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QUALE MARKETING PER L’ENOGASTRONOMIA ALL’ESTERO?

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L’Italia è tra le destinazioni turistiche più ambite. Se prima i turisti venivano per l’arte e qui scoprivano il cibo, oggi vengono per assaporare i nostri prodotti e una volta a casa li cercano, facendo scattare il meccanismo giusto per il nostro export

Devono amare molto l’Italia e i suoi prodotti Slawka G. Scarso, Luciana Squadrilli e Rita Lauretti. Hanno tutte infatti intrapreso percorsi professionali differenti che le hanno però portate a operare nello stesso settore e acquisire una notevole esperienza, cosa che ha loro consentito di scrivere la prima guida sul marketing dei prodotti enogastronomici all’estero, per fornire alle aziende Made in Italy consigli e strumenti strategici per i mercati stranieri, grazie a molta teoria e pratica che si ritrovano nel volume. Qui rispondono a una serie di domande sulla loro pubblicazione.
Domanda. Quali le difficoltà più comuni per un imprenditore che voglia vendere all’estero?
Risposta. Le difficoltà non sono poche ma possono essere attenuate se si procede con un’attenta analisi delle opportunità e una corretta valutazione di quel mercato. I principali problemi nascono, infatti, dall’aver sottovalutato eventuali normative, le modifiche richieste dall’importatore nelle etichette o nel packaging, elementi che devono essere vagliati non solo in termini economici ma soprattutto di fattibilità. A questo si aggiunge che spesso in azienda non c’è nessuno che sia in grado di conversare e trattare con un interlocutore estero in inglese.
D. A cosa si deve secondo voi il sempre maggiore interesse per i prodotti agroalimentari italiani?
R. Il crescente interesse verso i prodotti agroalimentari italiani è probabilmente correlato al boom che sta avendo il turismo enogastronomico a livello mondiale e al fatto che, secondo il Food Travel Monitor 2016, l’Italia sia tra le destinazioni più ambite. Se prima i turisti venivano in Italia per l’arte e qui scoprivano anche il cibo, oggi in tanti vengono proprio per assaporare i nostri prodotti. E, una volta tornati a casa, li cercano anche nella propria città, facendo scattare uno dei meccanismi più importanti per il nostro export.
D. Quali gli effetti dell’e-commerce sulla vendita tradizionale e sul marketing di prodotti agroalimentari?
R. In realtà sarebbe indispensabile tener conto delle differenti culture, non possiamo generalizzare. Va detto però che i prodotti agroalimentari hanno un forte elemento esperenziale e bisogna tenerne conto anche nell’e-commerce che deve in qualche modo compensare, nella struttura dei contenuti del sito ma anche nella user experience, l’assenza di un contatto diretto con il prodotto e con il produttore o negoziante.
D. Cosa cercano i consumatori stranieri rispetto agli italiani?
R. All’estero c’è sempre maggiore consapevolezza dei prodotti italiani e la cultura enogastronomica sta evolvendo molto. Il ruolo dell’importatore/distributore è fondamentale nel passaggio delle informazioni al proprio cliente, il retailer, e da questo al cliente finale. La corretta informazione giustifica anche un prezzo finale mediamente più alto rispetto alla media: per un cliente negli Stati Uniti è capitato di dover far apporre sul barattolo di pomodori un’ulteriore etichetta che raccontasse la storia familiare e la filiera chiusa a km 0 del prodotto, per enfatizzarne la qualità e motivarne il costo finale.
D. Quali possono essere le strategie per trovare buyer?
R. Rintracciare i nomi di buyer o importatori non è poi così difficile: internet è una miniera d’oro. Più ostico è attirare la loro attenzione e aprire un canale di comunicazione. Gli importatori ricevono moltissime offerte ed è molto raro che possa bastare un contatto gestito solo via mail. Più facile, una volta individuati diversi nominativi, tentare di organizzare una serie di appuntamenti direttamente da loro. Visitare la possibile azienda importatrice e incontrare di persona il potenziale acquirente è molto utile, sia in termini commerciali sia di marketing, e accresce la cultura del «saper esportare». È molto importante individuare non solo i canali e le modalità di distribuzione ma anche le persone giuste con cui collaborare in Paesi diversi dal nostro: buyer e importatori saranno i nostri compagni d’avventura ed è fondamentale trovare quelli più affini a noi e ai nostri prodotti. Una volta individuati, poi, bisognerà riuscire a farli «innamorare» dell’azienda e del progetto complessivo che la anima, facendo conoscere loro a fondo prodotti e filosofia in modo che sappiano poi interpretarla e raccontarla al meglio, all’occorrenza. Bisogna creare insomma un rapporto duraturo e stabile, fondato su conoscenza e fiducia reciproca.
D. Quale importanza ha all’estero la comunicazione dei prodotti agroalimentari?
R. La comunicazione è naturalmente fondamentale come per ogni attività e settore merceologico, e nell’andare oltre i confini nazionali assume risvolti ancor più cruciali. In questo caso, infatti, non ci si limita a comunicare il prodotto in sé o il brand ma anche tutti quegli elementi «accessori» però fondanti dell’identità aziendale e dell’immagine del prodotto che – ancor più che in altri settori – non possono prescindere dal legame con il luogo d’origine, con la storia e la «faccia» di chi lo realizza, della tradizione (o anche dell’innovazione, se è il caso) che lo rende unico e desiderabile. Mentre nella comunicazione verso il mercato di origine alcune di queste cose si possono comunicare in maniera più veloce o più «emozionale» perché alcune conoscenze e percezioni sono ormai condivise – per esempio, se parlo di pomodorini del Vesuvio non ho bisogno di spiegare dove si trova agli italiani, se parlo di tartufo d’Alba non ho bisogno di giustificarne il valore aggiunto - rivolgendosi a mercati «nuovi» bisogna modificare in parte i messaggi e come vengono esplicitati. Questo non vuol dire però adattarsi a usi ed esigenze degli altri Paesi modificando la propria identità e il proprio stile. Bisogna invece trovare il modo di «tradurre», letteralmente ma anche culturalmente, i propri messaggi fondanti rendendoli comprensibili e allettanti anche per un pubblico diverso. In questo i social media e i mezzi di comunicazione digitale aiutano tantissimo a raggiungere pubblici lontani e diversificati ma vanno appunto maneggiati con cura, affidandosi a chi conosce le specificità dei singoli Paesi.
D. Ritenete che Eataly abbia dato una svolta al commercio di prodotti italiani all’estero, e in che senso? 
R. L’aspetto più interessante del progetto di Farinetti è proprio quella rivolta all’estero: Eataly ha avuto, e ancora ha, un ruolo importante nel portare all’estero non solo singoli prodotti di nicchia che magari avrebbero avuto difficoltà ad arrivarci per conto proprio ma anche come simbolo e presidio di un made in Italy di qualità e «forte», per quanto spesso metta fianco a fianco prodotti di grande pregio e di fattura artigianale con prodotti di stampo industriale. Poi, è ovvio che si tratti di un progetto commerciale e non culturale e che non ci si debba aspettare che sia Eataly a promuovere il comparto nel suo insieme a livello istituzionale, spettando questo ad altre realtà come enti e consorzi.
D. Che ruolo ha l’export manager?
R. È l’ambasciatore dei prodotti all’estero, la front line dell’azienda e pertanto deve essere in grado di trasferire con competenza e passione le informazioni. Purtroppo molte delle aziende agroalimentari, in particolare le piccole e le medie orientate più sulla qualità, non hanno ancora chiaro il ruolo chiave dell’export manager o di un consulente esterno che si occupi di sviluppare le strategie di marketing internazionale. I produttori partecipano occasionalmente a fiere all’estero, anche grazie ai contributi pubblici, poi però non sanno dare seguito ai contatti commerciali acquisiti durante questi incontri. L’export manager ha un ruolo determinante, se ben coadiuvato, per dare ossigeno e sviluppo alle eccellenze agroalimentari.
D. Quanto è importante partecipare alle fiere e perché?
R. Partecipare a fiere internazionali è molto impegnativo per un’azienda, tanto dal punto di vista economico che di risorse umane, specie se di piccole dimensioni e a conduzione familiare, ma è di grande importanza soprattutto quando si tratta di Paesi o mercati in cui sta iniziando ad affacciarsi. Le fiere rappresentano un prezioso momento di incontro fisico e di creazione di contatti potenzialmente molto interessanti, oltre ovviamente a permettere di far assaggiare e valutare direttamente il prodotto stesso. L’ideale sarebbe quindi investire sulle fiere soprattutto quando si entra in un nuovo mercato, approfittandone per conoscerlo più da vicino, e poi lavorare tramite web per mantenere contatti e affermare la presenza dell’azienda in uei Paesi dove si è presenti commercialmente.
D. Quali sono, per vostra esperienza, le differenze tra e-commerce via pc e via mobile/tablet?
R. Le differenze ci sono ma cambiano molto da Paese a Paese. Cambia l’occasione di consumo, il tipo di prodotto/servizio che si cerca online o via mobile. In alcuni Paesi, come la stessa Italia ma anche in Asia, la penetrazione dei device mobili è molto più alta che in altri e questo ovviamente influenza anche le occasioni e le modalità di acquisto. Inoltre gli acquisti via mobile/tablet vengono spesso fatti all’interno di un’app e non dal browser del device, e questo implica un’esperienza più immersiva.
D. Quali sono gli elementi per una customer experience di successo?
R. Come già detto, cibo e vino hanno una forte connotazione esperenziale, perciò la customer experience online è molto importante. Il successo è dato dai contenuti a corredo dei prodotti, da semplicità di acquisto e affidabilità dei sistemi di pagamento e delle spedizioni.    

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