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RIPRESA LONTANA. COME I GOVERNANTI POSSONO RIGUADAGNARE LA FIDUCIA DEI CONTRIBUENTI

Alcuni dati sulla situazione economica e sociale. In primo luogo il lavoro. Oggi 400 mila lavoratori sono in cassa integrazione guadagni. Tra il 2008 e il 2010 si sono persi un milione di posti di lavoro. I giovani in cerca di un lavoro sono il 27,9 per cento, erano il 18,1 nel 2007. La disoccupazione totale è al 7,9 per cento, peggio della Germania (6,9 per cento), ma meglio della Francia. La povertà è in aumento. Nel 2009, secondo i dati più recenti dell’Istat, il 15,6 per cento delle famiglie aveva un reddito inferiore a mille euro. Secondo il direttore dell’Istat, il rischio di povertà e l’esclusione sono al 25 per cento: comprendono famiglie che non sono povere ma che con le ultime manovre del Governo rischiano di diventarlo.
La pressione fiscale sul reddito nazionale salirà dal 42,5 al 44,8 per cento nel 2014. Non sono esclusi altri prelievi ordinari e straordinari prima della fine dell’anno. Per raggiungere il pareggio del bilancio, come impongono i trattati europei, i due terzi delle manovre economiche è composto da tributi. Viene così raggiunto un record negativo che ci colloca in vetta all’Europa. Con Prodi nel 1997 si toccò il 43,3 per cento: c’era però l’obiettivo centrato di entrare nell’area dell’euro. L’aumento delle tasse che già si è realizzato con una serie di imposte federali (dalle imposte di soggiorno all’aumento delle addizionali comunali e regionali, all’incremento dei balzelli provinciali dell’assicurazione auto e sui passaggi di proprietà, all’aumento delle addizionali sull’energia e sui prodotti petroliferi) sarà più consistente nelle manovre preannunciate per la fine dell’anno.
Trent’anni di tasse crescenti non hanno inciso sulla spesa. Il debito pubblico italiano è diventato il terzo al mondo. Come mai? È semplice. I tagli alla spesa sono sempre sul tendenziale. Spieghiamo l’arcano. Se si spendono nel 2011 ad esempio mille euro, si prevede per il 2012 una crescita a milletrecento euro. Il taglio riguarda non l’ammontare storico (1.000 euro) ma la variazione tendenziale (300 euro). Se si riducono 150 euro, la spesa salirà da 1.000 a 1.150. Nel DEF, Documento di Economia e Finanza, presentato nell’aprile di quest’anno, le entrate totali tra il 2010 e il 2014 aumenteranno di 92,6 miliardi di euro, che andranno a contenere il deficit nel 2014 di 25,3 miliardi, portandolo dai 71,2 miliardi del 2010 ai 45,9 miliardi del 2014.
In particolare, le maggiori entrate copriranno aumenti di spesa corrente di 75,2 miliardi: la riduzione delle spese in conto capitale sarà appena di 7,9 miliardi. L’aumento della spesa corrente sarà dovuto per 27,4 miliardi all’aumento degli interessi, ma 48,8 miliardi saranno destinati ad aumenti di spesa corrente primaria. Insomma, dove sono i tagli alla spesa pubblica? Non è un mistero. Semplicemente non ci sono.
Il costo della politica non è scalfito dalle manovre economiche. L’architettura funzionale dello Stato è sempre più complessa e costosa. Consigli comunali, Comunità montane, consigli circoscrizionali, consigli provinciali, aree metropolitane, regioni, Camera e Senato, resistono ad ogni tentativo di ridimensionamento. Tutte le ipotesi di riduzione e di semplificazione rimangono nel migliore dei casi un sogno, quando invece non diventano per il contribuente un incubo oppressivo, costoso, repressivo.
I costi di cui parlo sono non solo quelli della politica centrale, ma di tutta la struttura elefantiaca esistente: anzi penso che gli enti locali costituiscano una fonte di spesa anche maggiore, se consideriamo come è aumentato il debito di comuni, province e regioni. Le società di proprietà dei comuni, delle province e delle regioni sono state riorganizzate attraverso un sistema di scatole cinesi: sono così diventate un modo per finanziare e arricchire la politica. Un ultimo dato. La crescita dell’Italia nei primi dieci anni del nuovo secolo è stata millimetrica. Unica eccezione il 2006 e il 2007, all’epoca del Governo Prodi.
E le riforme? Nessuna. Se ne parla e se ne è parlato. Il livello del confronto politico è cresciuto di tono, senza risultati. Attendiamo ancora un’organica riforma del sistema previdenziale, di quello fiscale, di quello del lavoro, per ricordarne alcune. Le riforme annunciate sono rimaste al palo. Il Paese si è invece trovato di fronte a misure abborracciate. Contraddittorie. Casuali. Inutili. Ingannevoli. Così, inevitabilmente, l’unica strada percorribile è diventata quella del progressivo, inesorabile aumento del prelievo fiscale. Si sono così determinate ed aggravate una forte iniquità e un’insopportabile sperequazione nel campo del prelievo fiscale.
Il fisco è ingiusto. È violato platealmente l’art. 53 della Costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Così non è. Anzi il fisco non è uguale per tutti. Il prodotto interno nel 2008 ammontava a 1.567 miliardi; le imposte sono state pari a 671,5 miliardi su 728,3 miliardi di entrate correnti complessive, suddivise in 216 miliardi di indirette, 239 miliardi dirette, 216 miliardi di contributi effettivi e figurativi e di 0,5 miliardi in conto capitale.
Qualche dato in particolare sull’Irpef, l’imposta che riguarda essenzialmente i lavoratori dipendenti, i pensionati, gli autonomi, i professionisti, ecc. Nel 2008 il 49,79 per cento dei 20,8 milioni di contribuenti ha dichiarato redditi inferiori a 15 mila euro l’anno; il 40,61 per cento (circa 17 milioni) dichiara redditi tra 15 mila e 35 mila; l’8,65 per cento dichiara redditi tra 35 mila e 100 mila euro; appena lo 0,95 per cento ha un reddito superiore ai 100 mila euro.
Il reddito medio soggetto ad Irpef è di 18.870 euro: quello del lavoratore dipendente è di 26.700 euro, quello delle imprese è 20.016 euro. L’85 per cento dei versamenti Irpef è fatto dai lavoratori dipendenti e dai pensionati, appena il 15 per cento è versato dalle partite Iva. Interessante analizzare il peso percentuale delle principali imposte sul gettito totale prodotto dalle imposte dirette. Tra il 1980 e il 2009 l’incidenza dell’Irpef è salita dal 63,3 al 74,6 per cento; le tasse sulle attività finanziarie e sugli utili di società sono scese dal 31,3 al 21,7 per cento. In particolare, la percentuale delle tasse sulle attività finanziarie è precipitata dal 18,1 al 6,4 per cento, mentre le tasse sugli utili delle società sono cresciute dal 13,2 al 15,3 per cento.
L’Ires, l’imposta ad aliquota fissa (non progressiva) che si calcola sull’utile delle società di capitali, è stata ridotta dal 33 al 27,5 per cento. Sugli utili distribuiti il percettore paga il 12,5 per cento. Le società di capitali interessate all’Ires sono poco più di un milione. Quelle che la dichiarano sono 532 mila. La distribuzione dell’imposta è concentrata nelle imprese di dimensioni maggiori; in particolare lo 0,8 per cento delle società dichiara il 52 per cento dell’imposta, mentre il 57 per cento dichiara solo l’8 per cento. Cinquecentomila imprese dichiarano zero utili.
Nelle imposte indirette l’Iva versata dalle «partite Iva» è pari a 28,2 miliardi; quella pagata da dipendenti e pensionati è di 151,8 miliardi. Per finire, il gettito delle entrate fiscali (Irpef, contributi sociali, imposte indirette, Irap, Ires, ritenute utili, imposte sostitutive, imposte per la rivalutazione di beni aziendali) è di 526,5 miliardi per lavoratori e pensionati e di 138,3 miliardi per imprenditori, professionisti e autonomi. E così via. Se si analizzano i dati per le famiglie, se si approfondiscono i dati sulla previdenza e sulla sanità, ci si accorge di come è diffusa la violazione del dettato costituzionale relativo alla capacità contributiva e alla progressività.
Non è realistico ed è velleitario proporsi di ridurre le tasse. Lo stato dei conti pubblici l’impedisce. Ma un’operazione di giustizia redistributiva è possibile e necessaria. Il prelievo fiscale è fortemente squilibrato, pagano poco i possessori di patrimoni immobiliari e finanziari; pagano in modo irrisorio le holding e le società di capitali; pagano molto, troppo, i lavoratori dipendenti, i pensionati, le famiglie, le piccole imprese.
Va abbassato il prelievo Irpef sulle famiglie e sui redditi medio-bassi; va ripristinato un meccanismo automatico di correzione delle aliquote per garantire che le stesse scattino al crescere dei redditi reali e non a causa dell’inflazione. Va istituita un’aliquota unica per la previdenza definendo un sistema universale (stesse regole, stessi contributi, stessi requisiti di calcolo e di erogazione). La lotta all’evasione in questo ambito va fatta sul serio, senza tentennamenti e senza ripensamenti. Una parte di quello che si ricaverà potrà servire a riequilibrare il carico fiscale e dovrà essere indirizzata in via prioritaria allo sviluppo.
Non possiamo pensare di cavarcela ricorrendo a un aumento generale delle tasse o a prelievi più o meno forzosi. Il malessere nel Paese è crescente. Protestano i giovani ai quali giorno per giorno vengono tolti i diritti; protestano le famiglie e i contribuenti onesti che si trovano ad affrontare lo stillicidio di tasse, imposte, balzelli; protestano le imprese che non riescono a contare sul credito; protesta la società per il peso della burocrazia, per la corruzione e l’affarismo dilagante.
È necessario che le organizzazioni sociali e politiche ritrovino uno spirito di solidarietà e di cooperazione. I nodi sono giunti al pettine: ci vogliono nuovi interventi, nuove misure, nuove compatibilità. È necessario chiamare tutti ad un grande sforzo. È fondamentale che i costi sociali, economici, civili siano equamente distribuiti e siano soprattutto finalizzati alla ripresa della crescita.
Lo sviluppo è necessario: la ricchezza che si produrrà dovrà servire a dare un futuro ai giovani. In un quadro definito di regole e di comportamenti ci sono e ci debbono essere le potenzialità per uscire dal pantano nel quale è finito e si dibatte il nostro Paese. I governanti ai vari livelli non hanno più la fiducia dei contribuenti. Per riguadagnarla è necessario che anno dopo anno si realizzino avanzi di bilancio che consentano in modo equilibrato di sostenere il debito e di riavviare lo sviluppo

di GIORGIO BENVENUTO, presidente della fondazione Bruno Buozzi

 

Tags: Giorgio Benvenuto fisco Novembre 2011

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