Il nostro sito usa i cookie per poterti offrire una migliore esperienza di navigazione. I cookie che usiamo ci permettono di conteggiare le visite in modo anonimo e non ci permettono in alcun modo di identificarti direttamente. Clicca su OK per chiudere questa informativa, oppure approfondisci cliccando su "Cookie policy completa".

primi in polemiche politiche mentre altri ci scippano il futuro

di Enrico Santoro  professore, avvocato

Questa Italia «pasticciona» rischia di vedersi portar via sotto il naso anche le residue speranze di potersi rilanciare sulla scena economica degli anni a venire. L’abbiamo vista, e purtroppo ai massimi livelli, attardarsi su polemiche politiche, giudiziarie, diplomatiche, senza accorgersi - tanto per dirne una - che non ha ancora usato 30 dei 49,5 miliardi di fondi destinati dall’Europa al nostro Paese da spendere fino a dicembre 2013 e che potrebbe perderne definitivamente 5 di essi in quanto assegnati a progetti che non riescono ad essere ultimati.
Mentre crollano i muri di Pompei e il Colosseo chiude per sciopero del personale malpagato, è paradossale apprendere che migliaia di euro vengono destinate a sagre paesane. Mentre regioni problematiche come Campania, Calabria e Sicilia per tre anni non hanno presentato progetti di spesa a loro vantaggio. Mentre l’intero Sud ha utilizzato appena il 36 per cento dei fondi a disposizione, il Centro Nord il 49 per cento. Con Roma che deve ancora spendere il 60 per cento dei suoi soldi che sommati ai cofinanziamenti - ossia alle risorse proprie da conferire per aver diritto al contributo dell’UE, ammonterebbero a 30 miliardi.
Disattenzioni del genere sono davvero gravi in piena crisi di liquidità. Quando i costruttori, secondo il dato presentato alla loro assemblea annuale dello scorso luglio, si dicono complessivamente in credito di 19 miliardi verso il settore pubblico e sottolineano che nel 2013 i soldi dovuti alle aziende edili dalla Pubblica Amministrazione - piovra spesso inefficiente, arrogante, farraginosa nelle procedure e in più di un caso fannullona -, sono stati restituiti con 235 giorni di ritardo effettivo medio: un record che pone l’Italia, sotto questo aspetto, tra i peggiori Paesi d’Europa.

 

DEBITI PA: 91 o 120 MILIARDI?

La Banca d’Italia ha quantificato in 91 miliardi il totale dei debiti della  Pubblica Amministrazione, ma uno studio della CGIA di Mestre, che raggruppa artigiani e piccole imprese, alza la stima a 120 miliardi: non c’è da stupirsi se negli ultimi 5 anni questi ritardi abbiano provocato una percentuale crescente, dal 25 al 31 per cento, di aziende fallite. Circa 15 mila persone giuridiche sono state uccise da crediti non riscossi; da un tasso di affidabilità precipitato, secondo l’Adn Kronos, del 40 per cento; da una difficoltà obiettiva ad onorare gli impegni che riguarda 7 imprenditori su 10; da un calo da 45,2 a 43,2 per cento dei partner che saldano le fatture nei tempi previsti.
Quando però mancano i soldi per garantire l’ordinario equilibrio economico non ci si può davvero permettere di sprecare le risorse europee alla cui formazione peraltro tanto contribuiamo pro quota come cittadini europei. Ma le sviste purtroppo si moltiplicano:  tra poche settimane dovrebbe essere creata presso le Camere la squadra di tecnici economici di caratura internazionale, di esperti di finanza pubblica indipendenti e autonomi dal Governo, incaricata di dare corpo all’istituzione dell’Ufficio parlamentare di bilancio. Ma non si sa ancora nulla. Intanto la crisi si aggrava.
Nei primi cinque mesi dell’anno per la Banca d’Italia il debito pubblico è cresciuto di 86 miliardi toccando 2.074,7 miliardi; l’Eurostat sancisce che il rapporto fra il debito pubblico e il prodotto interno è al 130 per cento. L’Ocse dice che l’Italia resta intrappolata nella recessione e la disoccupazione salirà al 12,5 per cento; l’Istat rivela che i poveri arrivano a 9,5 milioni e quelli assoluti sono 4,8 milioni. Molti osservatori, probabilmente condannati a seguire e commentare dati e cronache del genere, non fanno neanche in tempo ad accorgersi che qualcuno ha ipotizzato per il nostro Paese un default entro sei mesi.
Allarmismi, si dirà. Eppure, considerando che il rischio è paventato anche nell’ambito di un rapporto di Mediobanca Securities, che doveva restare riservato, è bene alzare le antenne sul difficile momento in cui ci troviamo. Gli analisti hanno notato che il mercato trova più appetibili i titoli pubblici italiani che dovranno essere rimborsati tra vari anni rispetto a quelli che scadranno a sei mesi. Ciò potrebbe creare paura di insolvenza e alimentare tensioni, acuite dal momento difficile attraversato dalle banche italiane che si traduce in credit crunch.
Le banche non prestano più volentieri il denaro. Temono che non verrà restituito. Hanno garanzie reali - immobili - il cui valore decresce: e Mediobanca simula un’ipotesi di calo del 45 per cento delle poste di bilancio a copertura dei mutui e degli affidamenti concessi. Ciò metterebbe a repentaglio i parametri di Basilea individuati per garantire la solidità delle aziende finanziarie. Ma se anche lo scenario dovesse rivelarsi effettivamente allarmistico in prospettiva, nella sostanza i timori si traducono in nuove occasioni di riduzione delle risorse indispensabili alla ripresa economica.

 

SERVE UNA RAPIDA CURA.

Non basta nominare la catastrofe per esorcizzarne gli eventuali effetti. Sapere che Portogallo e Grecia sono già sull’orlo dell’abisso non consola nessuno. È arrivato il momento di chiamare a raccolta le idee utili per uscire dal sacco in cui siamo finiti. E soprattutto renderci conto che da soli, ossia senza l’Europa, piaccia o non piaccia, non siamo in grado di venire a capo della recessione più lunga della nostra storia recente. Soprattutto se la classe dirigente politica continua a dare prova di insipienza, per non dire di peggio.
Per rialzare la testa l’Italia deve assolutamente trovare - e subito - i soldi che le servono. Ma si tratta di decine e decine di miliardi. Non che i milioni risparmiati limando i costi della politica vadano sottovalutati, anzi tutto fa brodo. Ma il momento è grave e richiede una risposta adeguata. Una proposta «forte» è stata ventilata proprio nel rapporto Mediobanca Securities cui abbiamo fatto cenno: potremmo ricavare 75 miliardi applicando alla finanza lo stesso carico fiscale che subiscono gli immobili. Altri 43 potrebbero venire da un prelievo una tantum sul 10 per cento più ricco della popolazione.

 

L’UNA TANTUM.

Esclusa l’ipotesi di ulteriori tasse sugli immobili, soprattutto in mancanza di un equo censimento e aggiornamento del Catasto, l’una tantum salverebbe le esigenze di trovare i «dobloni» per il rilancio. E un’ipotesi quantomeno «ardita», eppure un’idea analoga è stata recentemente rilanciata da Vincenzo Manes sulle colonne del Corriere della Sera. Il suo «Progetto Italia» consisterebbe in una tassa dell’1 per cento sulla ricchezza finanziaria che è pari a 3.300 miliardi: oltre 30 miliardi per creare un IRI delle imprese sociali attive nel turismo, nella valorizzazione del patrimonio artistico e ambientale, nel settore sociale.
Spesso vediamo in ambito sanitario, assistenziale, culturale, educativo, l’inefficienza del pubblico e l’efficienza di imprese minori e cooperative di giovani. Ecco. Una simile ipotesi potrebbe dare fiato all’imprenditoria giovanile rivolta a settori di intervento che lo Stato si è rivelato incapace di coprire: si creerebbero lavoro e prospettive per settori che per l’Italia possono essere davvero strategici e risolutivi, in virtù del patrimonio che solo noi possediamo. La ricchezza tassata all’1 per cento rifiorirebbe in un’economia rilanciata, ma forse si creerebbero scontenti.

 

LA RICETTA DELL’UNICREDITO.

Altre idee forse migliori emergono: gli italiani non si rassegnano al tracollo. Di sicuro appeal è quella avanzata alla Commissione Finanze della Camera dal direttore generale dell’Unicredito Roberto Nicastro. Essa si fonda su un «inedito» dato di partenza: quello del debito pubblico implicito che è calcolato sugli impegni futuri di uno Stato, come ad esempio le pensioni che dovranno essere pagate nei prossimi anni. Ebbene, considerando questo dato, l’Italia uscirebbe dall’elenco dei Paesi peggiori e si troverebbe in acque persino migliori della Germania
Sommando debito esplicito e implicito l’Italia avrebbe un debito del 146 per contro il 193 della Germania, il 338 della Francia e il 496 dell’Olanda: si spiegherebbero allora le valutazioni degli investitori considerate da Mediobanca. Ma, soprattutto, si potrebbe stanziare un fondo di 50-70 miliardi capace di ridare fiato al sistema bancario e di mobilitare 100 miliardi di nuovi crediti verso imprese in difficoltà e start up giovanili, grazie a strumenti come il Fondo centrale di garanzia e i Confidi, che avrebbero il ruolo di «pivot» in questo nuovo «new deal». Su 100 euro di nuova finanza, ha spiegato al riguardo Roberto Nicastro in una recente intervista, l’imprenditore contribuirebbe per il 33 per cento. Gli altri due terzi verrebbero rispettivamente dal Fondo e dalla Banca, secondo una nuova logica di assunzione condivisa di responsabilità. Tale logica, nel settore immobiliare, potrebbe rinnovare il destino di 700 mila case invendute, un patrimonio che, assegnato ai giovani con contratti atipici, potrebbe trasformarsi in garanzia per banche coraggiose e attente a scommettere sulle nuove generazioni.
Al malato Italia però non basta la creatività, serve una cura radicale, che non lo uccida, però. Il divario crescente tra aumento del debito e diminuzione del prodotto interno è destinato a mettere in serio imbarazzo chi deve vegliare sui conti pubblici e fornire rassicurazioni sul rispetto degli impegni assunti con il fiscal compact e con i nostri partner europei. Un dato al riguardo: nel 2012 la somma pagata dall’Italia per interessi sul debito è stata pari al 5,4 per cento del prodotto interno, rispetto al 5 della Grecia, al 4,4 del Portogallo e il 4,3 per cento dell’Ungheria.

 

I GIOIELLI DI FAMIGLIA.

Bisogna quindi riprendere il controllo della spesa pubblica. Non dimentichiamoci che la deroga ricevuta da Bruxelles ci dice che possiamo temporaneamente risparmiarci di perseguire anche nel  2013 il pareggio strutturale di bilancio, ma non possiamo comunque pensare di permetterci un disavanzo superiore al 3 per cento. E non c’è da stupirsi che inizino a rincorrersi con crescente insistenza voci circa una possibile alienazione di quote di imprese pubbliche come Eni, Enel e Finmeccanica, anche se prima di vendere i gioielli di famiglia ci si penserà.
I sindacati hanno già escluso tale ipotesi, ma intanto è stato calcolato il valore di una trentina di asset societari che potrebbero essere considerati «collaterali per operazioni finanziarie», ossia contenuto di un fondo che potrebbe emettere bond alleggerendo il debito. Questo controvalore arriverebbe, secondo l’Istituto Bruno Leoni, a 130 miliardi di euro. Da tale cifra andrebbero escluse le società strategiche, ma potrebbero esservi inclusi gruppi come Poste e Ferrovie con le opportune riorganizzazioni, mentre le società in perdita sarebbero liquidate con vendita separata degli asset.

 

L’IDEA DI PAOLO SAVONA.

Parlando di dismissioni, appare efficace anche l’idea recentemente rilanciata dal prof. Paolo Savona, che l’ha elaborata in sintonia con altri docenti come Giuseppe Guarino, Michele Fratianni e Antonio Rinaldi. Essa punta a creare un freno sostanziale ai comportamenti speculativi dei mercati: il che merita plauso oltreché attenta valutazione in tempi di up grading da parte delle agenzie di rating nei nostri confronti; è di poche settimane il super criticato e intempestivo declassamento a BBB operato dalla Standard & Poor’s ai danni dell’Italia.
Per l’ex ministro dell’Industria del Governo Ciampi ci vorrebbe un consolidamento dell’intero debito pubblico con sua trasformazione in titoli a 7 anni - garantiti da un patrimonio pubblico che ha un valore calcolato nel 2011 in 2 mila miliardi -, con interessi ricalcolati ogni anno in proporzione alla crescita del costo della vita, dotati di un warrant, ossia di un’opzione a venderli sul mercato o a trasformarli nel bene soggiacente a garanzia. Così, mantenendo il pareggio di bilancio per i 7 anni previsti nel piano, il Paese potrebbe risparmiare 30 miliardi di interessi sul servizio del debito pubblico accumulato.
Certamente di maggiore impatto, anche perché emanazione degli economisti di uno dei partiti che compongono la maggioranza di Governo, è la proposta del Pd di abbattere il debito pubblico dagli oltre 2 mila a 1.600 miliardi portando in 5 anni il rapporto con il prodotto interno dal 130 al 100 per cento. Come? Vendendo circa 100 miliardi di beni pubblici, cedendo per altri 50 miliardi società per le concessioni demaniali, ricavando 230 miliardi dalla vendita a una newco di una porzione di beni dello Stato che li acquisterebbe emettendo obbligazioni garantite dai beni stessi.
Proposta choc e di indubbia efficacia, se si riuscisse ad attuarla. Non è facile però. Su un patrimonio di circa 250-300 miliardi la società che si incaricherà di passare dalla parole della legge ai fatti del mercato, presieduta da Vincenzo Fortunato, ne ha censiti 350 ma ancora le procedure e le contrattazioni devono partire. Meglio del nulla, ma ancora è presto per cantare vittoria, anche perché gli impegni assunti firmando il fiscal compact impongono all’Italia di tagliare il debito pubblico di 45 miliardi l’anno per 20 anni. Strada davvero ripida.
Questa tabella di marcia forzata è già scritta e dovrebbe condurre al traguardo di un debito pubblico pari al 60 per cento del prodotto interno, com’era ai tempi in cui l’escalation esponenziale della sua crescita ancora non si era sviluppata. Il primo problema riguarda però il come ci si arriverà. Il secondo non meno importante è capire come evitare ricadute in presenza di livelli di evasione fiscale «irraccontabili», di tassi di recupero di quest’ultima irrisori, di segmenti di economia non ufficiale per non dire criminale, così articolati e diffusi sul territorio. Ma questa è un’altra storia.

 

EVITARE LA MARGINALITÀ.

Non possiamo però permetterci di ignorarla perché ne va della nostra capacità di restare al centro del mondo sviluppato.  Secondo quanto è stato rilevato in un recente articolo sul Corriere della Sera dall’ex ministro Vittorio Grilli, autorevoli proiezioni dicono che già oggi l’Italia è esclusa dai Paesi europei presenti tra le 7 economie più importanti del mondo, e che tra una quindicina di anni, uscita la Francia, nell’alto consesso resterà solo la Germania. Il punto di snodo è, quindi, diventato quello di evitare la condanna alla marginalità. Tutto questo deve spingerci a reagire.
Con l’export ad esempio, come suggerisce la Cabina di regia creata dai Ministeri economici e degli Esteri, dalle principali organizzazioni imprenditoriali come l’Abi, l’Unioncamere, la Confindustria, la Rete Imprese Italia e la Conferenza delle Regioni. Le risorse che negli ultimi anni si sono create nei popolosi Stati del continente asiatico cresciuti in modo esponenziale tornerebbero qui con la vendita dei nostri prodotti presso di loro. Enti come l’Ice, la Sace e la Simest possono avere un ruolo strategico in questa direzione, per il rilancio economico.
I negoziati tra USA e UE, che puntano a eliminare le barriere tariffarie a livello transatlantico, avvantaggerebbero l’Italia più di altri Paesi europei, ma è necessario che venga immaginata un’azione coordinata di analisi capace di condurre le aziende italiane - sia quelle produttrici che quelle esportatrici -verso i loro mercati elettivi, quelli complementari per le loro attività.  Un’elaborazione dell’Ice, su dati di Eurostat, Commissione europea e CSC, sostiene che l’export nel 2015 potrebbe arrivare a rappresentare il 33 per cento del prodotto interno, arrivando a 545 miliardi.
Altro target è il recupero dell’evasione fiscale, dei singoli e delle imprese. L’Ocse al riguardo ha proposto ai Paesi del G20 un piano di 15 misure che puntano ad una riorganizzazione dei sistemi di tassazione. Era ora. Critiche aspre hanno bersagliato grandi società che sono state capaci di ridurre al 3-4 per cento il loro onere tributario sfruttando in modo ineccepibile norme contraddittorie. Ma nel mondo globalizzato, se si vuole evitare l’uso spregiudicato di escamotage che ostacolano lo sviluppo, occorre puntare su progetti di armonizzazione fiscale.
A breve sapremo qualcosa di più preciso. In ogni caso è diventato prioritario agire in chiave europea. Nel mondo di domani l’Italia da sola è una briciola. L’Europa unita potrà competere a livello planetario con i colossi cinese, indiano, russo, brasiliano e statunitense. Potrà farlo solo cercando una strategia economica comune, che deve estendersi alle politiche di difesa e di lotta alla disoccupazione, ai provvedimenti di welfare e di omogeneità fiscale.  «Le terapie applicate in modo frammentato» non possono funzionare.
Questo giudizio è ampiamente condivisibile. Com’è anche condivisibile l’affermazione dell’ex ministro Vittorio Grilli, secondo cui il coordinamento tra Paesi europei - complicato, occorre dirlo, dalla numerosità degli attori in campo e dai problemi linguistici, oltre che dalla diversità di opinioni -, non è esattamente quello che oggi sta succedendo, ma è ciò per cui vale la pena battersi. Italia ed Europa devono essere in sintonia. Nel comune interesse. Sostenendo la voglia di riscatto dell’Italia che produce non solo idee ma anche molti fatti.  

Tags: Ottobre 2013 Enrico Santoro

© 2017 Ciuffa Editore - Via Rasella 139, 00187 - Roma. Direttore responsabile: Romina Ciuffa