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SANITÀ- GIUSEPPE PROFITI: FINITA LA «FUGA»,TORNANO I CERVELLI AL BAMBINO GESÙ

Il prof. Giuseppe Profiti, presidente dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma

Docente di Contabilità degli Enti pubblici a Genova, consigliere della Ragioneria generale dello Stato, con incarichi di vertice a Genova nell'Istituto per la Ricerca sul cancro, nell'Istituto Gaslini, nell'Ente Ospedali Galliera e nella Regione Liguria, il professor Giuseppe Profiti, ha maturato una profonda esperienza nella gestione di istituti di ricerca scientifici, enti ospedalieri, istituzioni economico-finanziarie nazionali. La presidenza affidatagli nel 2008 e tuttora ricoperta dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma ha arricchito questa preziosa struttura della Santa Sede di una guida specializzata, a vantaggio dei piccoli assistiti e della collettività.
Domanda. In quale situazione opera il Bambino Gesù, con riferimento alla dislocazione geografica delle sedi, all'offerta sanitaria pediatrica, ai bisogni emergenti e alle caratteristiche necessarie per poter competere in questo campo?
Risposta. Il Bambino Gesù è l'Ospedale pediatrico della capitale quindi dell'area metropolitana di Roma, comprendente quasi 4 milioni di abitanti, un bacino d'utenza che deve rispondere a tutte le esigenze, dalla semplice influenza agli interventi di alta specializzazione. Nel panorama nazionale è il maggiore centro sia per dimensioni sia per la complessità di prestazioni, e uno dei primi tre ospedali pediatrici in campo internazionale per il numero e la qualità delle prestazioni. Il «Sistema Bambino Gesù» è costituito da 4 presidi situati nell'area romana, del Gianicolo, di San Paolo, di Palidoro e di Santa Marinella, in collegamento con le tre sedi nazionali che sono a Catanzaro in Calabria, a Taormina in Sicilia e a Potenza in Basilicata.
D. Qual è il compito del sistema, nel suo complesso?
R. È realizzato per rispondere a una modifica della situazione e dell'offerta pediatrica nazionale. Nascono meno bambini, esistono limiti finanziari a livello regionale. Per rispondere ai bisogni dei casi comuni e a quelli di alta complessità, l’attuale assetto istituzionale sanitario non è particolarmente efficiente, l'ambito regionale spesso non fornisce un numero di casi sufficiente per giustificare un investimento in strutture pediatriche complesse, né consente un'adeguata specializzazione dei medici locali per i casi complessi: la casistica, l'occupazione pediatrica, la frequenza della patologia sono basse. Un sistema efficiente simile a quello degli altri Paesi europei richiede una risposta pediatrica da strutture decentrate qualitativamente soddisfacente per la bassa e la media complessità, ma anche un sistema  in grado di concentrare in pochi centri nazionali l'alta complessità. Questo consente economie e soprattutto migliora gli indicatori di esito, in modo che, messi a disposizione dei medici, servano ad affrontare meglio le patologie rare.
D. Come può ottenersi questo?
R. In altri Paesi si definisce la risposta alla domanda pediatrica attraverso la pediatria territoriale e ospedaliera, che consente di razionalizzare le risorse e di offrire il miglior servizio qualitativo. Questo esige la mobilità dei pazienti, che non è negativa in sé, ma può essere negativo il motivo per il quale ci si sposta. Recarsi in un grande centro alla ricerca di una prestazione unica è un fenomeno che in Europa distingue il piccolo dal grande Paese avanzato, ad alto reddito e ad alta scolarità, perché la capacità di informarsi e la disponibilità di reddito alimentano la ricerca dell'alta specializzazione.
D. Si cambia città o regione solo per questi motivi?
R. Si registra anche una «mobilità patologica», conseguente al fatto che nella propria zona o non si ottiene risposta, o è considerata qualitativamente inadeguata; questo tipo di mobilità è da combattere. L'obiettivo del sistema Bambino Gesù è aprire strutture in ambito locale in modo che abbiano un pregio, non generino spese aggiuntive, e siano frutto di un accordo con le Regioni. Queste ci affidano in gestione i dipartimenti di pediatria dei loro ospedali, dai quali non svolgiamo solo l’attività ospedaliera ma coordiniamo tutta la rete pediatrica regionale. Questo ci consente, in collaborazione con i pediatri territoriali e ospedalieri della Regione, di curare il paziente in base alla sua complessità: chi deve fermarsi in ambito locale, chi deve recarsi nel centro regionale, chi da questo deve andare a Roma.
D. Come scegliete i medici?
R. Nel Sistema Bambino Gesù la selezione e l'investimento nel personale sono fondamentali. Sono considerati l'orizzonte professionale di tutte le professioni sanitarie; non solo del personale medico, anche di quello infermieristico. Questo ci consente di selezionare i migliori. Da tre anni non parlo solo di operatori nazionali, perché aumentano le candidature o di italiani di ritorno dall'estero, o di professionisti stranieri che considerano il Bambino Gesù una meta professionale. Il primario neurochirurgo è francese, il capo della chirurgia è belga, un direttore di dipartimento cardiologico è statunitense, alcuni medici sono libanesi. Vengono a completare la loro formazione in determinate specialità, come cardiologia e cardiochirurgia.
D. A quali obiettivi punta il piano strategico per il 2012-2014?
R. Al consolidamento della nostra rete nazionale che è una risorsa per il Paese; è il primo obiettivo perché è bene essere eccellenti, ma l’eccellenza va trasformata in valore. Un altro scopo è la destinazione del secondo triennio interamente all'attività di ricerca; la sede di San Paolo a Roma, dove sta per essere completato il centro di ricerche, costituirà un ulteriore strumento competitivo rispetto agli altri operatori internazionali, e ci consentirà di puntare al primato internazionale che già deteniamo per numero di casi e di patologie trattate. La componente scientifica, che è la più cresciuta negli ultimi tre anni, vanta un primato in campo nazionale, ma abbiamo bisogno delle infrastrutture che stiamo completando secondo un modello innovativo.
D. In che consiste questo modello?
R. Stiamo realizzando un centro di ricerche accanto alla struttura assistenziale, quasi compenetrato con essa, il che consente di abbattere non solo i costi finanziari ma anche gli ostacoli al passaggio delle conoscenze dal laboratorio al letto del malato; questa soluzione comporta la «clinicizzazione» del ricercatore e la trasformazione in ricercatore del medico, in modo che questo registri per primo la reazione della malattia al trattamento con la sua scoperta, e guidi la ricerca secondo le indicazioni provenienti direttamente dal paziente. A San Paolo si visitano un milione di bambini all'anno, che forniscono un bagaglio inesauribile di casi anche relativi a patologie rare.
D. Quanti reparti ha il Sistema Bambino Gesù?
R. Comprese le sedi periferiche, conta 700 posti letto; a Roma sono 500. Per adeguarci allo sviluppo medico negli ultimi tre anni non abbiamo «tagliato» i posti letto ma questi si sono ridotti automaticamente, perché non ne ha più bisogno. Non è il numero dei posti letto a dimostrare la capacità di una struttura ospedaliera, ma il numero delle persone e delle patologie che vi «girano». Grazie all'organizzazione e al progresso della medicina e della farmacologia, in tre anni alcune patologie, che prima trattavamo con il bambino a letto in day hospital, ora le curiamo con una prestazione ambulatoriale.
D. Può fare qualche esempio?
R. Un caso per tutti è la nuova Tac. Ha una maggiore capacità di diagnosi ma non necessita di collaboranti. Nella Tac in un bambino di 6 anni non è garantita la sua immobilità, e questo ci obbliga a sedarlo; il nuovo apparecchio consente la diagnosi con il paziente in movimento. Anestetizzare un bambino significa addormentarlo, svegliarlo, dimetterlo con la certezza che non abbia conseguenze; tutto ciò ne impone il ricovero per cui, se per un adulto occorre mezz'ora, per un bambino una giornata di day hospital. La nuova Tac ci consente di trattarlo come un adulto.
D. Con il nuovo Centro di ricerche e cure pediatriche di San Paolo Fuori le Mura, Roma si confermerà capitale internazionale per la salute dei bambini?
R. Di più grande in Occidente c'è solo il centro di Philadelphia, in Europa nulla di simile. Il Bambino Gesù è tra i primi posti nella produzione scientifica, che possiamo misurare con due sistemi: il numero delle pubblicazioni scientifiche realizzate dai ricercatori e in questo l'Ospedale è il primo e unico in Italia in campo pediatrico e il quinto tra tutti gli istituti scientifici; dato che facciamo assistenza e ricerca, la produzione scientifica può essere misurata anche tramite le sperimentazioni cliniche sul paziente. Attraverso l'attività di ricerca, di studio e di sperimentazioni, negli ultimi anni siamo riusciti a portare al letto del malato il nuovo cuore artificiale per superare uno dei nostri maggiori problemi, la sopravvivenza dei neonati in attesa di trapianto.
D. Avete applicato cuori artificiali nei neonati?
R. Per primi nel mondo, due anni fa; vantiamo un primato mondiale nell'impiego di un cuore artificiale. Il bambino sta bene, frequenta la scuola, e fortunatamente è sotto controllo anche un’altra patologia che presenta. Nei casi in cui il trapianto non è possibile per motivi di età o presenza di altre patologie, il bambino con cuore artificiale può vivere normalmente nella propria condizione.
D. Il cuore artificiale rimane per tutta la vita?
R. Sì, è permanente rispetto a quelli usati negli adulti come ponte per il trapianto. Abbiamo dovuto sviluppare questa soluzione  perché trattiamo soggetti per i quali la prospettiva del trapianto è lontana. Un neonato di un certo peso ha difficoltà a ricevere un organo, va assistito in questo periodo e per questo abbiamo dovuto ideare un’idonea soluzione tecnologica. La durata di un cuore artificiale è di circa 5-10 anni, dopo dovrebbe essere sostituito. Stiamo progettando cuori artificiali sempre più piccoli, destinati a neonati.
D. L'ospedale, proprietà della Santa Sede, è gestito in collaborazione con le autorità sanitarie del Comune di Roma. In che modo?
R. Nella propria attività clinica e scientifica il Bambino Gesù è un ospedale pubblico a tutti gli effetti; la sua appartenenza alla Santa Sede fa sì che i suoi rapporti con il servizio sanitario nazionale siano disciplinati da un trattato internazionale tra i due Stati, ma per l’accesso alle prestazioni, alle cure, alle attività di ricerca è pubblico a tutti gli effetti.
D. Come giudica la situazione della spesa sanitaria?
R. La mia risposta è limitata a quanto abbiamo a Roma, in rete e come Sistema Bambino Gesù. La situazione è difficile dal punto di vista sanitario e finanziario, i problemi sono quelli del Servizio Sanitario Nazionale. Credo che in Italia vi sia bisogno di una lettura corretta dello stato reale: si dice che nella sanità si spende troppo e male, ma non è vero né l’una né l'altra affermazione. Rispetto al prodotto interno l’Italia spende per la sanità in media quasi quanto gli altri Paesi europei. Ma se trasformiamo questo dato in spesa pro capite per ogni anno e per ogni cittadino, ci accorgiamo che, rispetto alla media europea, spendiamo il 20 per cento in meno. I dati usati per indicare l'efficacia di un sistema sanitario - aspettative di vita, indicatori d'esito, mortalità infantile -, mostrano che i nostri valori sono in linea con quelli degli altri Paesi europei che spendono anche più di noi. Ma il sistema sanitario è spezzato in due: quello del Centro-Nord è espressione di uno dei sistemi sanitari migliori del mondo; nell'altra parte del Paese questa eccellenza e questa capacità non si esprimono nello stesso modo.
D. Come cambierebbe questa sanità delle lunghe attese?
R. Dovremmo domandarci fino a che punto la regionalizzazione della sanità sia una formula vincente nella situazione attuale, e in che misura vada rivista in base al presupposto che non necessariamente la dimensione regionale è la migliore per dare una risposta sanitaria. Vi sono Regioni piccole che non hanno convenienza né economica né clinica a dotarsi di una serie di servizi perché non raggiungono una popolazione e una casistica sufficiente. Il 40 per cento di esse hanno meno di 2 milioni di abitanti. I dati scientifici indicano che una cardiochirurgia pediatrica ha bisogno di un bacino di 6,5 milioni di abitanti, non per una razionalizzazione economica ma per un’efficacia clinica; solo due Regioni italiane superano tali numeri.
D. Un ospedale pediatrico dovrebbe curare la formazione dei genitori?
R. È un bisogno tipico di tutta la sanità. La centralità del paziente non dipende da un fattore solo organizzativo ma anche culturale: il paziente deve essere al centro perché è portatore non solo di un problema clinico o biologico, ma anche di un'alterazione della sfera psicofisica. E questo sta modificando profondamente la nostra organizzazione. Il nostro ospedale ha ridotto di circa 200 i posti letto, ma oggi fuori di esso ne gestisce quasi 200 in più, in strutture di accoglienza complementari al tipo di risposta clinica. Chi viene in ospedale per sottoporsi a chemioterapia o a trapianto di midollo, soprattutto se è un bambino, deve starvi il minor tempo possibile, ma non può tornare rapidamente a casa soprattutto se viene da fuori; ha necessità di soggiornare in una struttura vicina all'ospedale che nello stesso tempo sia cosciente di avere un ospite in casa.
D. Quante presenze del genere gestisce oggi l’Ospedale Bambino Gesù?
R. Quasi mezzo milione all'anno, come un albergo di 150 camere. Questo consente al bambino di stare poco in ospedale e più con la famiglia in un ambiente domestico, ma anche con operatori che conoscono le sue caratteristiche e fragilità, e che sono in costante contatto con l'ospedale. 

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