ertharin cousin: wfp, va insegnata resilienza per arrivare a «fame zero»
Se la resilienza è, in biologia, la capacità di un ecosistema inclusi quelli umani come le città o di un organismo, di ripristinare l’omeostasi, ossia la condizione di equilibrio del sistema, in psicologia essa fa riferimento alla capacità di affrontare le avversità della vita. La nomina moltissime volte Ertharin Cousin, dal 5 aprile 2012 direttore esecutivo del WFP, il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, la più grande organizzazione umanitaria mondiale che si occupa di assistenza alimentare contro la fame.
Prima, nel 2009, era stata nominata dal presidente Barack Obama ambasciatrice degli Stati Uniti presso le Agenzie agroalimentari delle Nazioni Unite nonché capo della missione Usa per le agenzie Onu a Roma; l’avevamo intervistata in quella veste. Il Wfp, che da sempre ha sede a Roma, fa parte del polo agroalimentare delle Nazioni Unite insieme alla Fao, l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura e all’Ifad, il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo. In Italia, il World Food Programme gestisce anche la base di pronto intervento umanitario delle Nazioni Unite, situata a Brindisi.
Per oltre 25 anni Ertharin Cousin si è occupata dei temi della fame, dell’alimentazione e delle strategie di sviluppo: sia in qualità di responsabile dei rapporti tra la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato sotto la presidenza di Bill Clinton, periodo in cui è stata nominata al Board for international food and agricultural development, sia alla guida della missione diplomatica Usa, nella quale in particolare si è impegnata ad individuare aiuti che includessero una transizione dal soccorso allo sviluppo. Tra le principali crisi seguite in prima persona figurano il terremoto del 2010 ad Haiti e i programmi nazionali di «agricoltura sostenibile», in particolare in riferimento alle inondazioni del 2010 nel Pakistan e alla siccità del 2011 nel Corno d’Africa.
«Ho iniziato nell’aprile 2012, quindi neanche un anno e mezzo fa, e ho finora visitato circa 30 Paesi–dichiara prima di tutto–. Lo scorso anno il WFP ha provveduto a sfamare oltre 97 milioni di persone, ma ancor più indicativo è aver assistito i Governi a rafforzare la loro capacità di provvedere da soli alle popolazioni. Importanti anche i programmi ‘Food for work’ e ‘Food for asset’, che abbiamo sviluppato. Il nostro obiettivo non è solo nutrire le persone ma soprattutto renderle capaci di sostentarsi da sole». Da qui comincia l’intervista di Specchio Economico.
D. Come si riesce a raggiungere tale obiettivo?
R. Abbiamo programmi in 80 Paesi e impieghiamo vari strumenti. Distribuiamo cibo dove non c’è. Un buon esempio è la Siria, teatro di un sanguinoso conflitto. Lo scorso luglio abbiamo lavorato per fornire assistenza alimentare a tre milioni di persone: il cibo c’è, ma non è accessibile perché non si hanno risorse per comprarlo. Forniamo dei voucher grazie ai quali le persone possono acquistare ciò di cui hanno bisogno per sfamarsi. Esempio di ciò sono i rifugiati che dalla Siria si recano in Libano e in Turchia, dove sono presenti comunità molto attive con mercati dinamici e cibo disponibile. Non avrebbe senso da parte nostra portare generi alimentari dove sono già presenti e in vendita in mercati e drogherie, ma i rifugiati non hanno nulla se non quello che indossavano durante la fuga, e senza risorse non possono comprare del cibo.
D. Come intervenite per i bambini?
R. Abbiamo programmi di nutrizione scolastica nelle comunità più vulnerabili del mondo. Al momento ci occupiamo di fornire cibo a 24,7 milioni di bambini, ci concentriamo nel fornire assistenza alimentare mirata nei primi mille giorni di vita, dalla gestazione al secondo compleanno, perché sappiamo bene che non ricevere la corretta nutrizione in questo periodo impedisce lo sviluppo delle piene potenzialità fisiche e mentali. Inoltre non si può avere un bambino sano, e un adulto sano, se non si ha una madre sana: bisogna prima assicurare ad essa una dieta adeguata, cosicché possa fornire al bimbo la necessaria nutrizione nei primi sei mesi di allattamento. Aiutiamo le ragazze, le quali, una volta donne, non potranno avere gravidanze sane se sono state malnutrite.
D. Qual’è la base comune dei programmi del WFP?
R. Tutti i nostri programmi mirano a costruire la resilienza, anziché semplicemente fornire contanti o cibo alle popolazioni. Così si creano gli strumenti e le competenze dell’individuo, che altrimenti è vulnerabile agli shock che lo rendono ancora più bisognoso ogni volta che non piove, o che il raccolto non cresce; od ogni volta che il clima incide sull’abilità di procurarsi il cibo. Un buon esempio è ciò che stiamo facendo in Niger: lavoriamo con le donne per dare loro voucher o contanti, ma non è semplice elargizione di denaro per accedere al mercato del cibo. Collaboriamo piuttosto per sviluppare le strutture a disposizione della comunità, come i bacini di raccolta dell’acqua.
D. Perché proprio questi bacini?
R. Quando termina la stagione delle piogge, essi saranno pieni d’acqua e ciò aiuterà a far crescere un nuovo raccolto che potrà essere venduto. Avere un bacino d’acqua potenzia i mezzi a disposizione della popolazione che, in questo modo, ha sufficienti risorse per nutrire i propri figli con cibo sano, fino alla nuova stagione del raccolto. Creiamo un reddito sostenibile per le famiglie in modo che non solo coltivino prodotti e guadagnino vendendoli, ma abbiano anche entrate stabili per assicurare ai bambini un’alimentazione salutare e per permettersi di far fronte ad altri bisogni primari. È questa la differenza, il cambiamento che cerchiamo di apportare nelle popolazioni più vulnerabili.
D. In quale altra maniera conseguite la sicurezza alimentare?
R. Abbiamo anche programmi per quei Paesi dove si avvertono maggiormente gli effetti negativi dei cambiamenti climatici: aiutiamo famiglie che non hanno accesso al mercato alimentare mediante la formula del ‘Food for work’, in modo che abbiano cibo in cambio di lavori utili alla comunità, come la costruzione di una strada che dal villaggio porta al mercato. Oggi, per noi del WFP è importante collaborare con i Governi ed assicurarci che stiamo sviluppando gli strumenti atti a realizzare un mondo a fame zero. Ma ciò non accadrà finché non diamo alle famiglie l’opportunità di sostentarsi da sole e non aiutiamo i Governi a sviluppare la sicurezza alimentare, per assicurare nel lungo periodo l’accesso al cibo.
D. Per voi è una nuova maniera di lavorare?
R. Il World Food Programme ha inaugurato questo metodo nel 2008, prima del mio insediamento, quando il Consiglio esecutivo ha autorizzato il passaggio dall’aiuto alimentare, ossia dal semplice rifornimento di cibo, all’assistenza alimentare mediante lo sviluppo e l’impiego degli strumenti finora descritti. Quello che invece abbiamo provato a fare nei passati 12 mesi, da quando sono arrivata, è garantire una buona capacità di consegna ad ogni livello di uno strumento innovativo necessario alla nostra missione.
D. Come collaborate con i Governi?
R. In quanto organizzazione delle Nazioni Unite li assistiamo con il nostro lavoro e riconosciamo che nessuna istituzione, che sia una Ong o un Paese donatore, può impartire direttive che riguardino il destino di uno dei Paesi o delle comunità con cui collaboriamo. Spetta a loro decidere in prima persona del proprio futuro. Ciò che noi facciamo è lavorare per realizzare i loro programmi con gli strumenti che possiamo fornire. Molti Paesi oggi hanno leader preparati a definire piani per lo sviluppo di una cultura della sicurezza alimentare. Non hanno, però purtroppo, un sistema istituzionale che li aiuti nell’attuazione di questi piani. Noi interveniamo fornendo tali servizi e assistenza per assicurare che la visione di un Governo o del leader di una comunità sia realizzabile. In altre parole, se un Paese si sta impegnando per assicurare la giusta nutrizione ai bambini e alle persone più vulnerabili, sosteniamo questi programmi e forniamo consulenza su specifici piani che, se attuati, possono aiutare a raggiungere l’obiettivo di nutrire i più deboli tra la popolazione. Spesso questi leader hanno la visione e la lungimiranza, ma non gli strumenti o le risorse finanziarie. In ogni caso devono essere gli Stati stessi a indirizzare le politiche; non sarebbe accettabile che noi intervenissimo con un programma e poi ce ne andassimo. Tornerebbe tutto come prima. Ma se invece il Paese è impegnato, così come la gente e le comunità, la riuscita di questi programmi è molto più probabile.
D. Come affrontate le conseguenze del cambiamento climatico?
R. Sappiamo che una proporzione significativa delle crisi nel mondo oggi è dovuta ad esso, e sappiamo anche che nel 2050 essa sarà ancora maggiore. La realtà è che sono i più deboli e i poveri a subire maggiormente gli effetti del cambiamento climatico. Ecco perché ci concentriamo sui meno abbienti che soffrono la fame, oltre che sulle attività per far crescere la resilienza delle popolazioni più indifese, quali la già citata costruzione di bacini idrici o di orti come fatto in Etiopia; o qualunque altra opera alla cui realizzazione collaboriamo con le comunità, in risposta alla grande necessità di sicurezza alimentare del giorno d’oggi. Il World Food Programme non può apportare le trasformazioni politiche necessarie per contrastare il mutamento climatico; ciò che può fare è fornire i mezzi ai più deboli per ridurne l’impatto. Sollecitiamo anche il potere politico affinché affronti tali problemi posti dal cambiamento climatico. Dobbiamo tutti essere preoccupati, non solo coloro che soffrono fame e malnutrizione.
D. Quanto durerà l’emergenza siriana?
R. Noi possiamo solo rilevare la mancanza di decisioni politiche, sollecitando fortemente chi detiene il potere politico a trovare soluzioni rapide per evitare altre vittime. Ci sono donne e bambini sfollati tre o quattro volte da quando è iniziata la crisi, costretti a spostarsi da un luogo all’altro e sono ora senza fissa dimora. Sono stata recentemente a Damasco, una città che tre anni fa prosperava mentre ora la strada per arrivarvi è piena di case, negozi, edifici bombardati, e non puoi fare a meno di chiederti: «Dove sono andati gli abitanti?». Molti di essi si trovano nei cinque Paesi confinanti, in campi per rifugiati e in comunità; spesso quattro o cinque famiglie convivono nello stesso appartamento. Intanto stiamo aumentando il numero di persone cui forniamo assistenza alimentare: lo scorso giugno erano 2 milioni e mezzo, in luglio sono diventate 3 milioni, entro ottobre calcoliamo di assistere in Siria 4 milioni di persone, e progettiamo di dar da mangiare a quasi 3 milioni di persone fuori dalla Siria. Abbiamo già iniziato la pianificazione per il 2014. Purtroppo i donatori tradizionali hanno già i loro problemi finanziari. Temiamo per gli altri milioni di persone cui provvediamo, e siamo preoccupati per l’impatto che la guerra in Siria avrà sulla disponibilità dei fondi da destinare ad altre parti del mondo. Non dovremmo essere costretti a dare la priorità a un bambino affamato piuttosto che a un altro. L’assistenza alimentare in Siria e nei paesi limitrofi ci costa 30 milioni di dollari la settimana.
D. Come collaborate con i Paesi in via di sviluppo?
R. Siamo molto soddisfatti dei progressi compiuti da alcuni di loro: per esempio dal Brasile che è diventato un nostro donatore, oltre a impegnarsi molto per arrivare esso stesso al livello di fame zero. In Brasile è sorto un Centro di eccellenza sulle politiche contro la fame a cui fanno riferimento altri leader internazionali che vogliono apprendere dall’esperienza brasiliana. Abbiamo colloqui in corso con ogni Stato, dalla Cina allo Zambia, al fine di usare le loro esperienze per aiutare altri ad andare avanti e compiere progressi, perché non è solo la nostra esperienza con i Paesi in via di sviluppo che può aiutare a raggiungere l’obiettivo di un mondo senza fame, ma anche le loro conoscenze in merito.
D. Cosa pensa dei picchi esistenti tra obesità e fame?
R. Abbiamo approssimativamente un miliardo di obesi nel mondo e 870 milioni di persone malnutrite, spesso queste diverse popolazioni convivono nello stesso posto. Purtroppo a causa della crescita economica si adotta una dieta occidentale. Sappiamo che il rischio di malattie croniche è serio tanto tra le persone che soffrono l’obesità quanto tra quelle che soffrono la fame; così come l’impatto sul prodotto interno lordo causato dalle malattie e dalla mancata produzione economica. Quando parliamo di fame zero, sottolineiamo entrambi questi temi, sia la sovranutrizione che la malnutrizione o la fame.
Tags: Settembre 2013 agroalimentare alimentazione Giosetta Ciuffa sprechi alimentari food sicurezza alimentare alimenti Ertharin Cousin WFP - World Food Programme