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l’equilibrio nello scacchiere fiscale internazionale

di ENRICO SANTORO  professore, avvocato

TASSE OGGI E DOMANI

 

Un «fattore di suspense» ha contraddistinto i giorni a cavallo tra il vecchio e il nuovo anno: è stato, sotto il profilo economico, il problema del fiscal cliff dell’economia statunitense, ossia del baratro vicino al quale essa si trova avendo raggiunto un indebitamento di 16.394 miliardi di dollari che equivalgono al 103 per cento del prodotto interno. L’accordo raggiunto in extremis tra repubblicani e democratici, e pubblicizzato con grande enfasi, ha evitato che il 2013 cominciasse per la grande maggioranza degli americani con un aumento delle tasse. Ma non c’è da stare tranquilli. Il bello deve ancora venire. Il grosso del lavoro, per stessa ammissione del presidente Barack Obama, deve cominciare. Il Fondo monetario ha giudicato insufficiente l’intesa, e senza il debt ceiling, ossia senza aumentare il tetto del debito pubblico consentito, il problema dell’insolvenza americana si riproporrà nel giro di poche settimane. Le agenzie di rating, per quanto di matrice anglosassone, non hanno fatto mistero della loro intenzione di abbassare i voti all’economia americana, a meno di un cambiamento concreto di prospettive. Lo scacchiere fiscale internazionale va osservato nel suo insieme, come un puzzle composto di numerosi tasselli, mettendo insieme i quali si scoprono zone di luce che pongono in ombra un Occidente martoriato dalla crisi del debito e scosso dagli effetti provocati da quella speculazione finanziaria che da questa crisi ha cercato di trarre il massimo dei vantaggi, senza curarsi minimamente delle conseguenze che stava generando sull’economia della produzione, sulle imprese e sui lavoratori. Lo scenario che emerge in seguito alla rielezione di Obama - come autorevolmente specificato in un’analisi condotta all’Assemblea dell’Institut d’etudes politiques - deve tener conto di alcuni capisaldi. Quello essenziale vede gli Usa che possono giocare ancora da protagonisti nel confronto con Cina, India, Brasile e Russia, ed hanno necessità di un’Europa collaborativa ma incanalata nel loro solco di strategia economica. Altrimenti sono pronti a farne a meno. Gli americani, e in particolare i super ricchi là residenti, paiono oggi destinati a pagar caro il lungo periodo di assurdità nella gestione dei conti pubblici cominciata negli anni 80. In presenza di crescenti impegni di spesa - per l’assistenza sanitaria ma anche per le scelte militari e di politica estera e per i salvataggi di grandi istituti bancari -, non c’è stato un rientro adeguato. Come avvenne dopo la crisi borsistica degli anni 30, attraverso l’allargamento della base imponibile che rinsaldò le casse statali. In questa logica sarà giocoforza per Obama tenere la spesa pubblica al 22 per cento del prodotto interno e tagliare la spesa militare del 4,6 per cento. Per compensare questa apparente debolezza gli Usa creeranno un multilateralismo geopolitico forte facendo concorrenza ai Paesi europei nei confronti dei Bric countries. In questa prospettiva l’euro deve restare sotto controllo. Se fosse troppo forte attirerebbe capitali da investimento, se fosse troppo debole scompenserebbe il deficit commerciale. Il dollaro invece deve restare appetibile per i capitali asiatici. E l’Unione europea deve restare subalterna. Ma Washington teme di non farcela. Se entro marzo il Congresso non alzerà il tetto del debito, ossia se i repubblicani non accetteranno accordi in tal senso, garantiti da significativi tagli alla spesa pubblica che però non piacciono ai democratici, gli Usa potrebbero andare in bancarotta. Il che sarebbe davvero apocalittico, tanto che nell’attesa di un accordo si è ipotizzato persino l’escamotage del conio, da parte del Tesoro americano, di monete di platino, metallo più prezioso dell’oro, in quantità e valore capaci di coprire il debito. La creatività e gli stratagemmi mettono in palese evidenza la fragilità statunitense dovuta a una spesa sociale strutturalmente pari al 7 per cento del reddito, e che non accenna ad essere intaccata nella sostanza. Tale situazione di squilibrio impensierisce l’Europa, timorosa di subire come uno tsunami i contraccolpi di un eventuale tracollo americano. Il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, per garantire stabilità all’Unione ha esortato i Governi al risanamento finanziario, che nel breve determina recessione ma alla lunga diviene premiante. Se spostiamo lo sguardo sulla parte europea dello scacchiere, vediamo che l’export di Spagna, Irlanda, Portogallo e Italia aumentano - rispettivamente del 27, 14, 22 e 21 per cento - rivelando che a fine 2013 potrebbe gradualmente riaffacciarsi un embrione di ripresa. Timidi segnali di ripresa e di ottimismo si avvertono persino in Grecia, dove solo a novembre c’è stato un rientro di capitali per 650 miliardi di euro e, da giugno in poi, addirittura 5 miliardi di euro sono riaffluiti nelle banche. Ma non bisogna farsi illusioni, poiché in questo scenario globalizzato emergono nuovi spread capaci alla lunga di mettere in ginocchio le economie del Vecchio Continente. Il riferimento è, ad esempio, al costo del lavoro: in Europa è mediamente più alto rispetto ai Paesi «poveri» e, tenendo conto di una diffusione sempre più omogenea della tecnologia nel mondo, diventa fattore di penalizzazione, causando investimenti alternativi e indirettamente nuova disoccupazione e minore offerta di lavoro. L’Europa nel suo insieme appare prigioniera di antiche pastoie, di una crescente burocratizzazione del suo apparato politico istituzionale, di scelte operate dal peso crescente di grandi gruppi multinazionali che la snobbano a vantaggio dei Paesi oggi emergenti, ma anche andando a produrre in Albania, Croazia, Serbia. Forse è solo una curiosità, ma nella classifica dei Paesi in cui varrebbe la pena nascere, Australia, Singapore, Nuova Zelanda superano e precedono Usa e gli Stati (divisi) d’Europa. Le soluzioni per sanare lo squilibrio fra gli Stati Uniti e l’Unione europea creato dalla crisi del 2007, dopo la rielezione di Obama, non paiono lungimiranti sotto il profilo tributario. In ambedue i lati dell’Atlantico si è consolidato un accanimento verso i Paperoni che, lungi dal creare le premesse per la soluzione dei problemi, ha soltanto creato confusione accelerando la fuga dei numerosi benestanti, come l’attore Gérard Depardieu, verso i nuovi paradisi fiscali, depauperando in un sol colpo casse pubbliche e base imponibile complessiva. Come se non bastasse, il primo gennaio 2013 è scattato nell’Unione Europea il fiscal compact, voluto dal presidente della Banca Centrale Draghi, che, con l’inserimento della clausola nella Costituzione, obbliga al pareggio di bilancio e alla riduzione del debito complessivo di almeno un ventesimo ogni anno, e prevede sanzioni severe per chi non lo rispetta, corrisposte con versamenti al Fondo salva Stati. Cioè altri sacrifici. Secondo la classifica del World gold council, l’Italia è il terzo Paese nel mondo per riserve auree pro capite, con 40 grammi ossia 1.650 euro a cittadino - più di Francia, Usa, Singapore - ma anche con 30 mila euro di debito pubblico a testa. Come si colloca nello scacchiere? Le richieste poste dall’Europa un anno fa hanno accelerato le brutte notizie per gli italiani, le scelte compiute dal Governo Monti ne hanno esasperato gli effetti. Il Paese è sfiduciato. La mini patrimoniale sugli investimenti finanziari, pari all’uno per mille del loro valore di mercato, l’imposizione sui contratti finanziari derivati e l’introduzione della Tobin tax - in base alla quale le compravendite di titoli azionari sui mercati regolamentati soggiacciono a un’imposizione dello 0,12 per cento che sale allo 0,22 per le transazioni over the counter, acquistano crescente centralità e probabilmente condizioneranno le scelte elettorali degli italiani. I quali non potranno fare a meno di chiedere conto a chi ha governato perché, anziché agire sulle entrate e discettare su entità e forme di ulteriore tassazione, non hanno esercitato un pur minimo controllo delle uscite, magari quelle determinate dai costi dell’apparato istituzionale ossia Province, Regioni, mini Municipi, o di quello amministrativo cioè i Ministeri e la pletora di aziende municipalizzate, di Comunità montane e di enti collegati, che drenano risorse pubbliche a volontà. Servizi pubblici costosissimi che non vengono gestiti con la diligenza del buon padre di famiglia ma all’insegna di sprechi inusitati. Gas, Cassa depositi e prestiti, aziende sanitarie, ricerca, potrebbero essere spostati verso i privati. Inchieste hanno provato che negli ospedali sono state acquistate siringhe non utilizzabili o apparecchiature elettromedicali a costi multipli rispetto a quelli di mercato. Una superficialità che lo Stato italiano non può permettersi. E invece? In un anno, se si toglie l’introduzione dell’Imu e la riforma delle pensioni, poco è cambiato. Si considerano seconde case quelle concesse dai genitori ai figli che non hanno lavoro per mantenerle. Non c’è Catasto aggiornato che attribuisca il giusto valore tassabile a immobili pregiati. Ad iniquità si aggiunge iniquità: le tasse sul lavoro raggiungono il 42,6 per cento rispetto alla media europea del 38,1; il carico fiscale sulle imprese è del 27,4 per cento dinanzi al 20,6; le tasse sui consumi sono al 16,8 per cento rispetto al 19,2. Controllare le spese con il redditometro, entrare con calcoli presuntivi nei conti e nelle spese dei cittadini assegnando loro l’onere della prova è un metodo medievale che mette in agitazione le persone oneste lasciando indifferenti quanti hanno già portato i capitali all’estero, o vivono di proventi criminali, o sono sconosciuti al fisco. Un sondaggio Swg per la Coldiretti rivela che il 48 per cento delle famiglie vede nero per il 2013. Lo Stato assorbe metà del prodotto interno per i conti pubblici. Ma nulla è stato fatto per ridurre il numero dei parlamentari, per impedire che a capo delle aziende pubbliche finissero ex parlamentari riciclati a fine mandato, per attuare l’articolo 49 della Costituzione in base al quale i partiti devono avere natura giuridica e conti controllabili. Stupisce che il famigerato spread sia ritornato ad antichi livelli. Ha ragione chi lo considerava un fatto solo speculativo? È stato osservato come gli «hedge fund» siano in grado di muovere guerra a interi Paesi. Non solo con gli investimenti, ma chiedendo la restituzione di scommesse finanziarie mal riuscite su derivati e prodotti finanziari simili. Il fondo Elliot Associates ha chiesto a un giudice di New York di condannare l’Argentina a rimborsare il 100 per cento delle obbligazioni che Buenos Aires voleva considerare in default. La speculazione è il vero pericolo? Con ogni probabilità sì. Metà dei nostri problemi nasce fuori dai confini, per una globalizzazione economica e una circolazione dei capitali capaci di mettere in crisi, per mole e rapidità di azione, qualsiasi economia. Un esempio: mentre le piccole imprese italiane sono sottoposte a una pressione fiscale complessiva del 68,6 per cento, le multinazionali versano al fisco cifre irrisorie. Google dovrebbe al fisco 170 milioni di euro in più, Apple dichiara perdite per 1,8 milioni. Difficile competere a tali condizioni. Sarebbe giusto consentire alle grandi aziende di svolgere una competizione corretta, con regole certe, sistema economico più aperto, fisco non punitivo, protezione del diritto d’autore. E smettere di esagerare il ruolo di imprese minori che per sopravvivere hanno dovuto seguire comportamenti scorretti: evasione, mazzette, mancata innovazione e formazione. Occorre una seria politica industriale. È giusto combattere l’elusione fiscale, ma tutti gli imprenditori devono competere ad armi pari. Le singole economie vanno protette dalla pirateria finanziaria e dagli algoritmi che regolano gli acquisti azionari ignorando gli effetti che possono derivare da quelle decisioni automatizzate. Oltreché dagli errori delle classi dirigenti, siamo stati penalizzati dalla mancata attenzione verso i mutamenti intervenuti nello scenario economico internazionale. In Italia, ad esempio, nessun programma elettorale indica come raggiungere gli obiettivi imposti dall’agenda europea decisa a Francoforte. L’Occidente deve reimpostare meccanismi per competere seriamente con i Paesi emergenti. Altrimenti la sfiducia stroncherà l’ottimismo di facciata in cui sembra che si vogliano far confluire i problemi creati dalla crisi. 

Tags: Febbraio 2013 fisco Enrico Santoro

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