Luci e ombre: le occasioni perse sul fronte dell’Europa e del fisco
La legge di stabilità per il 2017 è all’esame dell’Europa e a quello del Parlamento. È una manovra che ha un valore di 26,5 miliardi di euro. Ecco come le spese e le coperture sono state delineate. In particolare le misure essenzialmente riguardano:
1) 1,9 miliardi per l’Ape e la quattordicesima alle pensioni più basse (il pacchetto pensioni prevede l’introduzione dell’Ape, cioè l’anticipo pensionistico, che potrà essere chiesto dal 2017 a partire dai 63 anni di età, quindi fino a 3 anni e sette mesi prima del raggiungimento della pensione di vecchiaia. Le risorse serviranno anche ad aumentare l’importo delle quattordicesime delle pensioni più basse);
2) 1 miliardo a università e scuole (le risorse saranno destinate a università, incentivi per le scuole materne paritarie, sostegno alle scuole non statali che hanno alte percentuali di studenti disabili. C’è anche la stabilizzazione dell’incremento del fondo per il diritto allo studio, la no tax area per i redditi bassi e borse specifiche per gli studenti più meritevoli);
3) 2,5 miliardi per il pacchetto competitività (l’intero pacchetto ammonta a oltre 20 miliardi di risorse in otto anni e include la conferma del taglio dell’Ires dal 27,5 al 24 per cento. Nasce l’Iri, l’imposta sul reddito d’impresa: sarà destinata alle piccole imprese che oggi sono soggette all’Irpef);
4) 1,9 miliardi per il rinnovo dei contratti degli statali e assunzioni nella polizia (le risorse serviranno a rinnovare i contratti del pubblico impiego e per riorganizzare il comparto delle Forze Armate e della polizia);
5) 500 milioni contro la povertà e nuove risorse per il Fondo non autosufficienza;
6) 600 milioni per le famiglie; rinvio della riforma Irpef al 2018 (è stabilizzato il bonus bebè e il bonus baby sitter. Viene introdotto il bonus «mamma domani» al settimo mesi di gravidanza e il voucher di mille euro per sostenere il costo dell’asilo nido);
7) interventi in favore dei terremotati e bonus ristrutturazioni (è prevista una parte dei 4,5 miliardi stanziati per la ricostruzione dei luoghi colpiti dal terremoto lo scorso 24 agosto e una parte dei 3 miliardi, sotto forma di incentivi, destinati al bonus per le ristrutturazioni, che interesserà anche condomini e alberghi);
8) 100 milioni per i Comuni che accolgono i migranti;
9) 2 miliardi in più per il Fondo sanitario nazionale, che dagli attuali 111 miliardi passerà a 113 miliardi nel 2017. Un altro miliardo andrà al piano vaccini, a un fondo per i farmaci oncologici innovativi e alla stabilizzazione dei precari, medici e infermieri);
10) 15,1 miliardi per bloccare l’aumento dell’Iva (sono disinnescate le clausole di salvaguardia: in questo modo si annulla l’aumento dell’Iva, previsto per il 2017, dal 10 al 13 per cento e dal 22 al 24 per cento).
Per quanto si riferisce alle coperture (al netto dell’ulteriore flessibilità richiesta all’Unione Europea) gli interventi previsti si riferiscono:
1) 4 miliardi si ricaveranno dalla soppressione degli interessi di mora e dalla eliminazione delle sanzioni sulle cartelle Equitalia ancora pendenti. Equitalia sarà assorbita, entro sei mesi, dalla Agenzia delle Entrate;
2) 3,3 miliardi dalla spending review (si tratta di tagli su beni e servizi. Sono previsti 1,2 miliardi di risparmi nella sanità grazie ad acquisti tramite la Consip);
3) 2 miliardi dalla voluntary disclosure. Un altro miliardo e 600 milioni arriverà invece dalla riorganizzazione dei fondi.
La battaglia di Renzi con l’Europa non può essere legata solo a quello 0,1 per cento di deficit in più (2,4 per cento invece che 2,3 per cento) che il Governo chiede di poter utilizzare all’interno della Legge di stabilità 2017. Litigare per una differenza dello 0,1-0,2 per cento significa cadere nel ridicolo. Assomiglia alla «Batracomiomachia, la battaglia tra rane e topi», poemetto giocoso, parodia dell’epica eroica attribuita ad Omero. La realtà è diversa. L’Italia non si può porre l’obiettivo programmatico di continuare ad essere per crescita l’ultima in Europa. Il tasso di disoccupazione rasenta il 12 per cento. Il debito pubblico continua ad aumentare. Il Paese è immobile. Inefficiente. Decadente. L’Italia non cresce più da troppi anni; crescono invece, e a dismisura, la povertà e la diseguagliaza sociale e territoriale.
«Siamo–ha ricordato l’onorevole Cirino Pomicino–i primi ad entrare in recessione quando c’è un ciclo economico negativo e, quando cambia il vento, restiamo sempre tra gli ultimi». È necessaria un’azione più incisiva. Occorre una strategia. La decadenza economica e sociale del nostro Paese non può essere risolta predisponendo in economia soluzioni estemporanee invece di un vero e proprio piano strategico. È interessante, per rendersene conto un confronto tra gli andamenti del nostro Pil e quelli dei Paesi con i quali competiamo in economia. Sono disponibili i dati statistici relativi all’andamento del Pil oltre che specificatamente per il nostro Paese, anche come sintesi dei 15 Paesi dell’Unione Europea. I dati a cui ci riferiamo sono contenuti in una lunga e documentata analisi del professor Sergio Ferrari pubblicata il 7 ottobre su Eguaglianza e Libertà. Ne riportiamo alcune riflessioni:
Per identificare i diversi periodi storici entro i quali si sono realizzati i differenti andamenti del Pil, si è separato il periodo 1970 - 2015 in quattro sottoperiodi: dai primi anni 70 ai primi anni 80 durante i quali l’Italia ha conservato un buon andamento relativo della propria crescita con andamenti positivi di oltre 3 decimi in più di punto percentuale all’anno, rispetto ai Paesi dell’area Euro; dai primi anni 80 al 1996 durante i quali si è avviata e poi sviluppata una permanente difficoltà della nostra economia sino ad arrivare al cosiddetto declino con una perdita media di 0,22 punti percentuali all’anno; dal 1997 al 2007 durante i quali si è sviluppata l’intera fase della speculazione economico-finanziaria internazionale e dal 2008 al 2014 durante il quale si sono manifestate le tendenze - seppur ancora deboli - al superamento di quella crisi internazionale, con l’aumento, tuttavia, del divario negativo da parte della nostra economia.
Nel primo periodo - dall’1971 al 1982 - il nostro Pil è aumentato di oltre mezzo punto percentuale all’anno in più di quello medio dei 15 Paesi dell’Unione. Una crescita che porta il valore totale del nostro Pil, misurato in termini di Pil pro capite, a livello di quello dei Paesi dell’Unione più sviluppati. È invece dai primi anni 80 che s’inverte questo andamento positivo con un andamento del nostro Pil inferiore a quello dei 15 Paesi dell’Unione. Questa differenza sale a oltre un punto percentuale all’anno con lo sviluppo dell’economia finanziaria e delle relative speculazioni sino allo scoppio della crisi internazionale del 2007, mentre dal 2008 la variazione del Pil annuale scende a livelli medi negativi del -1,26 per cento all’anno per il nostro Paese mentre si aggira intorno allo zero per i Paesi dell’Unione, come «segnali» dell’esistenza della crisi economica internazionale la cui natura e la cui entità vanno ricercate in quelle «forme di spericolato avventurismo finanziario» già segnalato sin dal 1981 da Federico Caffè. Nel periodo dal 2011 al 2015 si manifestano i primi pur deboli segnali di un superamento della crisi internazionale, con una ricaduta, tuttavia, nel 2013 e con incertezze negli anni successivi e, in conclusione, con un aumento ulteriore delle differenze delle variazioni del nostro Pil, sino a oltre 1,3 punti percentuali all’anno inferiore di quello dei Paesi UE.
La progressiva perdita di spinta per lo sviluppo, misurato in termini di Pil pro capite, ha già comportato per i cittadini italiani una perdita, rispetto ai cittadini europei, di quasi 4 mila euro pro-capite in dieci anni. Ecco perché, sulla base di quelle riflessioni, occorre una scelta strategica di grande respiro. In Europa occorre costruire solide alleanze per modificare la politica economica imposta dalla Germania. L’Europa non può andare avanti così. L’euro non è il punto di arrivo: è una tappa sulla strada dell’unità europea. Il Partito Socialista Europeo deve porre il problema del superamento della politica dell’austerità. Deve anche imporre consistenti cambiamenti istituzionali che modifichino profondamente l’assetto dell’Unione Europea. Il Pse oltre ad occuparsi della riforma costituzionale italiana farebbe bene ad impegnarsi per serie modifiche nell’assetto dell’Unione Europea per svincolarla dalla lentocrazia e dalla burocrazia, trasformandola in un soggetto politico. Anche il Governo italiano dovrebbe volare alto: costruire alleanze per una politica di sviluppo, estendere la solidarietà, battersi per una politica meno tedesca e più europea. È patetico questo andirivieni a cui assistiamo in questi ultimi mesi per cercare consensi sulle vicende della battaglia referendaria sulla nuova Costituzione in Italia.
Augias su Repubblica ha ironizzato sull’uso e sull’abuso di citazioni della Divina Commedia. Classica e ripetitiva la citazione di Dante fatta da Renzi ad Obama: «Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza». Questo il commento «perfido» di Augias: «Gli uomini sono stati creati per non restare animali irrazionali (bruti) ma perché siano padroni della loro volontà e la loro ragione, le due qualità che distinguono gli umani dal resto del mondo animale. Il racconto di Ulisse si chiude con la descrizione del naufragio e della morte: ‘infin che il mar fu sovra noi richiuso’. Si potrebbe–conclude Augias–ricordare (a Renzi e a Benigni) che il canto dell’Inferno di Dante si apre con una invettiva contro Firenze città di ladri (godi Fiorenza, poi che sei si grande, che per mare e per terra batti le ali, e per lo inferno tuo nome, si spande! Tra i ladron trovai cinque cotali tuoi cittadini onde mi ven vergogna, e tu in grande orranza non ne sali)».
Ma torniamo in Italia. La Legge di stabilità trascura un giacimento di risorse sinora inesplorato. È quello dell’evasione, della erosione e della elusione fiscale. Si sono allentati i freni. Tipico è il caso di Equitalia. C’è un buco da 795 miliardi di tasse non pagate tra imprese fallite, morti e nullatenenti. Secondo l’ultimo rendiconto generale dello Stato redatto dalla Corte dei Conti, nel bilancio dello Stato 2015 erano iscritti ben 795 miliardi di residui da riscossione relativi ai ruoli emessi dall’Agenzia delle Entrate. Il valore di presunto realizzo supera però di poco i 27 miliardi di euro, appena il 4,8 per cento del totale. Che fine hanno fatto gli altri 768 miliardi? La spiegazione sta nelle cosiddette rettifiche. La sola Agenzia delle Entrate negli anni ha chiesto di abbattere 534,2 miliardi di residui.
Poi ci sono le cosiddette «informazioni contabili ritardatarie» ed in questo caso la Corte cita un caso clamoroso, quello dell’ex Ufficio Iva di Napoli, che da solo, tra vecchi condoni e accertamenti infondati e/o inesigibili, ha prodotto un «buco» di 56,14 miliardi. In pratica due volte la manovra che il Governo ha appena varato. Tutti questi residui sono calcolati al lordo, ma anche al netto l’importo è da paura: 552,6 miliardi. Di questi 117,6 sono a carico di soggetti falliti e altri 65,3 riguardano persone decedute oppure ditte che hanno cessato l’attività. Da questi contribuenti si pensa di ricavare appena il 2,5 per cento dell’arretrato: 4,5 miliardi in tutto. Poi ci sono 242,8 miliardi legati a procedure esecutive e cautelari che a loro volta non produrranno un euro di incasso ed altri 75,9 miliardi di cartelle intestate a soggetti che in base ai dati dell’anagrafe tributaria risultano nullatenenti. Per fare cassa restano i creditori solvibili (8 miliardi recuperabili su 50,9 di debito netto) e gli importi già rateizzati (altri 14,48 miliardi).
Se si guarda ai conti di Equitalia si ritrova ovviamente la stessa situazione, aggravata però da interessi legali, sanzioni amministrative, aggi e interessi di mora, per cui alla fine il conto totale lievita a 1.058 miliardi. A tanto ammonta infatti il totale dei crediti non riscossi affidati alla società mista Agenzia Entrate-Inps. Anche questo dato però va ripulito: togliendo i crediti annullati dagli stessi enti che avevano emesso le cartelle esattoriali, tolte le somme difficilmente recuperabili, quelle sospese in seguito a sentenze e forme di autotutela si scende a 506 miliardi.
Poi, se si sottraggono anche le posizioni già oggetto di azioni esecutive di recupero non andate a buon fine (60 per cento del totale), gli importi già riscossi (81 miliardi) e quelli rateizzati (24,5), ad Equitalia restano appena 85 miliardi. O meglio 51 miliardi, 55 secondo altre stime, che sono le cartelle effettivamente «lavorabili». Se si applicasse l’aliquota del 4,8 indicata dalla Corte dei Conti per il totale del residuo, il Tesoro dovrebbe incassare tra 2,4/2,6 miliardi di euro. Padoan, invece, rottamando le cartelle punta a racimolare 4 miliardi.
Il Ministero dell’Economia prevede dall’abolizione e dalla trasformazione di Equitalia e dalla rottamazione dei crediti vantati dall’Erario entrate per 4 miliardi. Se si tolgono le sanzioni e gli interessi di mora ci saranno meno entrate, non più entrate. I consiglieri di Palazzo Chigi continuano a sfornare idee strampalate. Non si tiene conto del fatto che molti contribuenti, soprattutto le piccole aziende, sono dovute ricorrere a lunghe rateazioni anche decennali non perché erano evasori ma perché non avevano disponibilità economiche. Passare dalla lunga rateazione a una breve non servirà a raccogliere maggiori risorse. Sarà una norma che non verrà attuata perché non ritenuta conveniente. È quello che è già avvenuto sull’anticipo del Tfr (era troppo alta la tassazione). È quello che potrebbe capitare anche per l’anticipo delle pensioni se si manterranno livelli di penalizzazione troppo alti.
Le tasse non diminuiscono; la riduzione viene sempre rinviata; peggiora il welfare; chiudono le imprese; aumentano i poveri; aumenta il divario sociale e territoriale. La lotta all’evasione fiscale non può essere abbandonata; deve essere ripristinato il criterio definito all’epoca del Governo Prodi: utilizzare una parte dei proventi per alleggerire il carico fiscale. L’Amministrazione finanziaria non va demonizzata. Va recuperato un rapporto di collaborazione tra istituzioni e contribuente. Qualche interessante segnale di novità è contenuto nelle direttive che il Governo ha predisposto per il 2016-2018 per l’attività di prevenzione e di controllo. Eccone uno stralcio:
«In tale nuovo contesto la strategia dell’Agenzia, già intrapresa a partire dallo scorso esercizio, si fonda sul consolidamento di un rapporto fiduciario con i contribuenti, nell’ambito del quale è chiamata a ricoprire un ruolo di facilitazione e di guida per il corretto assolvimento degli obblighi fiscali, instaurando un dialogo collaborativo con i contribuenti stessi, preventivo o contestuale, laddove possibile, al momento dichiarativo. Tale approccio ‘cooperativo’ considera i contribuenti come soggetti da assistere nell’assolvimento degli obblighi tributari, ponendoli al centro dell’azione amministrativa e superando una logica in cui il controllato ed il controllore sono soggetti contrapposti, la cui interazione è rappresentata solo dal momento dichiarativo per il primo e da finalità di controllo e di accertamento per il secondo.
L’inversione di tendenza rispetto alla tradizionale visione di un fisco controllore, impegnato prevalentemente in un’azione di controllo a posteriori rispetto alla dichiarazione del contribuente, è talmente radicale che gli effetti del nuovo volto dell’Agenzia potranno cogliersi appieno solo nel medio-lungo periodo. Le attività di controllo, in questo nuovo contesto, potranno e dovranno essere indirizzate solo nei confronti di quei soggetti non interessati alla collaborazione, il cui comportamento si caratterizza per una volontà acclarata di sottrarsi ai propri doveri nei confronti della collettività».
È una scelta giusta che va incoraggiata. Se sono rose fioriranno.Va, invece, scoraggiata la faciloneria e la disinvoltura di molti esponenti del Governo. Ridicola è, ad esempio, la proposta del viceministro Casero: «facciamo una lotteria degli scontrini antievasione; premi per tutti, anche per i negozianti. Prime sperimentazioni nel 2017. Una estrazione al mese». Risibile è enfatizzare l’aumento della produzione industriale ad agosto: come è possibile parlare di aumento quando è notorio che in quel mese le fabbriche sono chiuse? Mistero! C’è attorno al presidente del Consiglio un cerchio «tragico». Ecco perché l’Italia non può avere un uomo solo al comando (qualcuno scrive ironicamente al telecomando). Occorre, insistiamo, valorizzare il ruolo delle forze economiche e sociali. Sono a volte fastidiose. Sono però nel sistema. La loro delegittimazione non porta consensi a chi guida il Paese. Rafforza, in Italia come in Europa, le forze antisistema, capaci solo di distruggere, incapaci come sono di governare.