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ingovernabilità politica e governabilità sociale

di GIORGIO BENVENUTO  presidente della fondazione  Bruno Buozzi

Esiste un malessere politico e sociale, diffuso ed esteso in tutta l’Italia. Coinvolge tutti, giovani e anziani, lavoratori e pensionati, professionisti, piccole e grandi imprese. I risultati delle elezioni ne sono la prova. Enorme il numero delle astensioni. Rilevante l’entità delle schede bianche e dei voti nulli. Imprevisto il risultato del Movimento 5 Stelle che ha realizzato un «blocco sociale» di tutte le proteste e di tutti i malesseri. Due ricerche (Ipsos per Il Sole 24 Ore e La Polis per La Repubblica) indicano il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo come il partito più gettonato nel voto tra gli operai (40,1 per cento) e i lavoratori autonomi e gli imprenditori (40,2 per cento). I tecnici, gli impiegati e i funzionari hanno ridotto dal 47,4 al 35,0 per cento i voti per il PD indirizzandoli per il 27,1 per cento a Grillo.
Stiamo precipitando nell’ingovernabilità. I messaggi che sono stati diffusi verso la pubblica opinione hanno rinviato nel tempo la soluzione dei problemi. È stata una pratica usata in maniera plateale nelle ultime legislature per annunciare un giorno sì e l’altro no che la ripresa era dietro l’angolo. Nella campagna elettorale addirittura c’è stata una rincorsa senza fine tra tutti gli schieramenti nel promettere sgravi fiscali, investimenti, riforme, lavoro per i giovani, tagli agli sprechi della politica. Il cambiamento promesso non è stato inquadrato in una visione strategica. Il risultato è stato un’insofferenza che ha dato alimento a partiti che sono fuori dalla storia del Paese.
Abbiamo avuto, è vero, nell’immediato dopoguerra il movimento dell’«Uomo Qualunque», la crescita abnorme della destra negli anni del centro-sinistra, lo sviluppo delle spinte localiste con la nascita della Lega. La novità vera, però, è oggi nelle dimensioni del fenomeno. Il Governo dei «tecnici» ha accreditato presso l’opinione pubblica la tesi che i partiti e i sindacati sono strumenti di democrazia superati. La conseguenza di questa sottovalutazione del pluralismo sociale e politico ha aperto la strada all’ingovernabilità. Il malessere ha prodotto la protesta di tutti contro tutto e contro tutti.
Nella lunga e non conclusa transizione verso la seconda Repubblica abbiamo finito per perdere i princìpi di una democrazia «solida» per abbracciare entusiasticamente le logiche di una democrazia «liquida». Nella democrazia «solida» c’erano strutture robuste di partecipazione, radicate non solo nel territorio ma nella coscienza delle persone: i partiti, i sindacati, le organizzazioni professionali. C’erano luoghi in cui il confronto era il metodo che portava all’approfondimento dei problemi e delle soluzioni, per passare dalla diagnosi alla terapia. Tutto questo è cambiato. Oggi c’è chi sa padroneggiare e spesso manipolare i meccanismi della comunicazione. Non c’è più confronto. Non prevale il pensiero di una collettività. Domina il pensiero di uno, uno solo al comando.
Se il Movimento 5 Stelle spopola, se Silvio Berlusconi con un’abile campagna incentrata sull’Imu riesce a recuperare tanti consensi elettorali, la ragione sta proprio nella capacità di diffondere opinioni che, attraverso il megafono mediatico, diventano prima soluzioni e poi verità assolute. Dallo spettacolo, inteso come grandezza filosofica, della democrazia, alla democrazia dello spettacolo: non a caso, per vie e ruoli diversi, tanto Beppe Grillo quanto Silvio Berlusconi vengono da lì, dalla televisione.
Il problema oggi è questo: riattivare forme di partecipazione e di controllo, uscire da questa camicia di forza di un sistema mediatico che sostituisce la realtà con l’illusione. Attraverso la Rete si dà l’impressione alla gente di partecipare, di poter dire ciò che si pensa, anche infarcendo l’espressione del pensiero con qualche volgarità lessicale. Ma poi? Poi non resta nulla. Resta solo l’illusione. La democrazia è qualcosa di molto diverso, è la somma di luoghi in cui le idee si verificano, le proposte si articolano e si sintetizzano, in cui i gruppi dirigenti si selezionano non in base a un freddo curriculum, ma sulla scorta di una verifica continua e quotidiana, sulla scorta di esami che «eduardianamente» non finiscono veramente mai. La partecipazione è sostanza, non un processo aleatorio in notevole misura suscitato da questi utilizzatori di strumenti mediatici attraverso la propagazione di notizie, vere o presunte che siano, attuata con metodi tipici del marketing.
È vero, Grillo ha riempito le piazze, anche una piazza fortemente simbolica per il sindacato come Piazza San Giovanni a Roma. Ma le piazze del sindacato erano diverse: c’era la protesta e c’era la proposta. Era così nell’Autunno Caldo. Era così negli anni Ottanta quando si è cominciato a parlare di fisco giusto, di lotta all’evasione e all’elusione, di santuari da smantellare. Siamo al fantasma della partecipazione. Dov’è la proposta? Come si dà uno sbocco alla protesta? Come si attutisce il disagio con le riforme? «Mandiamo tutti a casa!,» si risponde. Benissimo. Ma poi? Come si fa crescere l’occupazione? Come si organizza una sana politica dei redditi? Come si dà un senso collettivo a questa nostra storia democratica? In che maniera riusciamo, ognuno di noi per la propria parte, a essere Stato, comunità di interessi e cittadini responsabili, momento regolatore di spinte e bisogni?
Il problema più grave è la perdita di autorevolezza dei soggetti collettivi, i partiti, i sindacati, la Confindustria, gli organi professionali. Il bisogno irrefrenabile di presenzialismo spinge i dirigenti di quelle organizzazioni verso gli studi televisivi, davanti alle telecamere, e in questa maniera alla democrazia si sostituisce un’effimera telecrazia e cybercrazia. Joschka Fisher, vice di Gerhard Schroeder nell’ultimo Governo tedesco rosso-verde, in un’intervista al Corriere della Sera ha così criticato le ricette di Angela Merkel: «L’attuale strategia politica non funziona.
Va contro la democrazia, come dimostrano i risultati delle elezioni in Grecia, in Francia e anche in Italia. E va contro la realtà: lo sappiamo sin dalla crisi del 1929, dalle politiche deflattive di Herbert Hoover in America e del cancelliere Heinrich Bruening nella Germania di Weimar, che l’austerità in una fase di crisi finanziaria porta solo a una depressione».
Le parole di Fisher hanno trovato piena conferma in Italia nei dati diffusi dall’Istat: disoccupazione oltre l’11 per cento con tendenza in aumento per il 2013 (11,4); contrazione del 2,3 per cento del prodotto interno; crollo della spesa per i consumi (- 3,2). In particolare l’Istat documenta come il Paese si stia spaccando in due tra Nord e Sud. La forbice si è allargata. Fra il 2007 e il 2011 il Mezzogiorno ha perso il 6,8 per cento del suo prodotto interno, bruciando ricchezza per 24 miliardi di euro; gli investimenti fissi sono calati dell’11,5 per cento, otto miliardi tondi; 16 mila imprese, cioè l’1 per cento del totale, hanno chiuso; gli occupati sono calati di 300 mila unità, in percentuale il 4,6 per cento. Ma si allargano anche altre forbici. Quella salariale: in Calabria la retribuzione giornaliera è di 68,7 euro rispetto a 85,80 della media nazionale, 97,20 della Lombardia; quella di «genere»: sei donne su dieci al Sud non lavorano. Con questi numeri non possiamo più parlare di un Paese a due velocità, dobbiamo per forza di cose immaginare due pianeti che corrono in direzioni opposte.
In questo contesto è fondamentale il ruolo delle forze sociali. Si deve arrestare la deriva. All’ingovernabilità politica bisogna contrapporre la governabilità sociale. Occorre costruire una grande alleanza per lo sviluppo, per il lavoro. Il sindacato è paralizzato dalle divisioni: le polemiche tra Confederazioni hanno più spazio delle discussioni di merito sulle cose da fare. Uilm e Fim hanno ragione quando pretendono di firmare il contratto dei metalmeccanici, ma si devono contemporaneamente porre il problema di una metà della categoria che preferisce battere un’altra strada.
Mi viene in mente un vecchio proverbio: se vuoi camminare in fretta, vai da solo, ma se vuoi essere certo di arrivare, allora muoviti in carovana. Quando le scelte restano solitarie, il rischio della sconfitta è consistente; quando, al contrario le soluzioni diventano patrimonio di tutti, le possibilità di giungere felicemente a un traguardo sono più concrete. In particolare i lavoratori sono diventati vulnerabili, attaccati sul fronte del reddito, dei diritti e delle certezze, o sarebbe meglio dire incertezze, occupazionali. Il sindacato deve rimettere in moto i meccanismi della democrazia interna, deve tornare a rappresentare non solo chi è iscritto, ma anche chi non è iscritto. Bisogna ricercare nuovi meccanismi democratici, con un’indispensabile intesa sull’annosa questione della rappresentanza.
Dagli opposti estremismi siamo passati agli opposti egoismi. Gli egoismi si irrobustiscono man mano che le forze politiche diventano più deboli. La realtà è che la Seconda Repubblica è caratterizzata da partiti troppo leggeri, personali, territoriali, in taluni casi semplici comitati elettorali. I partiti della Prima Repubblica, a differenza delle forze politiche di oggi, rappresentavano veramente il Paese, per intero, da Nord a Sud, da Est a Ovest. Le forze sociali, il sindacato e la Confindustria non hanno ora più la medesima rappresentatività degli anni d’oro. Bisogna ricreare le ragioni della coesione perché l’Italia si sta sfarinando. La mancanza di coesione determina l’arroccamento. L’arroccamento porta a un dialogo tra sordi.
È difficile a livello politico trovare un comune sentire. È possibile invece che, come è avvenuto in altri momenti difficili della storia del nostro Paese, si possa costruire qualcosa di positivo a livello sociale. Lo scenario è inquietante. A marzo le addizionali sull’Irpef per i Comuni e per le Regioni sono aumentate ancora del 13 per cento. In aprile c’è la Tarsu, che si chiamerà Tares, con un ulteriore aggravio fiscale; in giugno occorrerà pagare la prima rata dell’Imu, potenziata rispetto ad un anno fa; sempre in giugno scatterà l’aumento dell’Iva dal 21 al 22 per cento, con effetti di trascinamento sulle tariffe e sul costo della vita; in luglio non ci sarà più disponibilità di fondi per la Cassa integrazione guadagni in deroga. Occorrerà negoziare con l’Europa, così come ha già fatto la Francia, per avere più tempo per raggiungere il pareggio di bilancio; sarà anche necessario che vengano sbloccate le spese per gli investimenti e per la crescita, a cominciare dal rapido pagamento dei 75 miliardi di credito vantati dalle imprese nei confronti delle Amministrazioni Pubbliche.
Le forze sociali debbono scendere in campo per imporre al mondo politico un’agenda con le indicazioni delle priorità per il lavoro e per lo sviluppo. Occorre reagire. Non si può sacrificare l’interesse generale al proprio «particulare». Si deve superare quel sostanziale scetticismo che determina un pessimismo radicale in cui finisce per incagliarsi ogni progettualità per il futuro.
In questo difficile frangente della nostra vita politica ed economica è interessante ricordare quello che scriveva Adriano Olivetti a premessa di un suo saggio «Democrazia senza partiti». Presentando negli anni Cinquanta il Movimento Comunità, così spingeva a guardare con fiducia al futuro: «Ognuno può suonare, senza timore e senza esitazione, la nostra campana. Essa ha voce soltanto per un mondo libero, materialmente più fascinoso e spiritualmente più elevato. Suona soltanto per la parte migliore di noi stessi, vibra ogniqualvolta è in gioco il diritto contro la violenza, il debole contro il potente, l’intelligenza contro la forza, il coraggio contro la rassegnazione, la povertà contro l’egoismo, la saggezza e la sapienza contro la fretta e l’improvvisazione, la verità contro l’errore, l’amore contro l’indifferenza».   

Tags: Aprile 2013 Giorgio Benvenuto

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