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AMMINISTRAZIONE ORDINARIA. IMPRESE DI COSTRUZIONE, CRESCE IL RICORSO ALLE PROCEDURE

di LUCIO GHIA

Le difficoltà in cui si dibatte l’economia italiana occupano l’attenzione di editorialisti e di economisti e turbano i sonni di molti. Un settore che va preso in considerazione per l’aumento dei segnali di crisi è quello delle costruzioni, infrastrutturali ed edilizie. L’osservatorio Crisi d’Impresa-Cerved Group segnala che nel primo semestre 2011 è stato registrato un incremento delle dichiarazioni di fallimento del 7,1 per cento rispetto allo stesso periodo del 2010. Un ulteriore segnale proviene anche dal Ministero dello Sviluppo Economico. Infatti l’aumento delle richieste presentate da imprese edili, di ammissione alle procedure di amministrazione straordinaria e in particolare alla Prodi Bis - ovvero al decreto legislativo 270/1999 che negli anni si è dimostrato l’albero con radici più forti e capaci di affrontare le trasformazioni delle quali le leggi vigenti necessitavano in funzione del profondo e incessante mutamento delle condizioni in cui venivano chiamate ad operare -, costituisce un segnale rilevante e invita gli addetti ai lavori a riflettere sui risultati più sostanziali che la legge non riesce a realizzare.
Il perché le imprese di costruzioni ricorrano maggiormente, rispetto al passato, alle procedure di amministrazione straordinaria risiede nel vantaggio di poter mantenere integro il portafoglio ordini anche dopo la dichiarazione d’insolvenza e di liberarsi, pressoché senza oneri, dai contratti divenuti non più remunerativi. In tutti gli altri casi di procedure concorsuali, infatti, dall’accordo di ristrutturazione al concordato preventivo e al fallimento, le stazioni appaltanti possono risolvere l’appalto in seguito all’apertura della procedura, mentre ciò non avviene per l’amministrazione straordinaria se il commissario non è d’accordo.
Con tale disciplina il legislatore mostra la coerenza di una scelta di fondo. Se il valore da salvaguardare è l’impresa con il suo know how, i suoi posti di lavoro, i suoi cantieri in esercizio, il suo portafoglio ordini comprendente anche i contratti di appalto stipulati proprio durante il periodo della sua riorganizzazione e della sua uscita dalla crisi, va assicurata la massima protezione dell’integrità dei suoi assets che la risoluzione, in danno dell’impresa, degli appalti in corso di esecuzione o aggiudicati disperderebbe con grave danno di tutti gli interessati.
La normativa della crisi di impresa, dell’insolvenza e del fallimento è stata rivoluzionata con gli interventi legislativi succedutisi dal 2005 in poi. Ma la cultura del cambiamento necessita dei suoi tempi. Più è profondo il cambiamento, più i tempi di assorbimento, di metabolizzazione sociale ed economica sono lunghi. In realtà è mancata, a valle dell’intervento legislativo, un’intensa stagione educativa, un percorso maieutico necessario per comprendere che il messaggio del legislatore non costituiva un indirizzo astratto, ma andava inserito nel tessuto vitale, nell’alveo dei diritti riguardanti i beni della vita, con uno sforzo comune e contemporaneo di tutti i protagonisti dell’economia, della finanza, delle banche, della magistratura, delle professioni che avrebbero dovuto interagire su un terreno comune, procedendo soprattutto nella stessa direzione: la massimizzazione dei valori dell’impresa in crisi.
Ovvero si è compiuto legislativamente un grande passaggio: dalla cultura della punizione del fallito, dalla sua criminalizzazione e quindi dal processo al colpevole, che vedeva nell’insolvenza la fine dell’impresa e del suo imprenditore, siamo approdati alla valorizzazione della stessa impresa o di ciò che resta di essa dopo la possibile cura, per realizzare l’interesse della collettività, di tutti gli interessati compresi i creditori, con il sostanziale abbandono della logica liquidatoria tipica della procedura fallimentare tradizionalmente intesa.
In questo nuovo contesto la crisi dell’impresa viene considerata un’inevitabile malattia, possibilmente passeggera e curabile, da affrontare prima possibile per evitare aggravamenti, nell’interesse di tutti. Di qui una gamma di soluzioni che la legge offre, di natura procedimentale, ovvero al di fuori dei Tribunali, in un ambito di nuovi equilibri negoziali da raggiungere tra debitori e creditori. La stessa Banca Mondiale in tali frangenti raccomanda che il positivo ritorno dell’impresa in crisi sul mercato può essere facilitato, in ipotesi di ristrutturazioni, da intese di roll over con gruppi di creditori, ovvero da negoziati che incidano sull’ammontare dello «scaduto», abbattendo o trascinando il debito su nuove modulazioni o termini di pagamento. In questa prospettiva si collocano sia il «piano attestato», sia l’«accordo di ristrutturazione» offerti dalla nuova legge fallimentare, procedimenti sui quali ci siamo soffermati su questa rivista ma, come abbiamo visto, non sufficientemente attraenti per le imprese di costruzioni con appalti in corso e cantieri in esercizio.
Oggi il tema diviene: siamo effettivamente padroni di questi strumenti? Abbiamo l’educazione generale e la cultura specifica per apprezzarne i benefici e tradurli in realtà? In caso di risposta negativa, le soluzioni proposte dal legislatore si riveleranno un esercizio sterile, destinato a non essere seguito per ragioni che, evidentemente, non sono state a sufficienza previste o approfondite. In effetti la realtà dimostra che, oltre al pericolo della risoluzione in danno degli appalti per le imprese di costruzione in crisi, scoraggiano la scelta di una procedura di natura negoziale (basata sugli accordi tra il debitore e i suoi creditori) comportamenti e decisioni, che divengono veri e propri ostacoli, di importanti protagonisti dei tentativi negoziali di soluzione della crisi di impresa.
Sovente i cosiddetti «creditori forti» adottano strategie gravemente disallineate rispetto alle finalità che il legislatore ha affidato ai procedimenti di natura stragiudiziale. Spesso l’ammontare del credito vantato dalla singola banca condiziona pesantemente la sua risposta alla richiesta di ristrutturazione del debito. Se il credito è ingente, la risposta quasi sempre è favorevole. In caso contrario non sembra avere grande rilevanza la serietà del piano di risanamento, la capacità industriale dell’impresa in crisi, i posti di lavoro, gli interessi degli stakeholders.
Da che dipende questa valutazione basata prevalentemente sulla forza delle cifre? Sovviene, al riguardo, un vecchio adagio: se il debito è grande, il debitore può dormire sonni tranquilli perché la banca, prima di decidere di perdere i propri crediti attraverso una procedura fallimentare, tenterà di salvarlo anche accettando sacrifici. Se il debito è modesto, il ceto bancario non dovrà affrontare grandi sacrifici e sarà più portato ad assumere i rischi e i costi di una soluzione giudiziale, anche fallimentare.
La responsabilità dei funzionari coinvolti nella concessione del credito, specialmente se di notevoli dimensioni, talvolta nel dover ammettere determinati errori con il rischio di conseguenze negative di carattere professionale, ha la sua parte in questo comportamento. Questo atteggiamento di carattere particolaristico, non improntato a una visione più generale del problema, è conseguenza della cultura dell’oggi, dell’immanenza, del risultato immediato, della mancanza di visione prospettica che, in tempi di stretta creditizia, viene ulteriormente in emersione. Tutti i piani di risanamento e anche i cosiddetti piani attestati, prevedono secondo l’art. 67, III comma, lettera D della legge fallimentare, il sacrificio di parte dei crediti, sotto varie forme: consolidamento del debito, postergazione, riduzione di tassi di interesse, conversione di crediti in equity ecc.
E soprattutto richiedono al sistema bancario di mantenere in essere, e spesso di ampliare con la concessione di nuova finanza, le linee di credito che assistono lo svolgimento dell’attività dell’impresa in crisi. Sempre più spesso è riscontrabile come, al minimo segnale di difficoltà, all’apertura di un tavolo tra debitore e banche per esaminare e discutere un piano di risanamento che comporti taluni sacrifici, il ceto bancario reagisca, spesso in modo disomogeneo, ponendo in essere procedure di rientro dei propri crediti, ovvero facendo sì che tutti gli incassi riconducibili al debitore in crisi, specie i pagamenti effettuati da parte di clienti per le forniture ricevute e appoggiati presso quella banca, vengano usati per diminuire l’esposizione debitoria, anche se la conseguente indisponibilità di mezzi finanziari può far precipitare l’«on going concern», ovvero pregiudicare la prosecuzione dell’attività dell’impresa.
È evidente che in questi casi dalla crisi si passi all’insolvenza. C’è da interrogarsi su questa apparente «miopia» del sistema bancario. Perché privilegiare un incasso oggi, che peraltro può essere messo facilmente in discussione domani, nell’ambito di una procedura concorsuale attraverso le azioni revocatorie fallimentari o ordinarie, e non preferire la possibilità di recuperare nel tempo il proprio credito nell’ambito del risanamento dell’impresa in crisi? Gli uffici legali delle banche ben conoscono i principi dell’integrità del patrimonio del fallito e della «par condicio creditorum», tutelati ai sensi degli articoli 2740 e 2741 del Codice civile.
Eppure si preferisce andare incontro agli esiti nefasti di una procedura liquidatoria fallimentare, che comporta percentuali di soddisfazione dei creditori non privilegiati non superiori al 15 per cento, con una durata media delle procedure di oltre un lustro, e che espone ad azioni revocatorie fallimentari o ordinarie, ovvero ad azioni giudiziarie proposte per ottenere la revoca dei pagamenti effettuati dal fallito a ridosso del fallimento, e frutto di rapporti di forza sbilanciati tra creditori e il debitore. È pur vero che le azioni revocatorie fallimentari, che negli anni trascorsi hanno segnato pesantemente i bilanci delle banche, oggi costituiscono armi spuntate dalla riforma della legge fallimentare che con il nuovo articolo 67 ne ha ridotto fortemente tempi e condizioni di ammissibilità; ma non è questa una motivazione sufficiente.
Alcuni analisti ritengono che la risposta vada ricercata nella cultura dell’oggi, del subito, del «mordi e fuggi» perché «del doman non v’è certezza». In questo contesto si colloca la diffusa sensazione di impunità che l’attuale crisi della giustizia in Italia, con i tempi lunghi dei processi, sorregge e che rende le scorciatoie più attraenti. Un direttore di filiale, responsabile di quella linea di credito divenuta traballante, che ha determinati target da raggiungere a fine anno per ottenere il bonus, sa che, se quella posta creditoria viene messa in pericolo diventando credito in ristrutturazione o peggio incaglio o sofferenza, il suo bonus quantomeno ne risentirà. Potranno inoltre, essergli imputate responsabilità per non aver attivato tempestivamente procedure di rientro o, ancora peggio, per aver consentito l’erogazione del credito.
Di fronte a queste immediate conseguenze negative, anche se le sue iniziative di rientro potranno esporre la banca a restituzioni o ad azioni di risarcimento danni, potrà preferire tali conseguenze negative perché si manifesteranno alla fine di lunghi giudizi (5-7 anni), quando quel funzionario non avrà più quella posizione, o sarà fuori dalla banca, o avrà passato il cerino ad altri, o quando le sue responsabilità saranno prescritte. Quindi, meglio l’uovo oggi che la gallina domani, anche se la gallina si chiama impresa; anche se rappresenta posti di lavoro, rapporti con i fornitori, continuità dell’attività produttiva, interessi socialmente rilevanti, benessere e sviluppo locale.
In questo contesto, di fronte a tali comportamenti la legge non può lasciare del tutto indifesi gli interessi dei più deboli. Infatti è possibile ottenere, nell’ambito delle procedure di straordinaria amministrazione o nell’ambito di procedimenti fallimentari ordinari ai sensi dell’articolo 15 della legge fallimentare, l’emissione di provvedimenti cautelari affinché l’erogazione della liquidità, dell’ossigeno di cui ha bisogno l’impresa in crisi, rappresentato nella realtà dall’operatività delle linee di credito in essere, non sia interrotta da comportamenti opinabili, se non abusivi, delle banche.
Una copiosa giurisprudenza ha segnato la linea di demarcazione tra il diritto a continuare l’attività di impresa secondo il percorso disegnato dalla legge e sotto i controlli del commissario e del Tribunale, e la tutela di interessi creditori particolari, pur se costituzionalmente protetti. È la sproporzione tra gli interessi in gioco che fa la differenza: da un lato l’interesse dell’impresa, il suo know-how, la qualità dei suoi dipendenti, la sua presenza sul mercato consolidata in anni, che potrebbe essere dispersa da comportamenti irragionevoli o non sufficientemente giustificati dall’interesse generale. Dall’altro l’interesse specifico della singola banca a salvare il proprio credito, al più l’interesse dei propri soci a ottenere utili immediati.
Numerosi provvedimenti giudiziari di Tribunali italiani fanno buon uso di tale normativa concedendo i provvedimenti cautelari o inibitori richiesti dal debitore all’inizio delle procedure concorsuali, impedendo alle banche di ridurre i propri crediti in danno degli interessi dell’impresa e degli altri creditori. La motivazione di tali decisioni si basa sul principio della massimizzazione del valore dell’integrità dell’impresa, che deve avere la possibilità di superare la crisi nell’interesse più generale, compresi i creditori forti, e del debitore. Questo è il messaggio della giurisprudenza, in linea con la scelta legislativa che presiede alla normativa in vigore, ed è il tema su cui tutti i protagonisti delle relazioni industriali sono chiamati a riflettere perché solo tenendo dritta la barra dell’interesse collettivo si può mirare alla ripresa economica.
Circa 2000 anni fa Seneca il giovane (4 a.C.-65 d.C.) nelle Epistulae morales ad Lucilium, ammoniva: «Alteri vivas oportet, si vis tibi vivere», il che potrebbe così parafrasarsi: «È opportuno che la banca faccia l’interesse del debitore se vuole realizzare il proprio». Che questa antica «lectio romana» sia ancora attuale?

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Tags: banca banche Lucio Ghia mercato immobiliare immobili Novembre 2011 fallimento

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