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IN EUROPA SI PUò MORIRE DI AUSTERITà. IL FISCO ITALIANO UCCIDE LE ATTIVITà

MAURIZIO DE TILLA, presidente dell’anai, associazione nazionale avvocati italiani

Si può anche «Morire di austerità». È questo il titolo di un libro di Lorenzo Bini Smaghi, economista, membro del Centro per gli affari internazionali dell’Università di Harvard, presidente della Fondazione Strozzi. In Italia le manovre di risanamento che si sono succedute negli anni hanno principalmente mirato a ridurre il disavanzo pubblico dal lato delle entrate, nonostante che le principali cause del deficit fossero collegate all’aumento tendenziale della spesa pubblica e all’insufficiente crescita economica.
Le misure dell’austerità attuate dalla politica italiana con l’aumento dell’imposizione fiscale sono le più dannose per l’attività economica, anche se sono quelle più facili da realizzare. La Germania ha ribadito il concetto che senza il rigore non c’è crescita. Ma il rigore non può essere eccessivo, né può riguardare gli interventi sociali, specie quelli sull’occupazione. Diminuire il costo del Welfare può far risparmiare qualche soldo, ma incrementa vertiginosamente il disagio e l’emarginazione, che costituiscono la prima ragione del malessere del nostro Paese.
Bisogna, quindi, fare molta attenzione a un uso anomalo dell’austerity. In Italia la situazione è drammatica. A tal punto che si è così denunciato: «Crisi, rabbia e sfiducia. Anche la democrazia adesso è a rischio!». Cresce la disoccupazione e aumenta a dismisura il lavoro precario che ha toccato incisivamente anche i settori del lavoro autonomo e delle professioni. Bisogna correre ai ripari. Ma la situazione non è delle più semplici. L’Europa è spaccata. Un numero crescente di cittadini dei Paesi economicamente più forti si chiede «perché dovremmo pagare per gli altri Paesi», e un numero crescente di cittadini dei Paesi economicamente più deboli si chiede «perché lasciamo che ci sfruttino».
L’economista e politico tedesco Thilo Sarrazin, nel libro «L’Europa non ha bisogno dell’euro», incalza affermando che la moneta comune è nata troppo presto e non sta portando i benefici auspicati. Nouriel Roubini, insieme a Stephen Mihm, nel libro «La crisi non è finita», osserva che l’Unione economica e monetaria europea era stata pensata per dare all’Europa stabilità e unità; gli Stati membri avrebbero ceduto il controllo della politica monetaria alla Banca centrale europea, aderendo al patto di stabilità e crescita, che poneva chiari limiti alle dimensioni dei disavanzi fiscali. In teoria l’adesione all’Unione economica e monetaria europea avrebbe dovuto costringere i Paesi membri a intraprendere riforme strutturali e a favorire una convergenza delle condizioni economiche tra gli Stati aderenti.
Ma ciò non poteva bastare. Nessuna unione valutaria è mai sopravvissuta senza che vi fosse anche un’unione fiscale e politica. L’Eurozona è priva di forti meccanismi di condivisione degli oneri fiscali. Rispondendo alle formulate obiezioni di autorevoli economisti, i sostenitori dell’Europa si affannano a trovare soluzioni che possano dare maggiore efficacia all’Unione Europea proponendo nuove regole per la necessaria Unione politica.
Ma non tutti auspicano una forte Unione dell’Europa. Un fatto è, per altro, certo. Di fronte alla crisi economica e al rischio di caduta dell’euro la Germania ha avuto ed ha un ruolo di potenza economica con una valenza politica decisiva. La Germania ha affrontato una sfida positiva con la riunificazione delle due Germanie, Ovest ed Est, che ha risolto con eccezionali risultati e con lo spirito di sacrificio dell’intero popolo tedesco. Il rischio è oggi che si vada incontro ad un’«Europa tedesca», che è anche il titolo di un libro del sociologo Ulrich Beck.
L’autore fa rilevare che la formula «Europa tedesca» è una verità che non si può pronunciare. Meglio dire che la Germania «si assume la responsabilità» dell’Europa. Ma quale responsabilità? E come si deve esplicare? «Responsabilità» non può significare certamente imporre ai singoli Stati l’incremento della pressione fiscale o la riduzione del welfare, o tagli ai diritti dei lavoratori, o annientamento del lavoro e delle imprese. Un’«austerity» irrazionale e violenta può determinare sconvolgimenti e forti tensioni sociali che bisogna scongiurare.
«Responsabilità» significa accompagnamento ragionevole di una politica nazionale che tuteli i diritti e raffreddi i contrasti, con la finalità di raggiungere al più presto una pacificazione sociale. Nell’ambito della propria responsabilità la Germania - che ha avuto non pochi vantaggi economici dall’euro - dovrà cooperare per un’Europa più unita e solidale, senza una sua particolare egemonia.
La saldezza (e la salvezza) di un’Europa più politica che monetaria si raccorda necessariamente con le radici culturali e umanitarie delle nazioni europee che devono stringersi in un’intesa che sia diretta ad obiettivi di largo respiro, scongiurando così la catastrofe. È proprio Niccolò Machiavelli, ricordato da Ulrich Beck, ad ammonire che «le crisi facilitano l’accumulazione del potere, ma in determinate circostanze possono portare anche alla sua rovina».
Beck parla, paradossalmente, di Merkiavellismo. La Merkel non è molto solidale con gli europeisti, i quali chiedono che la Germania assuma impegni vincolanti di aiuto, e dall’altro verso non appoggia la fazione degli euroscettici, i quali vogliono negare ogni aiuto. L’inclinazione della Merkel è verso il non-agire, il non-agire ancora, l’agire più tardi, in una parola l’esitare. La sua posizione non è un chiaro sì né un chiaro no, ma un «ni» giocato al poker del potere. Alla domanda «s’elli è meglio essere amato che temuto», Machiavelli risponde nel «Principe»: «Si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perché gli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de due».
Nella sostanza la Germania si oppone a un’unione politica e sociale. In Francia si alternano perplessità e proposte. Il premier francese Jean-Marc Ayrault ha manifestato le proprie perplessità su una scelta federativa che deve fare i conti con «quanto trasferimento di sovranità» gli Stati membri sono in grado di accettare. I nodi da sciogliere sono: il coordinamento delle politiche economiche, l’armonizzazione fiscale, la nascita di una politica comune industriale, il rilancio dell’Europa sociale.
L’individuazione dei temi fatta da Ayrault è puntuale. Ma spiace constatare che su ciascuno dei nodi da lui enunciati esistono posizioni diverse e contrastanti in Europa. C’è, infatti, chi pretende di «partecipare» al processo democratico europeo con una posizione di egemonia assoggettando le politiche economiche degli altri alle proprie esigenze di dominio. Riguardo all’armonizzazione fiscale, bisogna fare i conti con i diversificati deficit di bilancio e con l’esistenza di una molteplicità di Stati membri che praticano politiche fiscali di esenzione e di tassazione privilegiata.
L’Europa sociale, poi, mal si concilia con le diverse regolamentazioni del mondo del lavoro e della previdenza e con le resistenze o le «fortezze» erette da alcuni Paesi in relazione al fenomeno dell’immigrazione.
In realtà la Cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente della Repubblica francese François Hollande non sono sinceri. Non dicono nulla sulla bocciatura della Costituzione europea avvenuta con il referendum in Francia e in Olanda nel 2005, che conteneva principi di largo respiro basati sulle radici dell’unità europea. Non dicono nulla perché si è ripiegato sul Trattato di Lisbona che dà grande spazio alle identità nazionali e attenua o preclude qualsiasi esteso e decisivo passaggio politico.
Nel 2005 si sbagliò clamorosamente e oggi se ne pagano le conseguenze. Intanto l’Europa degli Stati nazionali ha vanificato quel necessario riequilibrio e quella dovuta redistribuzione che un’Europa politica poteva da tempo compiutamente realizzare superando differenze e classificazioni che non sono più tollerabili.
L’impegno leale e veritiero di tutti deve essere finalizzato al superamento di una concezione di Europa solo monetaria che non tiene conto delle disuguaglianze tra Nord e Sud ed anzi ne sottolinea le differenze, senza tener conto della decrescita delle aree più deboli e delle conseguenze di una crisi che attraversa drammaticamente il Mezzogiorno d’Europa.   

Tags: Maggio 2014 libri Maurizio de Tilla fisco

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