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consulto a roma di super esperti per curare imprese in crisi di cinque paesi

di LUCIO GHIA

Lo scorso 18 ottobre ha avuto luogo, per la prima volta a Roma, una giornata di lavoro organizzata dall’American Bankruptcy Institute sul confronto tra la legislazione americana e quella italiana in tema di ristrutturazioni o liquidazioni delle imprese in crisi. Si è trattato di un’importante iniziativa realizzata da un istituto internazionale di grande peso professionale e scientifico, attivo soprattutto negli Usa, che raccoglie professori universitari, avvocati e giudici impegnati nell’area della riorganizzazione delle imprese in crisi o delle liquidazioni fallimentari o stragiudiziali. Nei saloni delle conferenze dell’hotel Parco dei Principi, innanzi a un’affollata platea formata da circa 200 partecipanti di varie nazioni, provenienti da USA, Italia, Gran Bretagna, Germania, Francia e Sud Africa, ma soprattutto da molti professionisti americani e italiani, è stata data lettura, all’apertura dei lavori, del telegramma del presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano che ha voluto conferire il suo patronato all’iniziativa. Quindi è stato dedicato dal presidente dell’associazione, avvocato James T. Markus, uno speciale riconoscimento al ministro della Giustizia, la professoressa Paola Severino, per l’impegno profuso nella modernizzazione della legge fallimentare italiana. La cornice più ampia nella quale si è sviluppato il convegno è stata caratterizzata dalla constatazione generale del perdurare di una crisi sistemica profondamente avvertita nelle varie aree del mondo. In questo contesto i relatori hanno imperniato le loro considerazioni su due principali direttrici: come preservare al massimo il valore dei beni aziendali che la crisi della singola impresa, o del gruppo di imprese, erode a danno di tutti coloro che vi sono interessati, quindi non solo dei creditori ma anche degli stakeholders - dipendenti, indotto, professionisti ecc. -, e come soddisfare al massimo le attese degli investitori e dei creditori tutti. Gli interventi sono stati molti, ma mi limito a riflettere su quanto è emerso dal panel da me moderato, dal titolo: «America now». I relatori erano gli avvocati Donald Bernstein e James Bromley, il finanziere Bryan Marsal, tutti con uffici e sedi principali non solo a New York ma in vari Paesi del mondo, e l’on. giudice James Peck, dell’U.S. Bankruptcy Court di New York, Giudice del caso Lehman Brothers, il maggior default finanziario che si sia manifestato dal 2008 per gravità delle dimensioni e delle conseguenze. Dal dibattito è emerso che è il tempo il vero protagonista della soluzione della crisi d’impresa, e quindi la vera risposta ai due quesiti centrali di ogni procedura: come preservare il valore dell’impresa e come assicurare il maggior risultato positivo possibile ai creditori. Se il tempo del risanamento è breve, evidentemente l’erosione dei valori degli asset dell’impresa è minore, si arresta subito, non diviene un’emorragia; l’altra faccia della stessa medaglia è rappresentata da una maggiore percentuale dei crediti che, in tal caso, verrà rimborsata ai finanziatori e ai creditori tutti. A questo punto la domanda che, in qualità di moderatore del panel, mi sono sentito in dovere di rivolgere ai relatori non poteva che essere: come mai le procedure concorsuali, di bankruptcy come dicono gli americani, risultano tanto più veloci rispetto ai tempi delle nostre procedure, anche se comportano la soluzione di problemi enormi, considerando per esempio le dimensioni dell’insolvenza della Lehman Brothers? Ed ancora: con quali tecnicalities, quali segreti, best practices da applicare, correttivi, fosse possibile traguardare tali risultati? Infatti le nostre procedure, malgrado le modifiche e gli inserimenti apportati, negli ultimi sette anni, dal nostro legislatore, continuano a mietere illustri vittime proprio sull’altare del tempo. Ebbene, tutti i relatori sono stati concordi nel sottolineare che il sistema americano che noi individuiamo principalmente sotto il nome di Chapter 11 - per noi una vera magia che riesce a gestire e a raggiungere risultati ottimali in situazioni di crisi anche rilevanti, talvolta devastanti come nel caso Lehman Brothers -, è costituito da un impianto normativo che consente a tutti gli interessati di procedere nella stessa direzione, perseguendo contemporaneamente lo stesso obiettivo: il superamento in tempi brevi della crisi dell’impresa. Debitori, creditori, comitati dei creditori, rappresentanti di fondi pensione, banche, finanziarie, sindacati, avvocati, giudici, commercialisti, consulenti, esperti, fiscalisti, contabili, periti, società di revisioni ecc. sono tutti pienamente consapevoli della necessità di assicurare il più velocemente possibile l’uscita dalla crisi che imprigiona ed erode i rispettivi interessi. L’architettura portante della procedura, come ci hanno dettagliatamente riferito i relatori, prevede un primo indispensabile e necessario step: arrestare l’emorragia, prima che il «cubo di ghiaccio» si sciolga; salvaguardare il valore degli assets dell’impresa in crisi. Le previsioni normative sono assai semplici ed estremamente flessibili, adatte a contenere, regolamentare e accelerare ogni sorta di accordo e di transazione tra debitore e creditori e tra gli stessi creditori. La consapevolezza di perdere valore incessantemente, ogni minuto che passa, costituisce, infatti, un potente acceleratore per ogni creditore più o meno avvisato, come ci ha riferito il giudice Peck. «Durante le prime 48 ore successive alla dichiarazione dell’insolvenza di Lehman Brothers, le quotazioni dei suoi derivati sui mercati mondiali registrarono la perdita di decine di miliardi di dollari. Si doveva agire subito, raggiungere un accordo con i creditori interessati, bisognava tornare nel mercato, investendo nuova finanza. Furono così, dopo cinque giorni dall’inizio della procedura con l’accordo dei creditori, investiti i primi 18 miliardi di dollari reperiti dalle vendite e dalla concessione di garanzie sugli assets della società. È evidente come sia da studiare approfonditamente un sistema che offra soluzioni di tal fatta a problemi giganteschi in tempi così brevi. In questo scenario ho introdotto ulteriori due domande: Noi avvertiamo spesso numerose resistenze e difficoltà nel favorire gli accordi tra creditori e debitori, qual è la vostra ricetta? il ruolo del giudice? Anche a riguardo la risposta del giudice Peck è semplice ma efficace: il ruolo del giudice, in queste procedure, è fortemente caratterizzato dalla ricerca delle soluzioni, dell’agreement; infatti è proprio il giudice che, nel caso in cui alcuni creditori, alcune classi di creditori, non riescano a trovare un accordo, o non condividano la collocazione dei loro crediti e il correlato trattamento previsto dal piano di risanamento, fissa un’udienza per sottolineare ai creditori dissenzienti l’alternativa rappresentata dal confronto tra il trattamento dei loro crediti, secondo l’ipotesi dell’accordo in discussione e i risultati economici che una liquidazione fallimentare avrebbe riservato agli stessi crediti. Con la logica e la forza persuasiva del «male minore», il giudice può giungere ad imporre, quando non riesce a convincere, la soluzione ritenuta migliore nell’interesse generale. I termini di paragone assunti a base del confronto sono costituiti dal valore dei cespiti dell’impresa in continuità produttiva, rispetto ai loro valori di liquidazione. Ovvero quanto valgono quegli stessi beni se vengono privati dai good will, dalle plusvalenze specie di natura immateriale racchiuse ed espresse dalla capacità di produrre - quali know how, avviamento, progetti, marchi, brevetti, studi, qualificazioni del personale, presenze nei mercati - che l’arresto della produzione immediatamente volatilizza. È evidente come questo metodo possa facilitare le transazioni. Il ruolo del giudice è quindi residuale, poiché gli accordi, le transazioni, le conversioni di crediti in capitale, l’emissione di bonds dedicati, si svolgono, si creano, si individuano e si perfezionano su tavoli stragiudiziali. Spesso, come ci hanno riferito gli avvocati Bernstein e Bromley, gli studi dei consulenti legali dei creditori e delle parti interessate costituiscono la vera «fucina» ove si costruiscono le soluzioni sostenibili, ovvero tali da essere percepite come più eque e capaci di contemperare per quanto possibile gli interessi delle parti; anche se spesso, come ha sottolineato nel proprio intervento il finanziere-ristrutturatore Bryan Marsal, i creditori più forti hanno maggiore peso negoziale, specie quando debbano farsi carico della «nuova finanza» necessaria a far decollare il piano di ristrutturazione. Ma l’elemento di maggiore differenziazione emerso dalle varie relazioni, tra la realtà concorsuale americana e quella italiana, rimane la netta separazione tra il governo e la vita dell’impresa in corso di ristrutturazione, che resta concentrata e sensibile solo alle necessità correlate alla continuità della produzione nell’ambito dell’iter descritto dal piano e accettato dai creditori, e che si snoda prevalentemente fuori dal tribunale, e l’insorgenza e la gestione del contenzioso giudiziario, che potrà durare anche anni ma senza ripercussioni sull’impresa in via di risanamento o risanata. Molti, se non tutti i giudizi vengono ceduti ai creditori o a terzi, i contratti onerosi vengono risolti, molte cause sono transatte sul nascere e comunque nella maggior parte dei casi le loro sopravvenienze, attive o passive, non riguarderanno l’impresa. È questa una lezione per noi importante, che viene offerta all’analisi degli addetti ai lavori. I contrasti procedimentali, le contestazioni di qualsiasi genere si svolgono su un piano separato rispetto a quello del risanamento, le liti non appesantiscono il cammino disegnato nel piano per salvare il valore residuo dell’impresa in movimento, per liquidare asset non più strategici, per consentire all’impresa di continuare a stare nel mercato. Ebbene in questi casi il Giudice interviene solo per aiutare le parti a trovare soluzioni ed ha anche il potere di imporne alcune. Gli eventuali appelli contro tali provvedimenti non incidono sull’iter disegnato nel piano di ristrutturazione, di risanamento o di liquidazione approvato dai creditori, che procede lo stesso nei tempi previsti. L’aspetto giudiziario non incide sul risanamento o sulla liquidazione dell’impresa in crisi e sui suoi tempi. Sono spunti di riflessione, questi, da metabolizzare perché nel nostro sistema abbiamo compiuto grandi passi avanti dal 2005, intervenendo in un impianto normativo del tutto irreale, perché ancorato a una realtà pre-industriale. La legge regolatrice del fallimento e delle cosiddette «procedure minori» risaliva al 1942, mentre invece con gli innesti succedutisi i vari decreti legge, alcuni dei quali risalgono a pochi mesi or sono (decreto sviluppo), contenenti innovazioni, il nuovo sistema concorsuale si sta delineando in modo decisamente più favorevole alla continuità dell’impresa, alla conservazione del suo valore, come entità in esercizio capace di esprimere produzione e di assicurare occupazione; ma i meccanismi adottati sono ancora troppo farraginosi e complessi. Il tribunale e il giudice sono tutt’ora troppo presenti e condizionati mentre le trattative, il risanamento e il negoziato non appaiono ancora nella pratica sufficientemente protetti e liberi di realizzarsi secondo le valutazioni dei diretti interessati. Ma sul contributo italiano alla conferenza dell’American Bankruptcy Institute tornerò nel prossimo numero

Tags: Dicembre 2012 imprese Lucio Ghia fallimento

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