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il cambiamento va condiviso, non va imposto

Giorgio Benvenuto presidente della fondazione Bruno Buozzi

Ernesto Galli della Loggia in un recente editoriale sul Corriere della Sera denuncia che «troppi italiani si stanno convincendo dell’immodificabilità delle condizioni dell’economia, perché la vedono saldarsi ai mille segni di degrado, di uno sfilacciamento più generale al cui centro c’è un dato nuovo ed inquietante: la latitanza dello Stato. Troppi italiani si stanno facendo l’idea che ormai non possono più contare che su se stessi, e che nessuno più cercherà il modo di far trovare loro un lavoro, penserà a dar loro una pensione, ad assicurargli, con la sicurezza quotidiana, la certezza delle leggi e la sovranità politica. Che nessuno controlla e dirige realmente più niente, che nessuno è davvero al timone del Paese con in mente una rotta, e avendo non solo la visione e la determinazione, ma soprattutto gli strumenti e l’autorità necessari a farsi seguire».
Michele Salvati, sempre sul Corriere della Sera, osserva come sia in corso «una crescente individualizzazione e frammentazione della società, sia sotto il profilo degli interessi che degli orientamenti valoriali. Tutte cause che inducono il passaggio dall’oligarchia prodotta dalla democrazia associativa ad una forte personalizzazione della leadership: gli elettori stanno a casa, sono diventati un pubblico dimezzato di fronte al quale i leader dei partiti (se ancora ci sono: più in generale sono degli imprenditori - direi prenditori n.d.a - ) sciorinano in televisione la loro mercanzia sperando di carpirne il voto, di indurli a comprarla».
Giuseppe De Rita di recente ha scritto che non vanno bene «i tentativi di radunare spicciafaccende e lobbisti; e va ancora meno bene quando si scade a gruppi di indistinti ed improbabili personaggi a grande circolazione mediatica» (un revival dei «nani e ballerine» evocati ai tempi di Bettino Craxi da Rino Formica)». Ed ha auspicato che, «superata l’attuale cattiva forma della rappresentanza, si arrivi a riconoscere la funzione e i meriti del sindacalista di reparto o del dirigente delle rappresentanze datoriali che si spendono per la fidelizzazione degli iscritti, del ‘quadro’ di partito che si sbatte sul territorio e così via; lavori noiosi per carità, ma le giunture che tengono insieme il mondo delle imprese e del lavoro hanno bisogno anche di chi sta ogni giorno sul pezzo».
Lo scenario che si presenta a consuntivo del 2014 è preoccupante; le previsioni per il 2015 sono addirittura allarmanti. Continua, inarrestabile, a scendere il reddito, aumenta la tensione sociale. Manca la consapevolezza. Manca, ancor più della tenuta dell’economia, quella della morale. Non bastano i messaggi di ottimismo. Tutti si rinchiudono nel proprio «particulare», cresce la sfiducia nel futuro; non c’è volontà di intraprendere; si è spenta ogni forma di cooperazione e di solidarietà.
La politica non sembra in grado di contrastare questa deriva. A volte sembra di essere finiti con il naufragio della prima Repubblica sulla zattera della Medusa ove ognuno cerca di sopravvivere a spese degli altri. A volte sembra invece di vivere la «parabola dei ciechi», così come è crudelmente rappresentata nel quadro di Pieter Bruegel.
È in atto una strisciante rivoluzione del linguaggio che rivoluziona e contrappone con disinvoltura giovani e vecchi, moderno ed antico, conservatori e progressisti. Non si possono spegnere i ricordi. Non è vero che ciò che è nuovo sia sempre bello; come non è vero che sia sempre bello ciò che è antico. È certamente moderno semplificare la legislazione, riformare istituzioni deboli come il Senato e le Province, abbassare le tasse, informatizzare la burocrazia e via dicendo.
Ma non è sinonimo di modernità aumentare le tasse sui soliti noti, accentuare il precariato, ridurre i diritti, tagliare le pensioni, colpire la previdenza integrativa. È soprattutto inaccettabile definire il tutto come sacrificio «necessario» o demonizzare ogni critica come una difesa del privilegio. Non è accettabile, ad esempio, continuare a definire virtuosa la politica economica del Governo Monti: sono stati imposti sacrifici ai cittadini senza uscire dalla crisi, aggravando il debito pubblico italiano.
La legge di stabilità per il 2015 è inadeguata. Così come è stata definita, non è anticiclica. Non interrompe il declino del Paese. Il deficit sarà quest’anno del 3 per cento per scendere solo al 2,7 nel 2015. Il deficit strutturale (cioè depurato del ciclo economico) rimarrà sostanzialmente invariato: 0,9 nel 2014, 0,8 nel 2015.
Nell’ultima audizione in Parlamento sulla legge di stabilità il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha riconosciuto che la pressione fiscale passerà dal 43,3 del 2014 al 43,2 nel 2015. L’aumento delle imposte sarà consistente sui redditi Irpef: le Regioni (il Lazio fa da battistrada) tradurranno i 4 miliardi di tagli loro imposti dallo Stato in maggiori tasse locali (da gennaio 2015 le addizionali potranno salire da un punto sino al 3,33 per cento). Il taglio dell’Irap avverrà solo nel 2015, mentre non sarà attuato nel 2014.
Sconcertanti sono alcuni particolari della politica economica. Equitalia non è riuscita e non riesce a riscuotere 545 miliardi di euro di imposte. È un risultato che si è stratificato negli ultimi 14 anni. Il piano di rientro si pone ora l’obiettivo di recuperare qualcosa sulle partite degli ultimi anni, abbandonando di fatto le più vecchie. Il meccanismo prevede di verificare i dati del 2014 entro il 2017 per poi andare indietro anno per anno a partire dal 2018, con un calendario che porterebbe addirittura solo nel 2031 a controllare le richieste avviate nel 2000. È troppo poco. È inadeguato. È ridicolo. È una sproporzione inaccettabile tra i proclami della lotta all’evasione fiscale e gli effetti concreti che si potranno conseguire.
I pensionati, considerati ormai come un capro espiatorio, avranno nel 2015 un incremento di 1,5 euro al mese per le pensioni minime. Una vera e propria doccia fredda, soprattutto se raffrontata con la vera e propria alluvione di aumenti delle tasse e delle tariffe che abbassa da troppo tempo il loro potere di acquisto. Le riforme approvate dagli ultimi tre Governi rimangono troppo spesso lettera morta. Più della metà dei provvedimenti attuativi sono inapplicati. Ne mancano all’appello 429. Altri 189 sono addirittura scaduti.
La realtà è che tutto questo fervore legislativo (proclamato normalmente a parole ma, quando capita, realizzato male, nei fatti) nasconde l’impotenza o l’indifferenza. Una legge sul lavoro in particolare, nel migliore dei casi, non produce effetti; nel peggiore determina conseguenze paradossali. La legge Fornero aveva questo titolo «Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita». Risultato: nel 2013 la disoccupazione ha sfiorato il 13 per cento, soglia che probabilmente raggiungerà anche nel 2014 e dalla quale si schioderà faticosamente solo nel 2015.
I numeri del disastro sono impietosi. A fine 2013 in Italia avevano un lavoro 22 milioni 270 mila cittadini, cioè 25 mila in meno rispetto al mese precedente (novembre) e l’1,9 in meno rispetto a dicembre 2012 (cioè 424 mila posti di lavoro andati in fumo). Il tasso di disoccupazione è preoccupante (12,7 per cento), quello dell’occupazione è tragico (55,3 per cento), quello dell’inattività drammatico (36,5 per cento). Abbiamo poco meno di 3,3 milioni di disoccupati e tra questi i giovani nella fascia d’età tra i 15 e i 24 anni hanno una disoccupazione che sfiora il 42 per cento.
Abbiamo raschiato il fondo del barile anche dal punto di vista dei salari. Secondo la Banca d’Italia fra il 2012 e i 2013 i lavoratori dipendenti hanno dovuto rinunciare a 500 euro in media nelle loro buste paga. E se il salario medio annuo nel 2012 ammontava a 25.130 euro, a fine 2013 era sceso a 24.644. Il 30,8 per cento non arriva a fine mese e il 22,4 per cento deve fare ricorso alle rate per finanziare le spese per cure mediche. Tra i ventisette Stati dell’Unione Europea, l’Italia per «generosità» salariale si colloca al 12esimo posto, sotto la media europea, soprattutto sotto la Germania (-14,6 per cento), il Regno Unito (-13 per cento) e la Francia (-11 per cento). Emigriamo sempre di più: nel 2013 abbiamo segnato un incremento delle partenze pari al 28,8 per cento, e la parte più consistente di questo flusso in uscita riguarda gli under 35.
È indubbio che c’è una crisi di rappresentanza che investe i partiti politici e le parti sociali. È una crisi che si registra in tutti i Paesi maggiormente industrializzati. In Italia è però più evidente. Ha aspetti contraddittori: aumentano gli iscritti, diminuisce la capacità di incidere sulle scelte sociali e politiche. Si restringe l’area di rappresentanza: restano fuori le nuove tipologie dei lavori, sostanzialmente sono assenti i giovani.
Il sindacato rimane condizionato dal passato; ha paura del futuro; continua ad essere, a discutere, a proporre, a lottare come se il tempo si fosse fermato al 1969, all’autunno caldo. Dal sindacato dell’autunno caldo, come temeva Walter Tobagi, si è così via via passati all’autunno del sindacato. Analogo è il declino della Confindustria, meno evidente di quello del sindacato, più sotto traccia, perché meno interessante per la stampa e l’informazione.
Le parti sociali ed in particolare il sindacato perdono potere: non sono ancora in grado di rinnovarsi e di rinnovare le proprie proposte. Da molti anni. Troppi. Non c’è crescita. C’è la recessione. Diminuisce l’occupazione. I giovani rimangono fuori dal lavoro. Aumenta la corsa ad arrangiarsi, al fai da te. L’ex ministro del Lavoro Tiziano Treu ha, in una recente intervista, sottolineato che «non bastano innovazioni organizzative o motivazionali, occorre un riorientamento strategico degli obiettivi che faccia leva sulla crescita di domanda di tutela e di diritti che attraversa il mondo del lavoro. Si tratta di allargare gli orizzonti dell’azione sindacale, di ricorrere a risorse giuridico istituzionali, ad alleanze con altre organizzazioni sociali e politiche, rappresentative di interessi diversi da quelli economici lavoristici, originati dal di fuori dei luoghi di lavoro e radicati in identità personali e sociali di razza, sesso, etnia, disabilità, orientamento sessuale».
Occorrono una presenza e un ruolo del sindacato idonei ai tempi della globalizzazione, della finanziarizzazione, della competitività. È necessaria una vera, profonda rifondazione delle forze sociali, come avvenne nel 1969 con il cambiamento delle politiche rivendicative realizzato da una classe dirigente totalmente rinnovata. Dalla crisi di rappresentanza delle forze sociali si può uscire se emergerà un sindacato unito, nuovo, combattivo, che assomigli a quanto affermava Federico Mancini: «Prima viene il sindacato, il libero aggregarsi dei lavoratori, con la conseguente libera scelta del livello al quale collocare l’attività rivendicativa e la libera negoziazione del contratto; poi, e proprio da queste libere opzioni, nasce la categoria, figlia legittima del contratto collettivo e di esso soltanto, non della legge o di regolamenti ministeriali».
Va riaffermato, anzi riconquistato il primato della contrattazione nei rapporti tra i soggetti sociali. È decisivo. È essenziale. Se la controparte è solo il Governo è inevitabile che il sindacato corra il rischio di diventare partito. Questo spiega perché nell’epoca del bipolarismo prevalga la divisione sull’unità. Tiziano Treu definisce incomprensibile che i sindacati siano ancora divisi. Sembrano spinti da uno spirito suicida. Non sono più portatori di idee. Sembrano spenti. È una crisi, conclude Treu, ancora più grave di quella che vivono i partiti.
Vanno decentrate le relazioni industriali; si deve ritornare alla contrattazione aziendale. La contrattazione confederale non è più in grado di tutelare i lavoratori, di assicurare la competitività delle imprese, di creare le condizioni per lo sviluppo del Paese. Ci vuole una svolta culturale. Troppo forte è ancora il richiamo della foresta. Nel sindacato, come tra gli imprenditori, prevale la logica dello scontro frontale, dell’antitesi, dell’avversario di classe. Non può, non deve essere più così. Come già avviene in altri Paesi, l’azienda deve essere considerata un bene comune dell’imprenditore e dei lavoratori. È interesse reciproco che i conti economici siano in ordine e che l’azienda sia competitiva. Rimarrà sempre uno spazio conflittuale, ma nello spirito di una valorizzazione degli obiettivi quantitativi e qualitativi della crescita. È evidente che la contropartita è l’individuazione di una pari dignità dei diversi soggetti dell’impresa.
In Italia vanno finalmente sperimentati i comitati di sorveglianza e di controllo con la reciproca esigibilità degli impegni concordati. È il modello renano. È quanto è stato realizzato con successo in Germania, nei Paesi scandinavi e in un certo senso nell’industria automobilistica negli Stati Uniti. Ove si è consolidato il modello di partecipazione, il sindacato non è diventato subordinato o remissivo. Si è invece resa possibile una contrattazione di qualità con l’acquisizione di documentazioni essenziali, capace di produrre risultati realistici nell’azione rivendicativa.
Le parti sociali devono avere fiducia in se stesse e nella loro capacità e autonomia di contrattazione. Va abbandonata la cultura antagonista. Va ristretto l’intervento legislativo sui temi del lavoro, limitandolo ad un’attività di sostegno. Va attuato il riformismo concepito in chiave movimentista, capace di affermare l’eguaglianza in una società nella quale deve essere valorizzato il lavoro e la dignità della persona. Le parti sociali così rifondate sono soggetti essenziali nella democrazia.
Il Governo Renzi non può rinunciare al confronto con le forze intermedie. Per modernizzare l’Italia, per fare le riforme, per ritornare ad essere competitivi, per creare le condizioni della piena occupazione non c’è bisogno solo dei pompieri. Servono ora gli architetti. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi non deve approfittare della crisi dei corpi intermedi. Non sono ferro vecchio. Non sono un esempio di archeologia sociale. Non sono un impaccio da sacrificare sull’altare di una crescita evocata come un rito propiziatorio da vanitosi e presuntuosi politici travestiti in maghi dell’economia.
«L’impasse del Paese–osserva Carlo Trigilla–nasce dal fatto che la politica è troppo debole per affrontare la gravità della crisi, ma è sufficientemente forte per ostacolare una soluzione condivisa che passi attraverso un raffreddamento della competizione elettorale, la sordina della politica partigiana, l’avvio di un rapporto fermo ma inclusivo nei riguardi dei corpi intermedi, l’assunzione di una responsabilità collettiva per un tempo non breve, ma necessario per avviare davvero una ricostruzione nazionale».
Renzi deve, dopo la rottamazione, ricostruire, fare sintesi, costringere i propri interlocutori economici e sociali a realizzare il cambiamento. L’occasione non va perduta. Se prevarrà arroganza, presunzione, incompetenza, «solipsismo» non ci sarà sbocco alla crisi economica, sociale, politica, morale, del Paese. Che non sarà governato, si frammenterà, si disarticolerà, si impoverirà: sarà un’immagine perfetta della «Prova d’orchestra» di Federico Fellini.    

Tags: Dicembre 2014 Giorgio Benvenuto Walter Tobagi

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