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de gasperi e i suoi avversari non pensavano ad elezioni o portafoglio, ma all’idea che avevano di italia

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di ENRICO SANTORO professore, avvocato

 Alcune domande sono d’obbligo. Ma in Italia la crisi è più economica o più politica? Sarebbe troppo facile rispondere: entrambe. Un dato è certo: nella crisi di sistema, davvero impensabile solo qualche anno fa, che inizialmente ha investito l’Europa meridionale e adesso si affaccia timidamente anche più a settentrione, esiste una specificità italiana. La «specialità», per così dire, nostrana, è che alle obiettive cause esterne - che ci hanno fin qui accomunato ai problemi dei Pigs, cioè Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna, lasciandoci spettatori dei successi economici dei Bric, cioè Brasile, Russia, India e Cina - si è aggiunta in Italia una miscela esplosiva che abbiamo gradualmente arricchito di potenza nel corso degli ultimi anni forse senza neanche accorgercene. Lasciamo fuori le vicende inizialmente originate dal crollo finanziario di alcuni protagonisti dello scandalo dei mutui subprime e poi dagli effetti della crisi internazionale del debito su cui ha gioco facile la speculazione finanziaria. Mettiamo a lato spread e spending review. Ad essi provano a pensare Mario Monti e Mario Draghi con scelte che, pur se dolorose, sono da definirsi quanto meno ben ponderate. La miscela specifica che oggi sta generando esplosioni a catena deriva dalla corruzione. La quale ha attecchito su un sistema economico troppo largamente condizionato dalle decisioni della politica. La produzione, il lavoro, le iniziative economiche non sono state promosse sulla base di esigenze poste dal mercato, ma in seguito a decisioni derivate da accordi politici spesso fondati su convenienze particolari. Le rilevazioni del Global corruption barometer creato da Transparency International dicono che l’Italia è negli ultimi posti in Europa per tasso di corruttela, seguita da Romania, Grecia e Bulgaria. Nel 2009 il 17 per cento degli italiani ha riferito di aver ricevuto richieste di pagare una tangente. Il Gruppo anticorruzione del Consiglio d’Europa sostiene che la corruzione in Italia è fenomeno «pervasivo e sistemico». Si aspetta e da più parti si sollecita, anche dagli scranni del Governo, l’approvazione di una legge contro la corruzione. Il provvedimento ritarda ma verosimilmente dovrebbe presto vedere la luce. La corruzione ci costa circa 60 miliardi, si dice. E il suo peso purtroppo genera ulteriori ritardi nell’intero sistema produttivo. Un esempio. Si discute dell’Alcoa, l’azienda che gestisce l’impianto di produzione di alluminio a Portovesme in Sardegna, in via di chiusura per l’eccessivo costo dell’energia elettrica di cui ha bisogno; e che per gli esperti è già da anni un assurdo industriale. Ma gli industriali svizzeri hanno snobbato l’acquisto perché il prezzo di un megawatt di elettricità, indispensabile a quel processo produttivo, da noi è di 60 euro rispetto ai 38 della Germania e ai 36 della Spagna. Fatto è che questi alti costi sono legati alla minore produttività complessiva italiana, che si somma allo spread del malaffare. La burocrazia e le leggi ci affossano: in Italia sono necessari 180 giorni per i pagamenti rispetto ai 65 della media europea; in Italia per costruire un capannone si impiegano 258 giorni rispetto ai 152 della media dei Paesi dell’Ocse, ai 26 degli Stati Uniti e ai 97 della Germania; in Italia il rendimento dell’ora di produzione in 10 anni è salito dell’1,4 per cento rispetto all’11 per cento della media europea. Questa situazione non incide negativamente solo per l’Alcoa o per il settore auto. Uno studio di Intesa San Paolo segnala che riguarda anche l’export del cibo classico made in Italy, che è pari al 19 per cento della produzione contro il 27 per cento di quella tedesca. È un bel guaio perché oggi una spinta alla nostra economia può venire soltanto dalla domanda estera. Gli studiosi de «lavoce@info» segnalano che questa spinta si ottiene agendo sul fronte del cuneo fiscale, degli aumenti di produttività e della moderazione salariale. Su quest’ultima si sofferma l’ultimo studio del Cnel, che ricorda come nel confronto con le altre economie dell’area euro la perdita di competitività è stata del 20 per cento in dieci anni. Tanto che per risalire ora ci vogliono riforme strutturali. Ma chi avrà la legittimità, la fiducia e l’appoggio popolare per varare tali riforme? La Confcommercio ricorda che i consumi sono calati del 3 per cento, l’Ires Cgil dice che il reddito medio è sceso del 3,2 per cento, l’Istat registra un crollo del 17 per cento delle compravendite immobiliari; i cittadini, che sono alle prese con la recessione, ormai non si fidano più di coloro che hanno mandato a rappresentarli. E se economicamente siamo tornati al quadro del dopoguerra, il problema è che mancano le energie politiche per ribaltarlo in positivo. Cadute le contrapposizioni ideologiche, gli elettori rimasti (il tasso di rifiuto della politica supera il 60 per cento) non paiono schierarsi agli opposti in nome di valori divergenti, ma per semplice convenienza o abitudine. Gli eletti sembra pensino solo a se stessi. Le spese folli della Pubblica Amministrazione lasciano inorriditi. Le indennità dei consiglieri regionali crescono in proporzione diretta al tasso di disoccupazione delle loro Regioni. Le spese delle Province lievitano. Qualcuno sostiene che, per eliminare il malcostume, basterebbe eliminare l’oggetto del desiderio, i soldi alle Amministrazioni e ai partiti. Non ci sarebbe nulla da rubare, quindi niente più ladri. Intanto l’Eurispes registra che i delitti registrati dalle Forze dell’Ordine per reati contro la Pubblica Amministrazione sono 3.600 l’anno. E quelli di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato pesano in questo periodo complessivamente per il 42 per cento del totale dei reati contro la stessa, con 10.614 casi su 25.537 denunce complessive. Negli ultimi due anni si sono registrati gli incrementi più significativi. E c’è persino da chiedersi se gli elettori sono specchio di questi eletti. I risultati del recentissimo rapporto Eures denunciano che l’evasione fiscale è tornata ai livelli di 10 anni fa: peggio di noi stanno solo la Turchia e il Messico; e che al 60 per cento le prestazioni di giardinieri, fabbri, idraulici, baristi, pizzaioli, avvocati, geometri, psicologi, insegnanti di ripetizioni private, colf e baby sitter sono al nero. E allora? Dove è finita l’onestà? Si può rispondere che il 70 per cento del campione è favorevole a punizioni severe per gli evasori. Ma non sbaglia davvero don Luigi Ciotti, presidente di Libera, quando dice che l’Italia è in «coma etico». Ed è probabilmente qui il punto centrale del problema: per uscire dal coma occorrono riforme. Ma che siano pensate da una classe dirigente politica credibile. Non questa: troppi componenti dell’attuale classe dirigente politica, che ogni giorno dimostra in maniera devastante a quale tasso di corruttela è arrivata, sono stati probabilmente, diciamo così, talmente impegnati ad arricchirsi da non riuscire a vedere il solco che iniziava a separarli dalla gente. E quindi dovranno pagare il conto uscendo di scena, e lasciando ad altri il compito riformatore. Quest’ultimo comporta progettualità degne della parte sana, che è maggioritaria, di questo Paese. Evoca un Rinascimento come quello proposto recentemente da un imprenditore del Nord-Est che, acquistando tre pagine su grandi quotidiani nazionali, dopo aver ringraziato i componenti della propria azienda per avergli consentito con il loro lavoro di potersi permettere quella spesa pubblicitaria, le ha ben riempite. Come? Con una serie di proposte concrete, a costo zero; con un linguaggio ampiamente condivisibile e in certi passi persino commovente, riprendendo temi a noi cari come il rilancio del turismo e del design made in Italy, dell’internazionalizzazione e della formazione dei giovani, il rifiuto dello spreco e del parassitismo. Un vero e proprio saggio del buono che esiste nel nostro Paese. Qualche esempio? Uno stigma delle vetture di rappresentanza, anche di quelle dell’elefantiaca, improduttiva Confindustria. Una lancia spezzata a favore della concertazione sul modello tedesco; di un patto tra operai e imprenditori. L’idea che l’Italia per salvarsi ha bisogno di una «visione creativa», una stella polare che indichi la rotta a una nave alla deriva per le contrapposizioni tra i membri dell’equipaggio. E poi ancora - ha scritto Gabriele Centazzo condivisibilmente citando l’articolo 9 della Costituzione -, bisogna puntare sulla difesa della bellezza dell’ambiente e dell’architettura, sulla protezione del paesaggio e del patrimonio storico e artistico, sull’innovazione, sull’arte e sul design, che possono essere gli elementi fondanti di questa progettualità neorinascimentale. Attraverso concreti provvedimenti da attuare subito - come ad esempio un’agenzia per la difesa dei brevetti, del design, della tipicità del cibo italiano e che sappia agire su scala internazionale evitando e punendo le contraffazioni su larga scala, essi potranno rilanciare l’internazionalizzazione delle imprese minori e difendere gli asset principali della nostra capacità produttiva. Riscattarsi non è impossibile. Ma con la consapevolezza che il processo non potrà essere breve: il sociologo Giuseppe de Rita esorta a non sottovalutare la vitalità dei territori, dei poli produttivi locali, ma non si nasconde che per sanare i guasti prodotti dal malcostume in questo scorcio di storia italiana ci vorranno molti anni. E in presenza di una classe dirigente capace. Capace soprattutto, aggiungiamo, di leggere le cause vere della crisi in corso, di capire quale può essere il ruolo dell’Italia in Europa e nel contesto mondiale, di comporre armonicamente un «puzzle» con infiniti tasselli che si chiamano disoccupati, imprenditori, anziani, giovani, professionisti, ciascuno con le proprie esigenze. E che per cooperare ed essere inseriti nel posto giusto devono vedere il disegno di fondo. Ecco il punto. La classe dirigente politica che serve oggi deve avere un disegno di fondo. Se è vero che Alcide De Gasperi e i suoi oppositori, nell’ultimo dopoguerra, non pensavano alle elezioni o al portafoglio ma alla loro idea di Italia, è vero che anche nel 2012 senza esprimere una «vision», un progetto preciso di Italia, fondato su valori etici, programmi alti, condivisi, e veri, non si ottiene nulla.

Tags: Novembre 2012 politica Enrico Santoro

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