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Corsera Story. Via Solferino ovvero spending review nelle redazioni

L'opinione del Corrierista

Che deve pensare un appassionato lettore del Corriere della Sera dell’appello lanciato lo scorso mese dal Comitato di Redazione agli azionisti e agli amministratori del Gruppo RCS, per «fermare la svendita di Via Solferino», sede storica del giornale, al fondo americano Blackstone? Che deve pensare questo lettore, dopo quanto in questi mesi ha letto su usi e costumi dei giornalisti del maggiore quotidiano nazionale? Usi e costumi non molto diversi da quelli dei Gruppi politici dei Consigli regionali e dei loro leader, finanziati con i contributi pubblici, provenienti cioè dalle tasse pagate da tutti i contribuenti.
Proprio il Corriere della Sera o meglio i suoi giornalisti hanno indagato e scritto per anni sui politici, alimentando la definizione dispregiativa di «casta», quasi affiancata a mafia, ‘ndrangheta, banda, cricca ed altri termini così edificanti per lettori ed elettori. Il linguaggio colorito che i giornalisti sanno adoperare quando scrivono sugli altri, con la crisi finanziaria che ha colpito anche il Gruppo editoriale del Corriere della Sera si è rivolto a loro danno. Infatti, per non perdere i consistenti benefici di cui hanno finora goduto, e in via di eliminazione o riduzione a causa della drastica ristrutturazione imposta dagli azionisti, le attuali «firme» e strutture sindacali del Corriere si sono dovute appigliare alle rimembranze, fare ricorso alla storia del palazzo che ha ospitato le più grandi, illustri, leggendarie, ma ormai scomparse firme del giornalismo italiano.
Quando io entrai nel mondo giornalistico nazionale, ricevetti subito un primo insegnamento: disprezzare gli amministrativi, ossia i dirigenti non giornalisti. Disprezzare significava e comportava che costoro non dovevano assolutamente mettere bocca sui contenuti giornalistici, quindi sui tempi impiegati, sulle modalità, sulle spese derivanti dalle decisioni della redazione, ossia dei giornalisti. Gli amministrativi raccomandavano di rispettare gli orari di stampa del giornale per farlo giungere al più presto in edicola? Per fare in tempo a caricarlo su treni e aerei in partenza? Per far scattare le flotte di furgoni in attesa con i motori accesi?
Esigenze, raccomandazioni e pretese giustificate, perché la puntualità significava anche vendite, lettori, incassi e quindi retribuzioni per tutti, editori, giornalisti, poligrafici. Ebbene, la cultura vigente tra noi era un’altra: poco importava perdere i treni o gli aerei, purché il giornale fosse migliore, più ricco di notizie; purché contenesse qualche «esclusiva» che i concorrenti non avevano, uno scoop che corrispondeva ad un «buco» degli altri. E questo anche a danno delle copie vendute e dei bilanci finanziari. Un principio che induceva i giornalisti a lavorare di più per battere appunto i concorrenti, ad essere spietati e bugiardi con i colleghi, ad escogitare tranelli e trabocchetti, a praticare continui depistaggi.
Sia pure lentamente, però, le ragioni della «cassa» cominciarono ad avere il sopravvento, affidate alle cure di amministrativi sempre più preparati, esigenti, disponibili più verso gli interessi degli editori che verso la fama e la carriera professionale dei giornalisti. Debbo dire che, negli anni trascorsi al Corriere della Sera, vidi aumentare il contrasto tra le due teorie: privilegiare la qualità o la puntualità del giornale? Gaetano Afeltra, vicedirettore del brillante giornale del pomeriggio del Corriere della Sera, ossia il Corriere d’Informazione, era disposto a perdere, come talvolta perdeva, treni ed aerei, ma nella qualità il suo giornale batteva tutti; Michele Mottola, vicedirettore del Corsera, metodico, preciso, inarrestabile, assomigliava a un carro armato, più che un giornale sembrava dirigere un orologio svizzero.
Man mano, però, gli amministrativi presero il sopravvento, e questo fu il lontano inizio della grave crisi in cui si dibatte oggi la carta stampata, compreso il pur grande, inaffondabile, corazzato transatlantico chiamato Corsera, a rischio non certo di affondare ma di imbarcare tanta acqua, ovvero perdite, dalle numerose falle apertegli intorno appunto dai nuovi amministrativi, costituite dalla flottiglia di testate passive servite solo per assumere i raccomandati della politica e della finanza. Un Corriere, insomma, diventato una RaiTv di carta.
Assunto all’epoca da una redazione romana spartana, sobria, risparmiatrice, le cui spese venivano occhiutamente controllate e gestite da un giornalista anziano con lo stesso rigore, obiettività e distacco con cui scriveva le cronache politiche, cioè Virginio Enrico, ho sempre cercato di fondere i due principi della qualità e della puntualità, ossia della sobrietà e del risparmio aziendale. Non ho mai chiesto un aumento di stipendio; un giorno che a Milano, nel Palazzo di Via Solferino, chiesi di conoscere Giuseppe Colli, il grande amministratore del Gruppo ossia dei tre fratelli Crespi editori del Corriere, quando finalmente fui ammesso alla sua presenza in un salone vastissimo in fondo al quale egli sedeva con un registro aperto fra le mani, appena mi vide entrare disse: «Ma lei Ciuffa, lo sa che guadagna troppo?» «Sono venuto solo per conoscerla e salutarla», gli risposi, e per sempre ammutolii. Un aumento non richiesto, però, alcuni anni dopo l’ebbi: 10 mila lire al mese, pressoché niente.
Oggi il Comitato di Redazione lancia proclami, manifesti, comunicati, inviti per bloccare la vendita del palazzo di Via Solferino. Mi viene da domandare: non sono stati proprio i giornalisti, con i benefici esagerati, a provocare questa crisi? 25 anni fa un redattore della Redazione romana scriveva un articolo al mese che, rapportato allo stipendio, costava all’azienda circa un milione di lire, molto più di un articolo di Alberto Moravia.
Disistimo tuttora gli amministrativi moderni chiamati manager, che ho visto intenti ad aumentare più le spese che le copie vendute. A Roma hanno imposto ingiustificati cambi di sede, dispersione di tutti i costosi arredi interni, inutili ed eccessivi esborsi per progettare e allestire nuove redazioni; e in generale assunzioni e super-retribuzioni a raccomandati dell’establishment politico ed economico. Ma ho visto anche semplici cronisti che, indottrinati da esempi così clamorosi, triplicavano i rimborsi spese. Gli sprechi non debbo raccontarli io, ma devono confessarli quei giornalisti che chiedono ora di salvare la sede di Via Solferino. Ma che hanno fatto loro in tanti anni, se non imitare tanti consiglieri regionali?         Victor Ciuffa

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