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PRIMO ACCORDO SUL SALARIO MINIMO A LIVELLO EUROPEO

La Commissione Europea e il Parlamento Europeo hanno raggiunto l’accordo sulla proposta di Direttiva Ue relativa al salario minimo: quanto concordato deve essere approvato dalla plenaria del Parlamento, dal Consiglio Ue e pubblicato in Gazzetta Ufficiale europea. I singoli Paesi, dalla pubblicazione, avranno due anni per recepirla.

Nella proposta non è stata data alcuna indicazione economica del salario minimo in quanto materia non disponibile al diritto comunitario; peraltro, sarebbe stato impossibile considerate le diversità economiche (dai 332 euro della Bulgaria ai 2.256 euro del Lussemburgo) e giuridiche esistenti nei Paesi europei.

Per memoria, ventuno Paesi dell’Unione hanno previsto l’adozione del salario minimo legale salvo Italia, Austria, Svezia, Danimarca, Finlandia e Cipro dove è presente una forte contrattazione collettiva.

L’accordo raggiunto indica le procedure per riconoscere salari minimi adeguati a garantire un livello di vita dignitoso ed equi, senza, però, imporre vincoli ai singoli Paesi.

La direttiva lascia ai singoli Stati nazionali la scelta di introduzione per legge il salario minimo o se attribuirlo attraverso la contrattazione collettiva purché rappresentativa almeno l’80% della forza lavoro, che, in ogni caso, deve essere di riferimento pur con l’emanazione di una legge specifica e deve essere sviluppata sia a livello settoriale sia intersettoriale.

La proposta prevede, infatti, che gli Stati rafforzino la contrattazione collettiva e che le parti sociali si dotino di un piano di azione per svilupparla, da comunicarlo ogni due anni alla Commissione Europea che ne valuterà l’efficacia e potrà raccomandare azioni correttive. Il piano di azione deve essere reso pubblico.

Gli Stati che già prevedono un salario minimo dovranno verificare se quello in essere sia sufficiente per consentire un tenore di vita dignitoso alla luce delle condizioni socioeconomiche, del potere d’acquisto o del livello e sviluppo della produttività nazionale a lungo termine del Paese. Una valutazione basata su due possibili parametri, la creazione di un paniere di beni e servizi a prezzi reali o applicando valori di riferimento indicativi comunemente usati a livello internazionale, come il 60% del salario mediano lordo nazionale e il 50% del salario medio lordo nazionale.

Previsto l’obbligo per i Paesi di monitoraggio, di controllo e di ispezioni sul campo, di prevedere l’aggiornamento su base annua in modo trasparente del salario, di affrontare il tema dei subappalti abusivi, del lavoro autonomo fittizio, degli straordinari non registrati o l’aumento dell’intensità di lavoro, di garantire il diritto di presentare ricorso per i lavoratori i cui diritti siano stati violati e di non applicare al salario minimo detrazioni o variazioni del salario minimo discriminatorie e sproporzionate e avere un obiettivo legittimo (ad esempio il recupero di somme pagate oltre quanto previsto o decisioni di un’autorità giudiziaria o amministrativa). Eventuali trattenute di legge sul salario potranno ridurlo anche al di sotto del minimo legale

La direttiva non avrà conseguenze obbligatorie per l'Italia essendo un Paese con un alto livello di contrattazione collettiva.

La costituzione italiana (art. 36), peraltro, prevede già il diritto al giusto salario, adeguato alla prestazione professionale, rivolto a soddisfare i bisogni essenziali della persona e del nucleo familiare.

L’Istat stima la contrattazione collettiva in Italia nell’88,9% di lavoratori di imprese con almeno un dipendente, escludendo il settore agricolo e i lavoratori domestici; con una statistica complessiva la copertura data dai vari CCNL è di circa l’82,3%.

Questo non deve far dimenticare alcuni settori lavorativi, come i lavoratori autonomi con false partite IVA, gli occasionali, i tirocinanti, gli stagionali, quelli a chiamata a cui si sommano i lavoratori irregolari, né la pletora di contratti censiti dal CNEL, oltre mille di cui sono 162 sottoscritto dai sindacati confederali con una platea rappresentata di circa il 97% dei lavoratori dipendenti.

In Italia, l’introduzione del salario minimo sarebbe comunque positiva, essendo un’importante misura di contrasto della povertà e di incentivo al lavoro, di stimolo al miglioramento della produttività, per ridurre il divario retributivo di genere e per contribuire a garantire una concorrenza leale sui mercati.

L’introduzione del salario minimo consentirebbe di riscrivere la legge sul reddito di cittadinanza eliminando la parte relativa alle politiche attive del lavoro, mantenendo, oltre che per la indispensabile tutela delle situazioni di povertà, solo come integrazione per i lavoratori poveri (salario inferiore al 60% di quello mediano) appartenenti a nuclei familiari con un reddito sotto la soglia di povertà) o nel periodo di non occupazione senza altri sussidi.

Visti gli aspetti positivi, non possono sottacersi i rischi che l’introduzione del salario minimo comporterebbe: a prescindere, solo per un momento, dal contesto che vede l’Italia unico Paese europeo che presenta un aumento negativo del potere di acquisto per i lavoratori per cui è fondamentale avviare rapidamente una forte discussione, il salario minimo inciderebbe sul costo del lavoro, con il rischio di ripercussioni occupazionali negative a causa di maggiore rigidità della domanda di lavoro, particolarmente di quello meno qualificato e con una spinta al rialzo dei salari superiori al minimo; inoltre potrebbe avere un effetto inflazionistico determinando un aumento dei prezzi di prodotti, potrebbe comportare l’aumento dei citati “contratti pirata” firmati da organizzazioni sindacali con scarsa rappresentatività o mini-settoriali per applicare minimi salariali più bassi rispetto a quelli previsti nei contratti collettivi di lavoro sottoscritti dalle associazioni maggiormente rappresentative.

Un ulteriore aspetto da valutare con attenzione è l’effetto del salario minimo nei settori in cui non è prevista la contrattazione collettiva come il lavoro autonomo economicamente dipendente, le finte partite IVA, o le mono-committenze in cui il lavoratore è succube di qualsiasi scelta del committente.

Scarsa credibilità ha, invece l’affermazione che l’introduzione del salario minimo, sarebbe negativo per i contratti collettivi di lavoro e ridurrebbe la posizione del Sindacato considerate le molte tutele previste in tutta la contrattazione collettiva.

L’alternativa all’introduzione del salario minimo in Italia è la riduzione del cuneo fiscale o la legiferazione.

La riduzione del cuneo fiscale è, in ogni caso, necessaria in quanto ridurrebbe il carico fiscale per lavoratori e imprese, rendendo il lavoro più “appetibile” per i primi e, intervenendo sulle aliquote contributive e riducendo proporzionalmente il costo del lavoro, consentendo alle imprese di avere maggiori risorse libere da destinare all’ammodernamento dell’impresa ma, anche, all’aumento dei salari e a nuove assunzioni.

In previsione dell’emanazione di una legge sul salario minimo sono state presentate varie proposte, tra cui una che prevede un ammontare di 9 euro lordi l’ora. Un importo, senza voler giudicare se troppo alto o troppo basso, che sembra non tenere conto che i salari sono legati a due fattori, la crescita dell’economia e dei salari e dall’incremento della produttività, nessuno dei due presenti, per motivi diversi, in questo Paese.

Ultimo aspetto da sottolineare, in attesa della direttiva e del suo recepimento, è l’importanza che il salario minimo assume anche in termini non economici: sociale con un Paese meno squilibrato quindi con minori scontri sociali, psicologici per tutti coloro che cercano solo un lavoro con un salario equo e dignitoso, di rafforzamento delle rappresentanze sociali, di migliore distribuzione delle risorse pubbliche e, complessivamente, di ruolo dell’Italia nel contesto internazionale.

Tags: lavoro sindacato commissione europea IVA Fabio Picciolini lavoratori fisco

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