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funzione rieducativa della pena: il ruolo dello psicologo va potenziato

Il corridoio di un istituto penitenziario

In un sistema democratico l’imputato si presume innocente fino alla sentenza di condanna, dopo la quale assume la condizione formale di condannato ed eventualmente, nell’entrare in un istituto penitenziario per espiare la condanna applicata dal giudice della cognizione, quella sostanziale di detenuto. Nella fase dell’esecuzione - competente ne è il Magistrato di sorveglianza - si aprono molte strade, tutte guidate da un unico strumento: il trattamento penitenziario, una serie articolata di interventi tesi a contrastare gli effetti negativi della detenzione e dell’internamento.
Pregiudiziale è l’attività di osservazione del comportamento e della personalità, per garantire la massima individualizzazione degli strumenti applicati. Di entrambi - osservazione e trattamento - è responsabile lo psicologo che, con altri operatori, è definito «esperto» dall’articolo 80 dell’Ordinamento penitenziario.
In questi articoli - il presente e quelli che seguiranno nei prossimi numeri di Specchio Economico - individueremo le norme che consentono l’esperimento dell’attività rieducativa all’interno degli istituti penitenziari, sorte sotto l’egida del dettato dell’articolo 27, comma 3, della Costituzione, e la rimarcazione delle lacune del sistema. Sarà descritto il trattamento rieducativo come il programma teso a modificare gli atteggiamenti del condannato e dell’internato, che sono stati la causa della sua mancata integrazione sociale, ed analizzate le varie dottrine che incidono sulla visione del condannato e del suo comportamento antisociale. Saranno analizzate le modalità alternative con le quali può essere eseguita la pena e se ne stabilisce il valore dal punto di vista della sicurezza sociale e della maggiore stabilità del sistema nel suo rapporto con la recidiva.
Si esemplificheranno, quindi, gli strumenti che l’Ordinamento penitenziario, introdotto nel 1975 e integrato negli anni, mette a disposizione del sistema carcerario per assicurare al condannato un processo cognitivo ed emozionale completo che gli consenta non solo di comprendere il valore della propria azione criminale, ma anche di inserirsi in un iter di ricostruzione attraverso l’educazione. Si indicheranno le strade dell’educazione formale - quella (più cognitiva) che si ottiene dall’istruzione, dal lavoro intramurario ed extramurario, dalla religione - ed informale - più emozionale, perseguita attraverso creatività e interazione, nonché un più profondo contatto con l’inconscio (è il caso dell’arteterapia, delle attività teatrali e musicali in carcere, dei rapporti con la famiglia e con l’esterno) - e si nomineranno altresì progetti di ricerca-intervento che hanno trovato accesso, diretto o indiretto, negli istituti penitenziari e, quando possibile, se ne valuteranno gli effetti. Nondimeno saranno individuati degli interventi che, realisticamente, prendono atto della difficoltà sociale, del pregiudizio, dell’effettivo reinserimento dell’ex detenuto nel sistema lavorativo ed affettivo e, allo scopo di non rendere vano il percorso evolutivo affrontato nel corso della detenzione, predispongono anelli di giunzione tra carcere e impresa.

La pena alla luce dell’art. 27 della Costit­uzione
La pena assorbe più funzioni, a seconda di come la si interpreti e la si sia interpretata nelle varie epoche storiche. Oggi l’articolo 27, comma 3, della Costituzione enuncia: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Sono la Scuola classica e la Scuola positivista ad aver determinato le due letture chiave: l’articolo 27 risponde ai postulati della Scuola positiva del diritto penale, che respinge la concezione afflittiva della pena postulata dalla Scuola classica («tanto male inflitto per tanto male arrecato») e dà alla pena finalità di difesa sociale nella sua funzione di riadattamento, in accordo con la concezione della responsabilità di fronte alla legge penale.
Prima la Scuola classica, basandosi su una concezione assoluta del diritto, aveva posto a fondamento del diritto penale i seguenti principi: a) il delinquente è un uomo qualunque senza particolari differenze da tutti gli altri; b) la condizione e la misura della pena sono commisurate in relazione alla presenza e al grado del libero arbitrio; c) la pena ha funzione etico-retributiva del male commesso, perciò deve essere assolutamente proporzionata al reato, afflittiva, personale, determinata e inderogabile.
La funzione rieducativa, volta a cogliere l’occasione della condanna penale per perseguire la risocializzazione e il recupero del condannato costituisce anche la ratio giustificatrice delle pene sostitutive (articolo 53 della legge n. 689 del 1981) e delle misure alternative alla detenzione (articoli 47-54 della legge n. 354 del 1975); queste ultime possono evitare al detenuto la permanenza in stabilimenti carcerari (affidamento in prova, detenzione domiciliare) o ridurre la durata della permanenza in carcere (semilibertà, liberazione anticipata per riduzione di pena), come descritto dalla citata legge dell’Ordinamento penitenziario n. 354 del 26 luglio 1975 recante le norme sull’Ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà e dal successivo Regolamento di esecuzione.

Osservazione e trattamento nell’ordinamento penitenziario
Quando si parla di Ordinamento penitenziario si fa riferimento all’apparato normativo che regolamenta il momento della privazione della libertà personale in esecuzione di una sanzione penale, in particolare della legge n. 354. Caratteristica della riforma penitenziaria del 1975 è quella di essere nata da sola, senza che l’opinione pubblica fosse chiamata ad esprimersi, né alcuna dottrina fosse ascoltata. Comunque il testo della legge resta fedele agli intenti rieducativi del terzo comma dell’articolo  27 della Costituzione e rifiuta la tesi dell’irrecuperabilità di taluni quando proclama l’applicabilità del trattamento «a ciascun internato o condannato» (articolo 13 comma 3).
Il ministro di Grazia e Giustizia dell’epoca, Mario Zagari, sintetizzava in cinque note le mete che la legge intendeva perseguire: l’umanizzazione del trattamento; l’efficacia del trattamento; il favorire i contatti con il mondo esterno; la giurisdizionalizzazione dell’Ordinamento penitenziario attraverso il magistrato di sorveglianza, figura indipendente dall’amministrazione cui affidare la supervisione dell’esecuzione penitenziaria; la riduzione della popolazione detenuta mediante l’introduzione di misure alternative alla pena detentiva.
Con queste norme, varate proprio mentre entra in crisi la concezione medico-clinica della rieducazione, il legislatore ha inteso dare importanza alla funzione risocializzatrice della pena soprattutto nella fase esecutiva, considerando il carcere non più come luogo di segregazione e di separazione dalla società, ma come momento di intervento per offrire le strutture materiali e psicologiche necessarie al reinserimento.
I principi fondamentali sono elencati sin dal primo articolo della legge n. 354, intitolato «Trattamento e rieducazione»: innanzitutto, il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Esso è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni su nazionalità, razza, condizioni economiche e sociali, opinioni politiche, credenze religiose. Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva. Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Infine, il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti; si specifica anche: i detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome.
L’articolo 1 del regolamento esecutivo n. 431 del 29 aprile 1976 («Interventi di trattamento») descrive il trattamento degli imputati sottoposti a misure privative della libertà come «l’offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali», e aggiunge: «Il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale».
È possibile una modificazione degli atteggiamenti? C’è un suggerimento nell’articolo 4 sull’integrazione e il coordinamento degli interventi di ciascun operatore professionale o volontario: questi «devono contribuire alla realizzazione di una positiva atmosfera di relazioni umane e svolgersi in una prospettiva di integrazione e di collaborazione».
Il trattamento rieducativo è attuato in base all’articolo 1, comma 6, O.P. «secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti». La metodologia di realizzazione del trattamento è descritta nell’articolo 13 O.P. e consta di tre punti fondamentali: il punto di partenza è rappresentato dai bisogni, dalle carenze del soggetto e dalle cause del disadattamento sociale, il punto di arrivo è costituito dal reinserimento sociale, il tramite tra i due è formato dall’osservazione scientifica della personalità e dalla conseguente offerta di interventi che rappresenta per l’Amministrazione penitenziaria un obbligo di fare.
Il coordinato disposto dell’articolo 27, comma 3, della Costituzione e delle norme dell’Ordinamento penitenziario delinea un sistema di gestione dinamica  dell’esecuzione della pena attraverso l’uso degli strumenti ordinari previsti a tale scopo, rappresentati dalla promozione della redazione e dell’attuazione dei programmi di trattamento per la definizione dei percorsi di reinserimento sociale, e dall’ammissione alle varie alternative alla detenzione.

Il ruolo dello psicologo ex art. 80 o.p.
L’esigenza di una riforma viene avvertita in contesti diversi. In dottrina si discute da tempo della crisi del diritto penale e dei principi fondativi della pena (retributivo, preventivo, rieducativo); tra gli operatori penitenziari è avvertita la crisi della propria identità professionale e l’esigenza di un rinnovato slancio progettuale nell’ambito dell’attività del trattamento. Da parte della collettività proviene una domanda diffusa di maggiore sicurezza che mette in discussione alcune acquisizioni fondanti della riforma del 1975 e, in particolare, il principio della pena flessibile durante la fase esecutiva. Vi sono state, prevalentemente nella magistratura più che tra gli operatori penitenziari, preoccupazioni sul rischio che le misure alternative vanificassero i caratteri essenziali della pena: erano, certamente, alternative a questa, ma dovevano restare penose, mantenere una linea punitiva capace di dissuadere dal ritorno al reato.
L’articolo 80 O.P. ha permesso l’ingresso in carcere di personale «esperto», specializzato, tra cui gli psicologi, ai quali è stato affidato il compito di svolgere attività di osservazione e trattamento sui detenuti. Nel caso specifico l’osservazione ha lo scopo di monitorare il comportamento del detenuto a contatto con la realtà penitenziaria per poter formulare poi un trattamento rieducativo personalizzato, mentre - si è detto - per trattamento si intende la progettazione, da parte dello psicologo, di un programma che miri a potenziare gli aspetti positivi della personalità del soggetto reo, e a colmare le lacune o correggerne gli aspetti devianti in vista di un concreto processo maturativo.
Secondo l’articolo 27 O.P., l’osservazione scientifica della personalità è diretta all’accertamento dei bisogni di ciascun soggetto connessi alle eventuali carenze fisico-psichiche, affettive, educative e sociali, che sono state di pregiudizio all’instaurazione di una normale vita di relazione. Si provvede all’acquisizione di dati giudiziari e penitenziari, biologici, psicologici e sociali e alla loro valutazione con riferimento al modo in cui il soggetto ha vissuto le proprie esperienze e alla sua attuale disponibilità ad usufruire degli interventi del trattamento. L’osservazione è svolta da un gruppo di osservazione che nella prassi e nella letteratura viene individuato con il termine di «équipe», non previsto dalla legge, ma introdotto dal regolamento stesso. Tale organo procede anche alla successiva compilazione e aggiornamento del programma individualizzato di trattamento (articolo 29).
Nell’Ordinamento penitenziario non si parla di trattamenti «psicoterapeutici», ma si incarica il personale «esperto», fra cui psicologi, psichiatri e criminologi, di svolgere le attività su indicate: tra le tecniche rieducative e risocializzanti proposte da uno psicologo rientra anche la psicoterapia, che dimostra di essere un potente e valido aiuto per accogliere le persone e portarle ad attuare significativi cambiamenti di personalità in direzione di una crescita e di un miglioramento della qualità della vita.
Il ruolo di «esperto» non soddisfa la professione: sono oltre 63 mila i detenuti nelle carceri italiane, l’indulto non è riuscito a risolvere il problema del sovraffollamento e, nei primi cinque mesi del 2009, sono stati registrati 28 suicidi. Nonostante la crescita esponenziale del numero dei detenuti, non è stata rafforzata l’assistenza psicologica per evitare casi drammatici. Anzi, per tutta risposta è stato ulteriormente ridotto l’orario di lavoro degli operatori del settore. Oggi circa 500 psicologi, impegnati negli istituti penitenziari italiani, hanno a disposizione 30 minuti all’anno per ciascun detenuto: troppo pochi se si considera il ruolo che lo psicologo svolge nella valutazione del comportamento del carcerato e della presenza dei presupposti per le misure alternative alla detenzione su incarico del magistrato. Nonostante i reiterati appelli da parte dell’Ordine degli Psicologi, insieme al Garante dei detenuti, per aumentare il numero delle ore di lavoro degli psicologi nelle carceri, palesemente insufficienti per garantire un ascolto ed un sostegno efficace, si constata una riduzione ulteriore dell’orario di lavoro e, con essa, si raffigura ancora una pesante sottovalutazione dell’importanza dello psicologo, in un contesto di detenzione divenuto sempre più complesso.
Gli psicologi lamentano il rischio sociale legato alla sottovalutazione dell’importanza del lavoro psicologico nelle carceri, la condizione di precarietà ex articolo 80 O.P. che non ha consentito loro l’accesso al Sistema Sanitario Nazionale, il mancato riconoscimento delle loro funzioni e competenze negli istituti penitenziari, la continua riduzione dell’orario di lavoro e l’impossibilità di svolgere funzioni che contribuiscono alla sicurezza riducendo le tensioni nelle carceri e contenendo il rischio di recidiva.
Lo svilimento del ruolo dello psicologo nelle carceri e la riduzione delle risorse destinate alla Sanità penitenziaria sono la conseguenza di una nuova concezione di sicurezza, non più intesa come prevenzione del rischio e reintegrazione del detenuto nella società, ma come negazione della soggettività attraverso l’etichettamento e l’esclusione, fattori che alimentano la criminalità piuttosto che garantire la sicurezza. Questi consulenti concorrono alla valutazione della pericolosità sociale dei detenuti richiesta dalla Magistratura per la concessione delle pene alternative alla detenzione e al difficile compito - reso obbligatorio anche da recenti leggi per autori di reati ad alto allarme sociale - di restituire alla società civile persone consapevoli delle ragioni del danno arrecato e garantire alla collettività la correttezza dei propri comportamenti.
Ad oggi, la condizione dello psicologo penitenziario è quella di chi da 30 anni lavora con un rapporto precario e atipico, definito di consulenza, ma che di fatto ha le caratteristiche di un rapporto continuativo-subordinato, per l’utilizzo da parte del Ministero della Giustizia della sua competenza senza riconoscerne la natura e la specificità. Non meno grave l’assenza di assistenza sanitaria di natura psicologica ai detenuti (tranne i tossicodipendenti, seguiti attraverso il Ser.T.) conseguente all’esclusione formale degli psicologi dalla Sanità penitenziaria, come non avviene nella realtà della pratica professionale. Ciò appare paradossale, in un momento in cui le condizioni di vita in carcere per il sovraffollamento e la riduzione di prospettive future legate all’inasprimento del sistema penale hanno determinato l’aumento del disagio psichico e dei suicidi. L’ascolto e l’attenzione alla persona sono oggi sostituiti dall’uso massiccio di psicofarmaci.
La Società italiana di Psicologia penitenziaria ha di recente evidenziato come la legge e il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena siano divenuti sempre più inapplicabili per carenza di professionalità, sia specifiche (criminologi ed educatori hanno poche ore), sia aspecifiche, come per il personale di Polizia penitenziaria che, investito anch’esso dalla legge di compiti di osservazione e trattamento, ha difficoltà a garantire persino la sola peculiare funzione di sicurezza.
La pena, se non è accompagnata da un trattamento penitenziario che canalizzi in modo costruttivo le energie e da un lavoro psicologico capace di facilitare la revisione critica, la consapevolezza e la riparazione del danno arrecato, può sortire un effetto opposto a quello previsto dalla Costituzione. Suicidi e aumento della recidiva sono l’inevitabile conseguenza della disattenzione verso il trattamento in carcere, che si va traducendo in un sempre maggiore allarme sociale e in insicurezza per la collettività.
L’esperienza della riforma penitenziaria del ‘75, dalla sua approvazione, è stata positiva, contribuendo a creare all’interno degli istituti penitenziari un clima di maggiore vivibilità e una minore conflittualità rispetto al passato. La normativa penitenziaria, tuttavia, non ha trovato facile attuazione: da un lato, si giudica superata la riforma e si predica il ritorno a una pena retributiva; dall’altro, se ne denuncia la parziale applicazione richiedendosi la rimodulazione del trattamento progressivo attraverso le misure della liberazione condizionale prima, e della semilibertà dopo, unico criterio rispondente alla finalità rieducativa della pena.  

 

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Tags: Giugno 2014 Romina Ciuffa psicologia carceri funzione rieducativa della pena

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