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la mela avvelenata del federalismo fiscale

di Giorgio Benvenuto, presidente della fondazione  Bruno Buozzi

Il federalismo fiscale all’italiana è un grande pasticcio. La leggerezza, l’improvvisazione e l’opportunismo hanno determinato una politica economica, fiscale e sociale mostruosa. L’intenzione era quella di passare da una gestione centralizzata dello Stato ad una sua articolazione con la valorizzazione delle autonomie locali responsabilizzandole nell’esercizio delle loro prerogative. L’obiettivo era quello di razionalizzare il sistema fiscale, di semplificare le decisioni, di tagliare le spese improduttive, di riavvicinare i cittadini alle istituzioni. Così non è stato. Così non è.
La riforma della Costituzione, con la realizzazione della cosiddetta legislazione concorrente tra Stato e Regioni su una serie consistente di attività, ha determinato il caos, l’incertezza, la paralisi. La Corte Costituzionale è impegnata in grande prevalenza a dirimere conflitti di competenza che si moltiplicano all’infinito. La conseguenza è la paralisi dell’economia. Non si conoscono gli interlocutori: per chi vuole intraprendere una qualunque attività si profila un assurdo «gioco dell’oca». Gira e rigira si torna sempre alla casella di partenza.
Nessun risparmio poi sulla spesa. Gli apparati burocratici delle Regioni, delle Province e dei Comuni continuano ad ingrossarsi senza controllo. Predomina il clientelismo e l’occupazione del potere. Ogni tentativo di riforma viene bloccato. Le Province sono intoccabili. Le spese lievitano. Le partecipate sono diventate un vero e proprio poltronificio. Persino la Corte Costituzionale ha dato e dà una mano, rendendo inapplicabili le timide iniziative del Parlamento. È così che si è dichiarata l’incostituzionalità dell’abolizione delle Province e si è cancellato il controllo che la Corte dei Conti poteva esercitare sui bilanci degli enti decentrati.
Il frutto avvelenato di questa situazione è l’imbarbarimento fiscale. Gli enti locali hanno i bilanci in rosso. Cova sotto la cenere la bolla dei derivati. Non si è capaci di operare risparmi e tagli alla spesa improduttiva. La conseguenza è semplice, automatica, assurda. Lo Stato taglia i trasferimenti; gli enti locali reagiscono con l’aumento della fiscalità. Dicono gli enti locali: «Lo Stato ci impedisce di tutelare gli strati più deboli, ci impedisce di mantenere  i servizi sociali. È per questo che si deve ricorrere alla leva fiscale». È una balla. I servizi sociali o sono fortemente ridotti o, per la complessità delle procedure, non sono usufruibili per la gran parte dei cittadini. Le tasse, i balzelli, le imposte servono per mantenere in piedi un sistema burocratico elefantiaco e, in gran parte, per finanziare sprechi e sperperi.
Si è così arrivati ad una pressione fiscale complessiva del 45 per cento. Tasse, ancora tasse, sempre tasse. Proliferano in una babele di acronimi: Irpef, Irap, Ici, Tia, Tarsu, Imu, Ires, Tares ecc. Non si disdegna di ricorrere a nebulosi e misteriosi anglicismi come la Service Tax. Questa tassa dovrebbe comprendere parte della Tari, prenderà il posto della Tarsu o della Tia, le imposte sui rifiuti, cui si aggiungerà la Tasi, la nuova imposta sui servizi indivisibili. Insomma aumentano gli esattori (Comuni, Province, Regioni) che incrementano le tasse sempre sulla stessa platea dei contribuenti.
C’è un buio assoluto sulle tasse locali fino a dicembre. La proroga dei bilanci preventivi concessa ai Comuni e i dubbi sulle risorse effettive determineranno aumenti significativi delle addizionali. Anche la riforma del Catasto è continuamente rinviata. Attende da vent’anni. I Comuni hanno gli strumenti per intervenire. Le zone «di pregio» nelle grandi città sono nelle zone periferiche e semiperiferiche mentre sono considerate ultrapopolari quelle centrali. Il Catasto a Roma considera tali Piazza Navona, Piazza di Spagna. Eppure le mappe sono state aggiornate; Google, se si va a cliccare, fornisce dati precisi. Ma non succede niente. Non ci sono blitz che smascherino i furbetti del Catasto. Matura il sospetto che in quelle case «popolari» abitino alti dirigenti della politica, della burocrazia, delle organizzazioni sociali.
Si sta riaprendo, invece, il cantiere delle tasse locali. Entro il 30 novembre bisognerà approvare i bilanci per far quadrare i conti del 2013. Le previsioni sono preoccupanti. Qualche dato. Le tariffe dei bus e della metropolitana dal 2002 ad oggi sono in media cresciute del 64 per cento, quasi tre volte l’inflazione del periodo in esame; il trasporto locale ha perso il 23 per cento delle risorse, mentre è aumentata l’utenza del 30 per cento. Gli aumenti, soprattutto nelle grandi città, si sono concentrati negli ultimi anni. Si parla di decongestionare la circolazione. L’obiettivo è giusto, inconsistenti sono le alternative. Si propongono isole pedonali, ma in realtà si tratta di corsie riservate, in genere, alla «casta»; la politica del trasporto locale viene affrontata con ridicole esibizioni; non si affrontano i nodi dei costi. A Roma l’Atac ha registrato perdite per 719 milioni di euro nel periodo 2009-2012. Non perché sono migliorati i servizi, ma perché gli investimenti sono stati concentrati in discutibili ed inutili assunzioni clientelari.
L’aumento delle addizionali Irpef riparte da Milano. La Giunta Pisapia per far quadrare i conti del bilancio ha provveduto a portare l’aliquota allo 0,8 mentre   due anni fa, con la Giunta Moratti, era a zero;  e ha ridotto l’esenzione da 30 mila a 15 mila euro di reddito lordo. Gli aumenti in percentuale sono consistenti. Incidono di più sui redditi medi: sei volte in più per i redditi fino a 30 mila euro; tre volte, tre volte e mezzo, in più per i redditi da 40 mila a 75 mila euro; appena due volte per i redditi oltre i 100 mila euro.
Analoghe decisioni sono state prese dai Comuni di Brescia, Cremona, Venezia, Piacenza, Reggio Emilia, Napoli e Salerno. Ormai l’addizionale Irpef per i Comuni è generalizzata allo 0,8 per cento, ad eccezione di Roma che si avvia a superare l’1 per cento. In sostanza l’addizionale per i Comuni è aumentata del 165 per cento dal 2002 ad oggi. L’imposta ha corso a ritmi superiori 8 volte all’inflazione e, con gli interventi in corso di attuazione, supererà i 4 miliardi di euro l’anno. Sistematica è la violazione dello Statuto del Contribuente: molti aumenti saranno decisi a novembre e avranno un effetto retroattivo sui redditi già maturati nel corso dell’anno.
L’eliminazione dell’Ici sulla prima casa e la trasformazione dell’Imu in Service Tax sono un vero e proprio specchietto delle allodole. In realtà le tasse locali non si riducono, cambiano nome, aumentano. In quindici anni sono cresciute del 114 per cento. Le tariffe locali si sono impennate. Secondo l’Unioncamere, sono cresciute del 4,9 per cento nel 2013, oltre il tasso di inflazione che è al 3 per cento. Ecco un quadro degli aumenti delle tariffe locali: musei 2,9 per cento; rifiuti 4,7; asili nido 3,6; acqua potabile 6,7; trasporti urbani 5,3; auto pubbliche 5,2; trasporti extraurbani 9,3; ferrovie regionali 3,8; servizi sanitari 1,9; istruzione universitaria 3,8; altre tariffe 5,2 per cento. A livello nazionale, invece, le tariffe sono così aumentate: tariffe postali 10,1 per cento; medicinali 2,1; autostrade 4,1; canone Tv 1,4; telefoni 9,9 per cento.
Il federalismo ha il proprio fondamento nel «giudizio fiscale» del cittadino sul rapporto tra tasse e servizi, per verificare il consenso politico sui sindaci, sui governatori, sui presidenti di Provincia. Ma così non è. Il contribuente si trova in un vortice di aliquote, di microimposte, di infinite addizionali che si susseguono con una legislazione confusa, incontrollabile, interminabile. La pressione fiscale aumenta a ritmi serrati, è aggiuntiva e non sostitutiva di quella centrale, è iniqua. Occorre intervenire sull’imbarbarimento fiscale, sull’azzeramento dello Statuto del Contribuente, sulla distorsione del federalismo fiscale.
Il Governo delle larghe intese, se riuscirà a sopravvivere, com’è auspicabile, deve affrontare di petto la questione fiscale. L’Ocse ha ricordato che tra i Paesi del G/7 solo l’Italia è in recessione. Si continua a ripetere che l’uscita dalla crisi è lenta ma che il miglioramento nel Paese è in atto. È una affermazione ripetuta in ogni occasione, sempre rinviata al semestre successivo. La ripresa è come il mitico Godot. Non arriva mai. Serve un’inversione di tendenza; occorre operare un taglio robusto alla spesa corrente per trovare le risorse per le imprese e per le famiglie.
La lotta all’evasione fiscale senza l’impiego delle risorse «recuperate» ai fini dell’equità e della redistribuzione fiscale non consente di raggiungere risultati apprezzabili: si pensa di recuperare appena 12 su 180 miliardi di evasione. Non si può nemmeno pensare di ricorrere sempre all’incremento del prelievo fiscale. È stato superato ogni limite. La strada maestra è la riduzione della spesa corrente, con misure strutturali che rendano coerente il «federalismo fiscale» e semplifichino gli organi di decisione.
Non ci sono alternative. Se si insiste sulla politica degli ultimi anni si arriverà ad una medioevalizzazione del nostro Paese. Un’Italia frantumata in vassalli, valvassori, valvassini, sempre più somigliante ad un gigantesco suk orientale senza legalità e senza regole. Se non vogliamo scivolare in Africa, dobbiamo rimanere agganciati all’Europa; occorre evitare che giovani ed imprese continuino ad andare via dal nostro Paese. Sono state perdute tante occasioni, non c’è molto tempo, è necessario che vengano finalmente adottate le scelte vere per riprendere il cammino dello sviluppo.  

Tags: Ottobre 2013 Giorgio Benvenuto fisco federalismo

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