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stato predatore: perché cresce la voglia di evasione

di ENRICO SANTORO  professore, avvocato

Per i saggi nominati dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano in seguito allo stallo politico scaturito dalla reciproca intolleranza dei tre partiti usciti dalle elezioni con un numero di consensi insufficiente a determinare stabilità, la crisi del sistema tributario italiano ha un peso determinante nel futuro dell’economia. Probabilmente leggendo fra le righe del loro memorandum anche il nuovo presidente della Repubblica ne sarà sensibilizzato. Anche perché, proprio mentre i saggi erano riuniti, specificamente dal fronte tributario provenivano notizie a dir poco agghiaccianti, che meritano di essere richiamate per capire la gravità della questione. Cominciamo da quella «storica»: per la prima volta da quando l’Istituto centrale di statistica ha iniziato ad effettuare questo calcolo, i cittadini italiani hanno scoperto che la parte di soldi guadagnati, che lo Stato chiede loro, è maggiore di quella che possono tenere per vivere.
Altro che sceriffo di Nottingham. La pressione fiscale negli ultimi tre mesi del 2012 si è impennata al 52 per cento; quella media è stata pari al 44 per cento, con una crescita dell’1,4 rispetto al 2011. L’aumento del 7,6 per cento delle imposte dirette, del 4,3 delle imposte indirette e del 6,7 delle altre entrate ha comportato un aumento tendenziale del gettito fiscale pari al 4,3 per cento. Percentuali aride, perché da spremere c’è ormai ben poco. Anche se colpiscono profondamente, non stupiscono più le notizie di suicidi a ripetizione tra imprenditori e pensionati. Non potrebbe essere diverso, anche perché rispetto alle medie statistiche esistono picchi di pressione fiscale, su chi non evade che superano il 55 per cento, a volte sfiorano il 60, il che è intollerabile. Soprattutto in presenza di percentuali di evasione sconvolgenti.
Riguardo all’ammontare dei capitali scudati, divulgato con commento di Oreste Saccone dal sito www.fiscoequo.it, risulta che, in seguito all’ultimo condono, sono rientrati 105 miliardi di euro evasi, con una penale complessiva di 5 miliardi. Ma il deflusso di capitali continua, intercettato dalle autorità preposte con grande abnegazione, ma solo in parte e con evidente sproporzione rispetto al totale. Si può dire che tutto il mondo è paese: sarebbe infatti pari ad una cifra compresa fra 21 mila e 32 mila miliardi di dollari la somma dei capitali sfuggiti  alla tassazione in 170 nazioni, secondo una stima di James Henry, l’ex capo economista della McKinsey che accompagna il database Offshoreleaks, mappa di nomi tracciata da 86 giornalisti del Consorzio internazionale ICU cui appartengono 38 testate di 46 Paesi. In questa lista di reprobi figurano 200 italiani.
Occorre distinguere gli evasori puri da coloro che seguono norme discutibili ma sempre nell’ambito della legalità. Un conto è scoprire giacenze miliardarie di ex dittatori in paradisi fiscali, un altro è assimilare quel tipo di evasione alla creazione di un trust consentito dalla legge e criminalizzare il commercialista che svolge il ruolo di custode fiduciario previsto dalla legge. Le multe di 343 e 344 milioni di euro inflitte recentemente alla Banca Mediolanum e a Dolce e Gabbana dimostrano che possono esistere diverse interpretazioni delle norme fiscali, che si può incorrere in errori anche gravi di valutazione del merito tributario, ma che non necessariamente debbano essere posti sullo stesso piano banche con filiali in Lussemburgo e rottamatori d’auto che non conoscono dichiarazioni di redditi.
Ciò a meno di non riformare integralmente l’intera materia, semplificandola possibilmente, poiché non è giusto né equo che lo Stato predatore - l’appellativo è d’obbligo viste le percentuali segnalate in precedenza -, oltretutto si diverta a confondere le idee ai contribuenti, imponga loro di avere un commercialista per interpretare norme ogni anno diverse, obblighi i pensionati anziani ad usare internet per scaricare il Cud. Un conto è riciclare il denaro sporco, un altro è difendere in modo lecito i patrimoni dal fisco. Un conto è accumulare fondi neri su conti cifrati per sottrarre al fisco ricchezze personali, un altro è difendere, da un fisco esagerato o semplicemente più esoso di altri, i bilanci aziendali laddove si possono propiziare nuovi investimenti capaci di creare occupazione e crescita.
In ogni caso in Europa è partita la caccia spietata all’evasore. Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna stanno lavorando a un progetto pilota mirato a favorire uno scambio di informazioni indispensabile a stanare l’evasione transnazionale. Il principio cardine dell’accordo è la trasparenza e l’attenzione ai sistemi di doppia imposizione che favoriscono migrazioni speculative di capitali. Secondo uno studio del Tax Research London, in Italia si evade per 180 miliardi di euro, ma la Germania non sta meglio con 158 miliardi, seguita dalla Francia con 120 miliardi, dalla Gran Bretagna con 74 e dalla Spagna con 72. Aggiungendo a questa cifra gli altri 22 Paesi dell’Unione si supera la cifra di mille miliardi. Quanto basta per far scattare la corsa a tamponare falle che portano in prospettiva al baratro continentale.
Il punto è chiedersi perché sta crescendo questa voglia di evasione. O, meglio, quale strada bisogna imboccare per far ritrovare, in particolare agli italiani, la voglia di concorrere, anche attraverso l’accettazione dell’imposizione fiscale, alla ricostruzione del Paese che la crisi ha trascinato in una situazione economica forse peggiore del secondo dopoguerra, e che le forze politiche stentano a recuperare, ammesso che ne siano capaci.
La voglia di evadere cresce perché a monte c’è una crisi di fiducia. Generalizzata. I cui sintomi stanno esplodendo in modo drammatico. Nel 2012, tanto per fare un esempio, secondo l’Istat è salito del 28,3 per cento il numero di italiani che lasciano il Paese e il 45 per cento degli espatriati sono giovani tra i 20 e i 40 anni che al 70 per cento se ne vanno in Europa, ma anche in altri Continenti dove svolgono mestieri dirigenziali e ben remunerate libere professioni.
L’Eurispes denuncia l’incedere in Italia della «sindrome del day by day», in seguito alla quale le famiglie si sono rassegnate a vivere alla giornata, con 10 euro di benzina e un pasto in meno al giorno; si indebitano e vendono beni per pagare prestiti usurari: «Ben il 62,3 per cento dei prestiti è stato chiesto per pagare debiti pregressi e il 44,4 invece per saldare altri prestiti precedentemente contratti con altre banche o finanziarie».
Secondo Gian Maria Fara, presidente dell’Eurispes, in seguito a una serie di meccanismi legati alla congiuntura internazionale e alle scelte della politica, è concreto oggi il pericolo di poter entrare in quella che Irving Fisher descrisse come la «deflazione da debito»: il fenomeno consiste nel fatto che non si riesce più a pagare i debiti, mentre il valore di ciò che si è acquistato in precedenza crolla riducendo il valore patrimoniale.
Questo depauperamento alimenta la ricerca di evasione. Chiamati dal Censis a esprimere un giudizio sull’evasione fiscale, il 43,4 per cento degli italiani la ritengono moralmente inaccettabile, mentre il 38,3 per cento la condanna principalmente perché arreca un danno ai cittadini onesti e alle imprese che subiscono concorrenza sleale. Vi è però anche un 18,3 per cento di intervistati che ritiene l’evasione una condotta almeno in parte giustificabile. L’evasione, percepita in aumento negli ultimi tre anni, è considerata un problema grave dall’89,7 per cento degli intervistati. Il gettito recuperato con il contrasto all’evasione dovrebbe però essere usato per ridurre le imposte, e non tradursi in un aumento della pressione fiscale, giudicata già alta. E servirebbe un impegno credibile a migliorare la capacità della spesa pubblica di rispondere ai bisogni dei cittadini.
La riforma fiscale che il Governo Monti aveva in mente puntava, tra l’altro, a spostare il prelievo dalle imposte dirette a quelle indirette. Ma uno studio di Lavoce.info ha mostrato che gli aumenti di accise, Iva, Imu e Irpef non erano distribuiti in maniera uniforme. Sarebbero servite compensazioni con riduzioni di imposte sui redditi più bassi per evitare il rischio di ostacolare la ripresa della domanda e della crescita. Ormai se ne occuperanno i prossimi Governi. Magari tenendo conto che la spinta all’evasione potrebbe fermarsi in presenza di uno Stato più leale, capace di dimostrare che, di fronte ai prelievi, si impegna, oltre che a garantire servizi efficienti, a mantenere la parola data quando serve. E qui spunta la «querelle» riguardante il rimborso dei crediti vantati dalle imprese nei confronti della Pubblica Amministrazione, dallo Stato direttamente ma più frequentemente dalle Asl e da enti locali.
Questi crediti ammontano in tutto ad oltre 90 miliardi. I presidenti delle varie organizzazioni imprenditoriali, Confindustria in testa, da mesi non perdono occasione per far presente la loro disperazione. Il problema è che, pur avendo fatto breccia nel cuore del Governo che infatti alla fine, dopo un rinvio, ha approvato il decreto di rimborso, si scontrano adesso con il muro di gomma della burocrazia che, in nome di clausole varie, blocca il saldo dei debiti.
Spicca un dato: solo 1.600 enti debitori su 35 mila si sono iscritti alla piattaforma Consip su cui diventano certificabili i crediti vantati dalle imprese. All’inizio di aprile le certificazioni pubbliche rilasciate agli imprenditori da rimborsare erano 300 sui 215 mila che dovrebbero essere in base ai calcoli dell’Unimpresa su fonti Istat e Banca d’Italia. Senza contare che sia le Regioni che l’Unione Europea pongono altri paletti alla procedura di rimborso. È stata stilata una classifica in base ai dati della Banca d’Italia, del Ministero dell’Economia e dell’Ocse, sull’ammontare dei ritardi accumulati dai singoli Stati europei rispetto alle scadenze contrattuali: ebbene l’Italia, insieme alla Grecia ma peggio di Spagna e Portogallo, è in fondo alla classifica che, neanche a farlo apposta, è guidata dalla virtuosa Finlandia, seguita da Germania, Regno Unito, Francia e Belgio.
Ecco dove lo Stato italiano riesce a deludere i cittadini, a disamorarli del tutto, a farli scappare. Per questo sul tavolo del nuovo Capo dello Stato dovrà immediatamente essere sfogliata un’agenda di impegni puntati sul recupero di credibilità. In parte saranno quelli delineati dai saggi nominati da Napolitano, in parte bisognerà tener conto delle pressanti richieste provenienti da società civile e organizzazioni dei lavoratori. I manager di tutti i settori produttivi aderenti alla Cida, tramite il presidente Silvestre Bertolini hanno illustrato al trimestrale dell’Eurisko un decalogo di priorità in cui spiccano la lotta ad incompetenza, improvvisazione, trionfo del clientelismo, mortificazione del merito, irresponsabilità, illegalità, in una parola all’arretratezza culturale di un Paese che non ha saputo scegliere e ha perso più di un’occasione per uscire dalla spirale del declino.
L’intero elenco di Prioritaria consta di 200 suggerimenti indirizzati ai Governanti cominciando dal rinnovo della Pubblica Amministrazione, immettendo legalità e trasparenza, etica, competenza e merito, contaminando gli apparati dello Stato con la cultura d’impresa, la semplificazione, la riduzione dell’infrastruttura politica, perché 180 mila eletti e 30 mila amministratori di società pubbliche sono un lusso che non possiamo più permetterci. Il «brand» Italia nel mondo paradossalmente è sempre più apprezzato. Si tratta di dare riscontro a questo prestigio con scelte intelligenti di collocazione sul mercato internazionale, di ponte tra i Paesi del Mediterraneo e l’Europa di cui facciamo e dobbiamo rimanere a fare parte. Si tratta di sostenere il sistema imprese incentivando innovazione, ricerca e sviluppo, riformando la Giustizia per dominare l’illegalità diffusa.
E infine il fisco, che per i manager italiani torna condivisibilmente ad essere «la madre di tutte le ricostruzioni». Qui lo slogan dovrà paradossalmente essere «no representation without taxation»: nel senso di togliere agli evasori l’eleggibilità, i benefici pubblici e i servizi sanitari e assistenziali. Tanto per cominciare: poi toccherà al conflitto di interessi fiscale, che consentirebbe di dedurre dal reddito spese che oggi non vengono fatturate. Forse così la fiducia potrebbe riaffacciarsi. Ma, l’interrogativo è d’obbligo, il futuro Governo avrà la forza e la solidità per porre mano a questi cambiamenti? C’è davvero da augurarselo soprattutto dopo aver letto la cifra contenuta nel Documento di economia e finanza approvato dall’ultimo Consiglio dei ministri presieduto da Mario Monti, o se si preferisce dal Monti primo, che certifica un debito pubblico pari al 130 per cento.   

Tags: Maggio 2013 fisco Enrico Santoro

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