un evento su quella che chiamiamo «Ecocloud», la nuvola delle idee sostenibili, mettendo assieme tutte le pratiche che nel business esistono già o che potrebbero esistere in futuro per poter continuare a produrre in maniera sostenibile, secondo un’idea di sostenibilità che oggi va necessariamente declinata come ambientale, sociale ed economica.
D. I temi e gli spunti sono molteplici e connessi tra loro e rimandano a grandi temi di economia, di impatto sociale e di salute del pianeta. Volendo invece restare all’Italia e ai suoi problemi, qual è lo stato di salute della nostra agricoltura, tirando le somme per questo momento e tracciandone le prospettive a breve e medio termine?
R. Sono un imprenditore ed ho il dovere di essere ottimista. Ma non è solo il dovere dell’ottimismo che mi fa ritenere che l’agricoltura, mai come ora, abbia grandi prospettive. Mostra di essere l’attività più moderna e più futuribile: il suo stato di salute è ottimo. Ad essere in crisi, come mi sento sempre dire dai miei associati, sono le aziende agricole italiane. E noi possiamo fare qualcosa, anzi abbiamo il dovere di farlo. Voglio dire che l’agricoltura non è un settore da mettere in discussione, né un settore in crisi. Se però lo sono le aziende vuol dire che noi, oggi, in Italia, non adottiamo gli strumenti, le modalità per cogliere veramente e pienamente le potenzialità dell’agricoltura.
D. Allora, qual è il male che affligge le aziende agricole italiane?
R. Quello di non essere al passo, non come aziende cioè come capacità produttiva, ma come sistemi organizzati e di promozione. Noi ancora pensiamo che il mercato dei prodotti agricoli italiani sia l’Italia. Non è più così; non lo è più da tempo. Il mercato dei nostri prodotti è il mondo e noi dovremmo acquisirne una maggiore consapevolezza, perché possiamo veramente conquistare il mondo con i nostri prodotti.
D. Perché non siamo al passo? È un problema culturale?
R. In buona parte lo è. Noi non abbiamo consapevolezza del mercato che è ormai mondiale, e non pensiamo in modo internazionale. E siamo sovradimensionati per il mercato italiano, sottodimensionati per il mercato estero. Siamo poi provinciali, pensiamo che il mercato estero sia l’Europa. Il mercato estero è ormai il mondo. Anche il TTIP, Transatlantic trade and investment partnership, l’accordo commerciale di libero scambio tra l’Ue e gli Stati Uniti in corso di negoziato dal 2013 - che da molti viene visto come un rischio per l’Italia - certamente contiene delle incognite, ma l’unico rischio vero è quello di non saper gestire a dovere le opportunità che un mercato da cinquecento milioni di persone potrebbe darci.
D. Numeri alla mano, a suo avviso quali sono gli obiettivi cui il settore può e deve puntare per essere un vero fattore di traino anti–crisi?
R. Rimettere al centro l’agricoltura, ma anche le sue componenti più economiche. Il lavoro, l’occupazione. Il governo ha cominciato a dare segnali in questa direzione, visto che ci sono nuovi strumenti per il lavoro in agricoltura. E poi, darsi obiettivi alti. Raggiungere quota 50 miliardi di euro in termini di export è un obiettivo che ritengo alla nostra portata, ma su quello dobbiamo ancora lavorare.
D. Il settore agricolo italiano sta vivendo un momento di evoluzione all’insegna della multifunzionalità e della coltivazione in senso stretto; si sviluppano attività diverse come gli agriturismi o altri tipi di possibilità. Come valuta questi cambiamenti?
R. L’aspetto più evidente che emerge da questi cambiamenti è il ruolo di assoluta centralità dell’agricoltura che è il perno di tante attività connesse. Un’evoluzione sicuramente positiva che si sta accelerando e quindi si fa agricoltura producendo cibo, producendo beni pubblici ovvero la custodia dell’ambiente, ma si fa agricoltura anche creando ospitalità turistica e valorizzando un paesaggio agrario che, pensiamo solo alle colline toscane, tutti ci invidiano. E si fa agricoltura addirittura producendo energia, proprio l’energia pulita che l’Europa ci chiede.
D. I dati sulla disoccupazione sono in crescita e i mestieri legati alla terra, dicevamo, sono in aumento. L’agricoltura può dare anche occupazione?
R. Certamente. Anche perché, connesse all’agricoltura sono una serie di facoltà universitarie che oggi crescono e sono collegate all’economia, al marketing. Si tratta però di riuscire a cambiare la visione che il Paese ha dell’agricoltura, ovvero di un settore marginale, che vive di «romanticismo» e di sussidi. Di un settore primario, ma nel senso che è rimasto indietro e non come settore positivo. Quindi c’è un cambio di mentalità, un salto culturale da compiere, con la consapevolezza che chi intraprende il mestiere di agricoltore deve gestire macchine che costano centinaia di migliaia di euro, che usano il posizionamento satellitare, i laser e le migliori tecnologie possibili. Non è più solo un lavoro di fatica.
D. In che modo l’agricoltura può avvicinarsi ai giovani e comunicare il suo valore di novità e di appetibilità per le nuove generazioni?
R. Rendendola anzitutto un settore in grado di produrre un reddito adeguato, perché i giovani torneranno all’agricoltura nel momento in cui il settore sarà capace di dare il ritorno economico che merita. Ci vorrebbe anche la banda larga in tutto il Paese. Non è una provocazione. E l’high tech non è, come alcuni pensano, un’attività lontana dall’agricoltura. I giovani stanno nelle aziende, nelle aree isolate delle campagne, lontani dai centri abitati, solo se possono essere connessi. Oltre naturalmente ad avere gli strumenti, che stiamo anche atto chiedendo di mettere in atto e rendere effettivamente fruibili, di finanziamento e di supporto, che consentano a chi proviene da famiglia agricola di innovare e a chi non ha il bene terra di poterlo acquisire.
D. In che modo si può riportare l’agricoltura, con le sue esigenze di oggi, al centro dell’agenda politico-economica del Paese? Con quali decisioni cardine?
R. Le decisioni cardine attengono anche alla capacità di saper distinguere tra quello che definisco un welfare agricolo, ovvero necessario e utile sostegno a quelle aziende che svolgono una primaria funzione di presidio sul territorio, e il sostegno a un’altra realtà esistente: quella dell’agricoltura che crea occupazione, che dà reddito, che impiega tecnologie e che ha bisogno di investimenti. Le imprese agricole più produttive sono poche in Italia: qualche centinaia di migliaia, ma questo non è un handicap, perché queste aziende sono in grado di fornire un lavoro di qualità e di essere più forti nella loro capacità di creare reddito. Riconoscere questa realtà è un salto culturale che dobbiamo fare anche noi agricoltori, accettando la sfida del mercato.
D. In campo governativo e decisionale quali cambiamenti auspica per il settore?
R. Serve sicuramente una politica del credito all’altezza dei nuovi bisogni delle imprese agricole, che già di per sé hanno delle peculiarità, come la produzione a cielo aperto, che le espone a una serie di rischi, come quello climatico. Sono inoltre necessarie politiche di semplificazione. La ripartizione dei centri decisionali tra Stato centrale, Regioni e Province ha creato una stratificazione che impedisce alle aziende di aprire le ali e potersi sviluppare. Infine, serve una politica di pianificazione e d’investimento per l’utilizzo delle risorse dell’Unione europea assolutamente rivolta a quello che l’Italia vuole effettivamente fare, puntando su quelle filiere che possono veramente creare un valore aggiunto.
D. L’Italia ha perso ingenti somme dai finanziamenti europei per vizi procedurali e altri errori simili.
R. Ha ragione. Sono state molte le occasioni perse - centinaia di milioni di euro - dall’agricoltura, ma anche dal Paese, perché ogni euro che un’azienda investe è un volano finanziario, crea occupazione e benessere in tutta l’Italia, non solo nella realtà agricola. Basti pensare che l’agroalimentare trascina il 17 per cento del Prodotto interno lordo. L’agricoltura ne rappresenta solo il 3 per cento, è vero, ma innesca un consistente circolo. Se le aziende agricole, come si diceva all’inizio, sono in difficoltà, è perché su di esse grava un’inefficienza complessiva del sistema Paese.
D. Il Governo ha recentemente abrogato la classificazione su base altimetrica stabilita dal contestato decreto ministeriale di fine anno. Un sospiro di sollievo o una misura insufficiente?
R. Sicuramente si tratta di una manifestazione di consapevolezza, che come Confagricoltura commentiamo positivamente. Siamo lieti che sia stata fatta maggiore chiarezza. Resta il fatto che le aziende agricole continuano ad essere caricate di un onere fiscale che non si possono permettere. Parte delle risorse per la copertura finanziaria del provvedimento vengono sottratte al «pacchetto agricolo». Avremmo voluto uno sforzo più coraggioso perché riteniamo ingiusto gravare di ulteriori balzelli aziende in difficoltà che hanno, tra l’altro, il grande merito di operare per la difesa del paesaggio ed essere spesso anche l’unico bastione contro il dissesto idrogeologico del territorio.
D. Dunque non interventi a singhiozzo, ma una soluzione strutturale con la consapevolezza delle varie specificità?
R. Esatto. Da tre anni sono alla guida di Confagricoltura e ogni anno ho dovuto affrontare diverse emergenze. Dai danni del maltempo, alla messa in sicurezza del territorio e le inique tassazioni. Dall’ici, che poi è diventata imu e non solo è raddoppiata ma ha rischiato di colpire i beni strumentali e i fabbricati che siamo poi riusciti a togliere, fino all’imu per le aree svantaggiate. Mi chiedo: quando ci si renderà finalmente conto del valore dell’agricoltura e della sua capacità di volano economico per il Paese?
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