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Una svolta coraggiosa, realistica e innovativa in politica fiscale

Giorgio Benvenuto presidente Fondazione Buozzi

Avanti spending review? Come? E di quanto?

Il presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi, ancora una volta si dimostra uno scaltro e abile comunicatore, con molte marce in più rispetto ai propri avversari politici esterni ed interni. Con la trovata shock dei 50 miliardi di tasse in meno in cinque anni, pari a tre punti di Prodotto interno ha sbaragliato il campo. Gli interlocutori del centrodestra, invece di sottolineare criticamente la genericità delle coperture alla manovra, si sono abbandonati solo a recriminare la loro primogenitura. La sinistra, invece, è caduta nella trappola; non si libera dall’etichetta di «partito delle tasse»; non riesce a dimenticare Padoa Schioppa (il ministro dell’Economia che nell’ultimo Governo Prodi aveva affermato entusiasta che le «tasse sono bellissime»); si conferma come il partito assetato di gettito fiscale.
«È un patto con gli italiani. Abbiamo sempre detto che finalmente dopo tanti anni di immobilismo si può». Lo dice il presidente Matteo Renzi al Tg2.
«Abbiamo già iniziato. È un piano che stiamo studiando da almeno sei mesi. I numeri per portare a casa questo risultato–ha aggiunto il premier–ci sono, a condizione che il Parlamento continui a lavorare con intensità. Dobbiamo essere decisi nell’Unione Europea, ma anche capaci di sbloccare le opere pubbliche in Italia», aggiunge Renzi puntando il dito sulle «notizie che leggiamo su giudici che bloccano aziende o appalti».
«2014. Primo atto del Governo: 80 euro al mese a dieci milioni di italiani. 2015. Eliminazione della componente Costo del Lavoro da Irap. 2016. Via Imu e Tasi sulla prima casa. 2017. Giù Ires. 2018. Giù l’Irpef e aumento delle pensioni minime. Questo è il nostro percorso: 50 miliardi di euro di riduzione tasse in cinque anni».
 «Uno shock fiscale»–scrive su Facebook Matteo Renzi–che rottama l’idea del PD come partito delle tasse. E che vuole restituire fiducia agli italiani e competitività all’Italia. La riduzione delle tasse verrà fatta «sempre mantenendo il rispetto dei parametri di Maastricht e del 3 per cento, per una questione di serietà con i mercati e con l’Europa. L’abbiamo fatto, lo stiamo facendo, lo faremo assieme a chi vuole bene all’Italia, con buona pace dei gufi e dei disfattisti». Agli italiani occorre inviare un «messaggio forte di fiducia: per anni i politici hanno detto: ‘Vi tassiamo, vi tassiamo, vi tassiamo’. Da quando siamo al Governo, noi abbiamo iniziato a restituire soldi che sono degli italiani. Se finalmente arriva questo messaggio, l’Italia, che è un grande Paese, smette di essere un Paese di piagnistei e torna a essere locomotiva d’Europa».
Ottima l’idea. Renzi ci chiede dunque di non essere gufi, ma non può pretendere che diventiamo i suoi trombettieri. Nella cosiddetta Seconda Repubblica si è parlato tante volte di riforme per la riduzione delle tasse. Troppe. Non ne abbiamo vista nessuna.  
Le perplessità e le incognite dell’annuncio non mancano, anzi sono legittime e pure doverose. Ad esempio cosa significa «via la tassa sulla prima casa»?. L’intera tassazione sulla casa tra Imu e Tasi pesa 23,8 miliardi, ma per abolire la Tasi sulla prima abitazione ne servono 3,8 e sarà necessario trovare le risorse alternative per i Comuni già in forte crisi finanziaria. Più facile a dirsi che a farsi. «Anche perché–ha scritto Roberto Petrini di Repubblica–la Legge di Stabilità 2016, che dovrebbe contenere l’operazione di riduzione delle tasse, è già un esercizio da equilibristi: la priorità è infatti quella di impedire che dal 1° gennaio del 2016 scatti l’aumento di due punti delle aliquote Iva e delle accise e siccome si tratta di 12,8 miliardi di gettito, bisogna assolutamente trovarne 10 attraverso la spending review».
Avanti con la spending review, dunque? Ma come? E di quanto? I 10 miliardi indicati nel Def-Documento di Economia e Finanza saranno di fatto usati per evitare la clausola di salvaguardia ovvero l’aumento dell’Iva e delle accise, che altrimenti scatterebbe dal prossimo primo gennaio. Inoltre all’orizzonte ci sono da assolvere alcuni impegni di finanza pubblica, ha ricordato Dino Pesole del Sole 24 Ore: «Va comunque garantita la copertura (728 milioni) necessaria per far fronte alla bocciatura da parte di Bruxelles dell’estensione del reverse charge alla grande distribuzione. In più dal 2016 occorrerà individuare la copertura di 500 milioni per gli effetti della sentenza della Consulta sul blocco della rivalutazione delle pensioni 2012-2013. Ed è ancora da definire l’impatto dei termini finanziari della riapertura del confronto con i sindacati sui contratti del pubblico impiego».
Ecco lo scenario fiscale descritto dalla Corte dei Conti nel Rapporto 2015 sul coordinamento della finanza pubblica nel quale si colloca la «rivoluzione copernicana» di Renzi: «La crisi negli ultimi 7 anni dell’economia italiana si è riflessa notevolmente anche sugli assetti del sistema tributario e sulle scelte di politica fiscale. Un quadro macroeconomico deteriorato e basi imponibili cedenti hanno condizionato il livello e la dinamica del prelievo. Differenze nella tenuta del reddito disponibile e nella difesa degli stili di consumo hanno aumentato i conflitti distributivi e le responsabilità del fisco nel temperarli. La conservazione di regimi tributari di favore e la propensione ad evadere sono state interpretate come soluzioni compensative di una deludente economia reale».
In sintesi per la Corte dei Conti si possono evidenziare cinque considerazioni:
A) La prima riguarda la portata complessiva delle novità fiscali. Fra manovre di bilancio e specifiche iniziative legislative, sono 45 i provvedimenti varati fra il 2008 e il 2014 recanti interventi con effetti diretti o riflessi sulle entrate. Si tratta di 758 misure che, fra maggiori e minori entrate, movimentano oltre 520 miliardi di risorse, con un impatto in termini di riduzione dell’indebitamento netto pari a 145 miliardi. La loro eredità si proietta sul futuro; il 2015, in particolare, incorpora maggiori entrate nette per poco meno di 22 miliardi, frutto del trascinamento dalle annualità pregresse.
B) La seconda attiene agli effetti redistributivi che riflettono la mancanza di una corrispondenza fra disegno di politica fiscale e manovre di bilancio attuate. La redistribuzione, in sostanza, si è tradotta in aumenti impositivi sul patrimonio immobiliare, sui consumi e sulle rendite, senza che a ciò si sia accompagnata un’equivalente riduzione del prelievo sui fattori produttivi.
C) La terza accomuna i temi del contrasto all’evasione fiscale e del riordino delle agevolazioni fiscali.
Nel caso dell’evasione, rileva l’imponenza dei numeri: oltre 64 miliardi il maggior gettito atteso in sette anni dalle misure finalizzate al contrasto del fenomeno, ossia oltre il 44 per cento dell’aumento complessivo di entrate di cui sono state accreditate le 45 manovre dell’intero periodo.
Ugualmente complesse sono le evidenze riguardanti le Tax expenditures. Gli ultimi sette anni sono stati caratterizzati da una singolare asimmetria: da un lato, il rincorrersi di una progettualità in cui l’intervento sull’erosione fiscale assume un rilievo crescente nel ridisegno del sistema del prelievo; dall’altro, il varo di puntuali interventi di riduzione di agevolazioni, destinati di volta in volta a naufragare nella fase applicativa. «Nell’insieme–rileva la Corte dei Conti– si è in presenza di 202 provvedimenti a contenuto agevolativo, i quattro quinti dei quali si concretizzano nell’estensione di agevolazioni esistenti o nell’introduzione di nuove, laddove la parte residua è rappresentata dalla cancellazione o dal ridimensionamento di agevolazioni esistenti. Con un risultato opposto agli obiettivi enunciati: nello spazio di sette anni l’erosione di entrate prodotta dal fenomeno delle spese fiscali è quantificabile in poco meno di 40 miliardi, per effetto di 51 miliardi di ‘aumenti’ cui si contrappongono, poco più di 11 miliardi di ‘riduzioni’ del fenomeno erosione».
D) La quarta conclusione è riservata ai riflessi sul federalismo delle misure adottate. Le variazioni di gettito attese dalle manovre 2008-2014 delineano un contribuito alla crescita delle entrate delle Amministrazioni territoriali la cui quota su quelle dell’intera Pubblica Amministrazione risulta quasi raddoppiata in venti anni dall’11,4 per cento del 1995 al 21,9 del 2014.
In particolare, il confronto con l’Europa segnala una distribuzione dell’onere fiscale che penalizza i fattori produttivi rispetto alla tassazione dei consumi e del patrimonio. L’Italia si colloca al primo posto nel prelievo gravante sui redditi da lavoro (con il 42,8 per cento, quasi sette punti oltre la media europea); al secondo posto in quello sui redditi d’impresa (26,5 quasi tre volte il livello dell’Irlanda e, comunque, 10 punti oltre la media UE); al ventiduesimo posto (con il 17,7 per cento) nel prelievo sui consumi, ossia 2,1 punti in meno rispetto all’Unione Europea. E, infine, al quarto posto nella tassazione «ricorrente» sulla proprietà immobiliare, con un gettito pari all’1,6 per cento: di poco superiore a quello medio europeo ma come sottolinea l’Eurostat, registrando rispetto al 2011 un significativo aumento di 0,9 punti, in seguito dell’introduzione dell’Imu.
L’eccesso di prelievo gravante sul fattore lavoro trova conferma nei dati che l’Ocse elabora annualmente. Nel 2014, il cuneo fiscale (differenza fra costo del lavoro e retribuzione netta in percentuale del costo del lavoro) sul lavoratore senza carichi familiari vede l’Italia collocata al sesto posto nella graduatoria dei 34 Paesi dell’area, con un livello (48,2 per cento ) superiore di oltre 12 punti rispetto al valore medio. Dimensioni più contenute assume il fenomeno nel caso del lavoratore con carichi di famiglia che, tuttavia, con un cuneo pari al 39 per cento, sale al quarto posto nella graduatoria Ocse.
Si tratta di evidenze che contrastano con le indicazioni delle istituzioni interne (Banca d’Italia) e degli organismi internazionali (Ocse, Eurostat, Fmi): tutti d’accordo nel disegnare la graduatoria delle imposte che più ostacolano la crescita economica (1° quelle sui redditi d’impresa; 2° quelle sui redditi da lavoro; 3° le imposte sui consumi; 4° le imposte patrimoniali) e nel suggerire uno spostamento dell’onere tributario dai fattori produttivi verso i consumi e il patrimonio.
Se il carico fiscale dell’Italia fosse in linea con quello medio europeo, ogni cittadino risparmierebbe 904 euro all’anno di tasse e contributi. Lo rileva la CGIA comparando la pressione fiscale nel 2014 dei principali Paesi Ue: gli italiani occupano le prime posizioni della graduatoria dei contribuenti più tartassati d’Europa. Al primo posto la Francia con una pressione del 47,8 per cento del Prodotto intero, l’ Italia al 43,4. La media dei 28 Paesi Ue si è stabilizzata al 40 per cento; 3,4 punti in meno che da noi.
Negli ultimi 15 anni il confronto fiscale con la media europea è costantemente peggiorato. Se nel 2000 i contribuenti italiani pagavano 44 euro in meno di tasse rispetto alla media dell’Unione Europea, nel 2004 il carico fiscale per ciascun italiano era superiore del dato medio europeo di 126 euro. Il gap a nostro svantaggio è addirittura salito a 841 euro nel 2010 e ha raggiunto i 904 euro nel 2014.
Secondo l’analisi di Unimpresa basata sul Documento di Economia e Finanza, nel 2015 le entrate tributarie e previdenziali saliranno a quota 785,9 miliardi dai 777,2 miliardi del 2014; nel 2016 cresceranno ancora a 818,6 miliardi e poi a 840,8 miliardi nel 2017; nel 2018 e nel 2019 arriveranno rispettivamente a 863,2 miliardi e a 881, 2 miliardi. Complessivamente, nel quinquennio si registrerà un incremento di 104,01 miliardi (+13,38). Aumenteranno sia le entrate tributarie sia quelle derivate dai cosiddetti contributi sociali (previdenza e assistenza).
Per quanto riguarda le entrate tributarie l’aumento interesserà sia le imposte dirette (come quelle sui redditi di persone e società, ad esempio Irpef e Ires), sia le imposte indirette (tra cui l’Iva): le imposte dirette cresceranno in totale di 34,2 miliardi (+14,43) mentre le indirette subiranno un incremento di 45,5 miliardi (+18,43). Il sostanziale giro di vite su Irprs, Ires e Iva sarà pari a 79,4 miliardi (+ 16,36 per cento). La proposta va discussa senza pregiudizi ideologici. La strategia per ridurre il carico fiscale è condivisibile. Se non vuole ridursi ad un’astuta manovra propagandistica, richiede chiarezza con l’Europa, azione efficace contro l’evasione fiscale, valorizzazione dell’Amministrazione finanziaria, rispetto dei diritti dei cittadini.
Sull’Europa l’Italia ha ragioni da vendere. È interessante al riguardo quanto è scritto in un recente Rapporto del Cer di fine luglio: «Favoletta morale o calcoli economici?».
«La Germania ha tratto e trae enormi benefici dalla crisi dell’euro. Non dal suo dissolvimento, ma da una situazione di protratta instabilità che da una parte esalti i fenomeni di flight to quality all’opera nel corso degli ultimi quattro anni e dall’altra consenta di disinnescare i normali meccanismi di riequilibrio macroeconomico. Quest’ultimo punto è cruciale. A partire dal 2010, ossia in coincidenza con l’avvio della crisi dell’euro, la differenza tra il tasso di disoccupazione e l’apprezzamento dell’euro scende al di sotto dello zero, il che dovrebbe segnalare l’avvicinarsi di condizioni di piena occupazione e, di conseguenza, l’accumulo di latenti tensioni salariali.
Di fronte a una tale situazione i meccanismi di stabilizzazione macroeconomica impliciti nelle funzioni di reazione delle banche centrali richiederebbero, già da tempo, un aumento dei tassi di interesse, un apprezzamento del cambio e un riassorbimento del surplus estero. Grazie alla moneta unica questi meccanismi non hanno mai operato: il valore dell’euro è rimasto al di sotto del valore teorico che il marco avrebbe assunto in presenza di avanzi correnti di tali dimensioni. Ma è con la crisi dell’euro che i meccanismi di stabilizzazione macroeconomica vengono, per la Germania, definitivamente aggirati e anzi invertiti. Da un punto di vista generale, perché la crisi ha generato deflazione all’interno dell’Eurozona e ciò ha sopito le latenti tensioni salariali sul mercato del lavoro tedesco; da un punto di vista più specifico, perché grazie alla crisi la Germania beneficia di tassi di interesse storicamente bassi e di un forte deprezzamento del cambio nei confronti degli Stati Uniti e di altre aree. Il risultato è, appunto, l’ulteriore aumento del surplus commerciale che, di fatto, sta alimentando in Germania una vera «bolla manifatturiera».
Questo shift ha legittimato quale priorità di policy nei Paesi in crisi un severo aggiustamento di bilancio: col risultato di impedire politiche anticicliche, ed anzi di forzare politiche direttamente procicliche che hanno colpito severamente la domanda interna dei Paesi interessati sui due lati dei consumi privati e degli investimenti pubblici. «Secondo i principi della razionalità economica–conclude il Rapporto Cer–la Germania ha insomma un forte incentivo a conservare condizioni di instabilità nell’area della moneta unica. È questo il vero azzardo morale che sta esacerbando la crisi nell’Eurozona, rendendola l’area a minor crescita del pianeta e accentuando la divergenza economica tra i Paesi che ne fanno parte, con effetti potenzialmente dirompenti sulla stessa tenuta dell’area valutaria».
Parafrasando Leonardo Sciascia occorre guardarsi dai «professionisti della lotta all’evasione fiscale». Il fisco in Italia è forte con i deboli ed è debole con i forti. Un esempio eclatante è rappresentato dall’inadeguatezza della riscossione. È passata inosservata una risposta data al riguardo dal Governo in Parlamento su questi temi. Al 28 febbraio 2015 il carico dei ruoli in Equitalia, al netto di sgravi, sospensioni e riscossioni ammonta a 682,2 miliardi di euro. Di questi, secondo il Governo, solo il 15 per cento può essere ancora potenzialmente recuperato dall’agente pubblico della riscossione. Se si incrociano i dati del carico dei ruoli ad Equitalia con quelli riportati dall’Esecutivo nella relazione tecnica al decreto attuativo della delega fiscale sulla riscossione, emerge dalla proiezione lineare che a fine anno l’asticella degli incassi da ruolo si assesterà sui 7,8 miliardi di euro e per la metà di questi grazie solo alla rateizzazione dei debiti dei contribuenti.
Ecco l’aggiornamento puntuale dei ruoli tributari non ancora riscossi. L’ultimo dato risaliva al 25 giugno 2013 per un ammontare di ruoli non incassati di 527 miliardi di euro. Ora, dopo due anni, la massa di crediti vantati da Equitalia è salita a 682,2 miliardi ma di questi ben 580,8 miliardi sono inesigibili o quasi, ossia il loro recupero è da considerare impossibile. Ben 127,8 miliardi, pari al 18,7 per cento del totale, sono in procedura concorsuale ovvero legati a soggetti falliti o prossimi al fallimento. Il 44,7 per cento, pari a 304,8 miliardi, sono invece imputati ad azioni cautelari ed esecutive che si sono chiuse senza «soddisfacimento del credito». I nullatenenti invece hanno debiti con Equitalia per 82 miliardi di euro mentre i soggetti deceduti non hanno saldato ruoli per 66,2 miliardi di euro. Di quei 101,4 miliardi di ruoli in lavorazione, almeno 20,7 sono ora interessati dalle rateizzazioni. È evidente la sproporzione tra il dovuto e il riscosso. Se poi ci si riferisce ai bilanci dei Comuni l’area delle inesigibilità aumenta. Al Comune di Roma, per esempio, nel bilancio di assestamento per il 2015, 1,72 miliardi di euro sono stati inseriti nel fondo svalutazioni (960 milioni per multe stradali; 700 mila per canoni non riscossi; 135 milioni per mancati introiti dalla Tares) e così via. La svalutazione verrà spalmata in rate per 30 anni: il sindaco che nel 2044 governerà Roma sarà l’ultimo a pagare l’onere.
Insomma il Fisco deve rispettare lo Statuto del Contribuente e favorire con intelligenza lo sviluppo. Così come occorre mettere in grado le Agenzie fiscali di operare con autorevolezza ed autonomia. Oggi si parla di Resistenza, di Costituzione e tra tanti articoli non attuati è bene ricordare il meno applicato di tutti, l’articolo 53: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Teniamone conto.           

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