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vanno recuperati valori e regole comuni sul piano etico e ripensata la costituzione europea

di ENRICO SANTORO  professore, avvocato

Qui si fa l’Europa, o si muore, direbbe un Garibaldi versione terzo millennio, vedendo che l’Italia per la cui costruzione tanto aveva brigato, oggi per non dissolversi ha sempre più bisogno - come peraltro tanti altri Paesi suoi vicini - di vedere realizzata quanto prima un’Unione Europea degna di questo nome; che, cioè, sappia da un lato assorbire le proprie debolezze non solo economiche, e dall’altro imprimere una «direzione strategica» agli sforzi che tanti onesti cittadini stanno compiendo affinché non si finisca tutti assieme nelle sabbie mobili.
Ma, come non fu facile 150 anni orsono fare l’Italia - sempre ammesso che si possa dire di esserci riusciti, alla luce delle divisioni economico-culturali che ancora albergano nella Penisola -, così non sembra affatto semplice fare l’Europa. Basta leggere i segnali contraddittori che si alternano quotidianamente per affermarlo con più di una ragionevole probabilità di azzeccarci. Non basta premiare l’Europa con il Nobel per la Pace - che sembra piuttosto un premio di consolazione per i tanti fallimenti inanellati nell’ultimo periodo -, per poter cantare vittoria sulla crisi.
L’Europa dei 27, proprio come il Regno d’Italia 30 lustri fa, è formalmente un’entità istituzionale ma sui piani economico e culturale è profondamente divisa oltre che palpabilmente provata da anni di tempesta finanziaria. Ed è vittima di una speculazione che trova terreno assai fertile per le proprie scorribande nelle contraddizioni di economie spesso altamente indebitate, ma più che altro disomogenee tra loro, guidate da classi dirigenti miopi e schiave di un sistema di coordinamento, con base a Bruxelles, inefficace e farraginoso.
L’Europa, incalza il filosofo Zygmunt Bauman, si trova al bivio tra sopravvivenza e disgregazione e deve assolutamente puntare a trasformarsi in una confederazione. Le istituzioni devono far emergere un interesse comune da spinte diverse. La competizione su scala globale sarebbe molto più pericolosa per le identità nazionali europee se esse, paradossalmente proprio per paura di perdere pezzi di sovranità, non riuscissero a costruire un tetto comune che ripari le nazioni europee con uno scudo efficace.
Il che, detto dal teorico della società liquida, fa pensare davvero: l’analisi del sociologo si conclude spiegando che la legittimazione ai singoli Governi nazionali, affinché spingano per creare una comune politica estera e di sicurezza e un comune disegno economico, deve venire proprio dai cittadini, senza aspettarsi nulla dalla Rete e dalle sue sfaccettature, perché bisogna evitare concretamente che si ripropongano quelle divisioni che, all’inizio del secolo scorso, provocarono sanguinose lacerazioni.
Ma purtroppo sono proprio i cittadini europei i primi a diffidare dell’Europa, e i dati del sondaggio annuale di Eurobarometer confermano: 5 anni fa il solo 14 per cento di essi erano contro l’Europa; oggi sono il 28 per cento. Invece i favorevoli sono crollati al 31 per cento. Per quanto riguarda l’euro: nel 2007 aveva un 61 per cento di sostenitori e un 31 per cento di critici, mentre oggi la proporzione è di 52 e 40 per cento. E malgrado qualche recente progresso, siamo lontani dall’88 per cento di italiani che nel 1989 volevano conferire al Parlamento europeo un mandato costituente.
La diffidenza è più che legittima, vista la reazione davvero debole mostrata da Eurolandia in seguito alla tempesta esportata dagli Stati Uniti. L’Europa oggi si ritrova con una crisi del debito di enormi proporzioni - malattia sofferta principalmente dai Paesi meridionali del Continente ma ad alta contagiosità -, con banche ad elevato rischio di stabilità, piene di sofferenze destinate a crescere e di titoli pubblici sempre meno appetibili e meno sicuri, con squilibri significativi nei movimenti di capitali: un quadro nel quale la speculazione ha gioco facile.
Ma allora da dove si parte per fare l’Europa? Al posto dello scoglio di Quarto, oggi abbiamo quello di Atene. Un buon metodo per evitare di naufragarci sopra è stato quello di istituire il fondo Salva-Stati. Altro segnale radar molto utile potrà essere l’istituzione di una vigilanza bancaria centralizzata che partirà nel 2014. Al riguardo, si è molto faticato per raggiungere un accordo, non a 27 ma persino a due, visto che i premier di Francia e Germania hanno sofferto assai a concordare una posizione comune in proposito; ma per fortuna la sigla è arrivata.
Nonostante queste due novità che hanno alleggerito le pressioni speculative, il castello europeo resterà fragile senza una graduale cessione di elementi di sovranità nazionale. Senza un organismo sovranazionale rispettabile, a modello statunitense, che sappia accentrare fattori fondamentali come la politica estera e quella fiscale, con un disegno economico complessivo che affronti problemi come l’immigrazione, non più circoscrivibili alle scelte di un solo Paese, magari con lo spirito che fu di Alcide De Gasperi e di Konrad Adenauer.
L’integrazione è però complicata dagli squilibri tra gli Stati europei, soprattutto tra Nord e Sud, in campo sia economico sia di qualità della vita sociale, cresciuti rispetto agli anni Ottanta quando la Commissione Europea era presieduta da Jacques Delors. Il Rapporto più recente del World Economic Forum ricorda come siano i Paesi nord-europei ad essere virtuosi sul piano di aspetti come l’etica dei politici, la tutela dei diritti di proprietà, la protezione degli investitori, degli azionisti di minoranza e dei diritti d’autore.
Nel Sud salgono l’incidenza del crimine organizzato, l’inefficienza manageriale, il dilagare dei favoritismi politici, la pressione delle tangenti. E l’elenco continuerebbe pure. Si deve voltare pagina con opportune politiche di respiro europeo, capaci di premiare i comportamenti virtuosi e penalizzare quelli capaci di dissipare gli sforzi unitari compiuti dal dopoguerra ad oggi. L’economia è un aspetto indispensabile da equilibrare, ma ha già attirato su di sé l’attenzione generale negli ultimi mesi.
Ora tocca a tutto il resto: si devono recuperare valori e regole comuni sul piano etico, e va messo in cantiere un ripensamento della Costituzione europea ritornando al sogno di Altiero Spinelli. Si tratta di capire che l’Europa non sono solo i trattati ma le singole opinioni di 300 milioni di cittadini divenuti finalmente consapevoli di avere un destino comune nello scenario mondiale. Si tratta di distogliere per un momento lo sguardo dall’euro come unità di misura, come fine a se stesso, considerandolo invece espressione di un procedere unitario verso il domani. Verso una Federazione insomma, consapevole che non può più giocherellare. In che senso? Ma quanto può andare lontano una realtà che, quando decide, lo fa con consultazioni farraginose, organismi pletorici, riunioni affollate di rappresentanti di 27 Paesi? Quanto può dirsi efficace una comunità con la «C» maiuscola, che toglie fondi a uno dei pochi progetti validi che finora ha saputo attuare - come l’Erasmus per gli studenti - per assegnarli invece a piogge di progetti quanto meno improbabili?
L’Europa è in recessione ma ai vertici di Bruxelles si discute su chi ritirerà il premio Nobel per la Pace. Che sarà pure incoraggiante, forse anche meritato, ma comunque deve essere considerato semplicemente uno sprone per le classi dirigenti politiche affinché sappiano convergere, rinunciando a fette di potere. Non c’è tempo da perdere: il Fondo Monetario Internazionale afferma, in un recente studio, che la crisi ha distrutto 30 milioni di posti; che il debito degli Stati industrializzati è pari al 110 per cento del prodotto interno.
È difficile quindi stare allegri. Al riguardo, ognuno deve fare la propria parte. E noi come siamo messi? I dati a volte confondono. Il FMI ricorda che l’Italia è scesa al 30esimo posto per prodotto interno procapite, dietro Spagna e Irlanda. Ma un’indagine Allianz la pone al 12esimo posto per ricchezza procapite: gli italiani hanno un patrimonio di 48 mila euro a testa, più di tedeschi e francesi. E allora? Hanno senso l’ottimismo dei manager intervistati nell’ultimo workshop Ambrosetti di Cernobbio, o le dichiarazioni del premier Monti?
Se è vero che c’è luce in fondo al tunnel, bisognerà darsi da fare per avvicinare l’uscita. Ma come si fa se siamo ancora al 23esimo posto nell’uso di internet - come spiega il Web index realizzato dalla WWW Foundation -, se siamo superati persino dal Portogallo nel turismo web? Se le misure per attuare una burocrazia statale digitale in Italia sembrano limitarsi agli annunci? Se, stando alle ultime classifiche, siamo al posto 69 della classifica della corruzione a ridosso del Ghana, e se ogni posto in giù fa perdere al Paese il 15 per cento degli investimenti esteri?
Il rapporto di Doing Business 2012 rivela che l’Italia è al 158esimo posto su 183 sistemi economici analizzati per il tempo necessario alla giustizia civile per risolvere una controversia commerciale tra due imprese concorrenti; che occorrono 1.210 giorni per avere una sentenza definitiva di fronte ai 331 impiegati in Francia e ai 394 impiegati in Germania; che i procedimenti sono mediamente due o tre volte più lunghi di quelli dei Paesi europei. Come se ne esce? La risposta è nella strategia prospettica, investendo risorse nella ricerca di un ruolo.
Deve farlo l’Europa nel contesto mondiale. Dobbiamo farlo noi in quello europeo. La legge anti-corruzione è stata un primo passo, ma il Governo l’ha detto: non è sufficiente e andrà completata. Farebbe salire il reddito complessivo dal 2 al 4 per cento una lotta efficace alla corruzione che corrisponde a una tassa del 20 per cento sugli investimenti esteri, altera i flussi monetari in entrata e in uscita, si associa alla diminuzione di natalità delle imprese, favorisce la staticità anziché il movimento dei capitali e degli investimenti.
Ma soprattutto fiacca le energie di rinnovamento. L’Eurispes ha lanciato un preoccupato allarme nei giorni scorsi. Per la prima volta, ha detto il suo presidente Gian Maria Fara, si stanno avvitando su se stesse tre diverse crisi: economica, sociale e di degenerazione del quadro politico istituzionale. Il 56,6 per cento dei cittadini italiani si aspetta un peggioramento della situazione e oltre 7 italiani su 10 dichiarano sfiducia nelle istituzioni, salvo che per le Forze dell’ordine e la Presidenza della Repubblica. Il che però non è un buon dato per il sistema democratico.
Fermato il Paese che stava precipitando, ora il Governo italiano deve puntare alla crescita, dice a ragione l’economista francese Nouriel Roubini, poiché la cura da cavallo rischia di uccidere il paziente. Peraltro, secondo alcune stime ufficiose, i provvedimenti sulle aliquote dell’Irpef non sono certo «popolari»: diminuiranno le entrate erariali complessive di 4,1 miliardi di euro avvantaggiando di soli 300 milioni redditi inferiori e di 3,8 miliardi quelli fino a 28 mila euro. Gli alleggerimenti per i redditi superiori aggraveranno le casse pubbliche senza sostanziale beneficio per gli interessati.
Forse sarebbe preferibile rispolverare il sistema delle detrazioni d’imposta al crescere del reddito. Ma il vero problema è che, frastornata da tasse e impegni economici, la popolazione italiana non riesce a cogliere una vera progettualità e, mentre la società si impoverisce, i ceti medi acquistano instabilità e precarietà, quelli più poveri sono alla disperazione, e il conseguente calo di consumi appare l’anticamera della débacle economica generale. Servirebbe un’adeguata campagna di spiegazione ai cittadini su quello che si sta facendo. Gli italiani potranno rinunciare a piccoli e grandi privilegi, ma devono capire perché e soprattutto come si puniranno sviste contabili, ruberie organizzate, sprechi individuali e politici che rappresentano la pastoia più grande al galoppo dell’Italia. Ben venga, allora, un quadro di rilancio europeo capace di scuotere tutti e di spingerci a collaborare. Senza ricorrere a guerre, come si faceva una volta, e per operare sulla scena internazionale alla pari con i Paesi emergenti del BRIC. Ma con un progetto chiaro, intelligibile e di respiro europeo.

Tags: Dicembre 2012 Europa Enrico Santoro

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