stampa compiacente. ma enrico letta non ne avrebbe bisogno
L'editoriale di Victor Ciuffa
Dinanzi a una platea, non molto numerosa in verità, di giornalisti, nell’auletta dei Gruppi della Camera dei deputati a Roma, l’antivigilia dello scorso Natale il presidente del Consiglio Enrico Letta, rispettando la tradizione delle conferenze stampa del Capo del Governo di fine anno, si è abilmente destreggiato, con consumata saggezza ed esperienza, nel rispondere alle domande di privilegiati interlocutori. Del resto non era difficile; le loro domande, appunto perché di privilegiati, sembravano tutte concordate, non ve n’erano due uguali o simili.
Il sospetto era più che logico, visto che l’Ordine nazionale dei giornalisti, promotore dell’iniziativa, si era premurato di chiedere, agli aspiranti partecipanti, di accreditarsi tre giorni prima. Per cui si sapeva anticipatamente chi sarebbe intervenuto, e per quale giornale. Tanto che a chi si era accreditato nel mattino stesso del 23, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri e che si è presentato un’ora e mezza prima dell’inizio della conferenza, la segretaria di Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine dei giornalisti co-promotore dell’evento, rifiutava l’accesso affermando di avere avuto disposizioni in tal senso dal suddetto presidente.
C’è voluto l’intervento di Palazzo Chigi, ossia della presidenza del Consiglio, per far entrare chi, non essendo stato avvertito prima, non si era accreditato il venerdì precedente. E tra questi era proprio un ex giornalista parlamentare, definito tempo fa da Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera, «fuori del coro» e «corrierista a vita», avendo lavorato 36 anni appunto nel Corriere della Sera. Ero io.
Il contenuto delle domande, poi, a un osservatore attento è apparso subito «compiacente». Ma Enrico Letta non aveva proprio bisogno di nessuna compiacenza della stampa, perché, da come ha risposto alle domande e anche da quello che ha detto senza esserne richiesto, è apparso un gigante, un leone capace di sbranare quei quattro caprioli e quelle quattro antilopi presenti. Letta, chiamato premier dai conduttori tv ignoranti di diritto costituzionale in quanto non è un premier, ma un presidente del Consiglio, cioè un primus inter pares, ha così dimostrato la sua grande esperienza politica e abilità dialettica, solitamente ignorate a causa del suo atteggiamento prevalentemente riservato.
Nonostante la sua consumata esperienza e abilità che dimostra ogni giorno, deve fare però i conti con una serie di tranelli, trabocchetti, imboscate e condizionamenti attuati in quel caravanserraglio del Parlamento. Non può non capire che la trasformazione dell’Imu in una costellazione di tasse è solo un inganno per i contribuenti, come pure la trasformazione delle province in città metropolitane o meglio in consorzi di Comuni. Non può non sapere che cambiare il nome di istituti e istituzioni non significa affatto riformarle, piuttosto significa aggravarne i difetti perché certi politici non attendono altro per estendere il loro potere e la loro durata in politica, come dimostrano le varie leggi approvate dal 1990 apparentemente a favore dei cittadini, in realtà per sottrarre i politici a nuove inchieste tipo «Mani Pulite» e per ripetere impunemente i misfatti degli ultimi anni della Prima Repubblica.
Un’altra trasformazione in arrivo semplicemente cambiando le apparenze ma blindando ancor più il «potere al potere» è la prospettata riforma del Senato. Per manometterlo i riformatori lo definiscono un doppione inutile, ma nessuno di loro spiega perché esiste e qual’è la sua funzione. I padri della Costituzione non pensarono di creare un doppione per dare più posti e prebende ad aspiranti politici nazionali; stabilirono che per essere eletti senatori occorrevano almeno 40 anni d’età. Perché il Senato doveva controllare, ratificare, bocciare o modificare provvedimenti approvati da deputati più giovani, sicuramente meno esperti e più avventurosi, ossia pericolosi per la libertà di tutti e per la difesa dello Stato di diritto. I politici di oggi non vogliono abolire il Senato ma solo trasformarne le modalità di accesso attraverso l’elezione dei senatori da parte delle Regioni, istituzioni che hanno dimostrato negli ultimi tempi mancanza di sensibilità politica, di rispetto delle leggi, di correttezza nella gestione di immense risorse finanziarie. Che deve pensare un cittadino comune? Che non c’è più alcuna differenza tra consiglieri regionali, deputati e senatori, ossia che sono tutti della stessa pasta. Nella suddetta conferenza stampa di fine anno 2013 il giovane presidente del Consiglio Enrico Letta ha insistito su una constatazione: è in corso un ricambio generazionale, come dimostrano la sua nomina a Capo del Governo e quelle di Matteo Renzi a Segretario del maggior partito della sinistra, e di Angelino Alfano a vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno; e chissà quanti sono i giovani, nuovi dirigenti di partiti anche nei più sperduti Comuni d’Italia.
Grazie alla Costituzione repubblicana e agli uomini politici di centro, destra e sinistra dei primi decenni post-bellici, si è avuto un lento ma continuo e spesso inavvertito cambiamento; dopo il degrado morale della politica che causò tangentopoli e la fine di quel sistema, le riforme attuate dai politici hanno blindato quella che Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo chiamano la «casta», guadagnandosi l’accusa di essersi con questo arricchiti; non è così, hanno lavorato sodo attirandosi odio e rappresaglie.
L’insistenza di Letta sul rinnovamento generazionale avviato non elimina, però, i timori e le prospettive, se non la certezza, che l’esercito dei disonesti in politica e nelle pubbliche amministrazioni riesca a bloccare il rinnovamento, a blindare se stessi e i loro sistemi di corruzione e arricchimento illecito. È triste pensare al 25 aprile 1945, quando la classe politica al potere nel ventennio fascista, odiata dal popolo per i profitti di regime, per il trattamento riservato agli ebrei, per la guerra dichiarata e perduta, fu fisicamente eliminata da veri o pseudo partigiani. La cosiddetta «casta» odierna che non c’era, o non ricorda, o finge di non ricordare dovrebbe risparmiare all’Italia, a se stessa, alle proprie famiglie le brutte avventure cominciate proprio un secolo fa, nel 1914, e terminate in quel tragico 25 aprile 1945.
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