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class action, la prima vittoria per il movimento dei consumatori

di MASSIMILIANO DONA, segretario generale dell’unione nazionale consumatori

La prima vittoria in una class action condotta ai sensi dell’articolo 140 bis del Codice del consumo è nostra: un risultato storico per il movimento dei consumatori in Italia, e per la nostra Unione, che giunge a tre anni dall’entrata in vigore e che ci riempie di orgoglio, considerando che si tratta della prima sentenza di accoglimento in Italia. Il Tribunale di Napoli ha riconosciuto il danno da vacanza rovinata a un gruppo di turisti che, durante le festività di Natale del 2009, partirono per un viaggio da sogno a Zanzibar che in realtà si rivelò un vero incubo. All’arrivo nell’isola i turisti scoprirono che il lussuoso resort che avevano prenotato e pagato profumatamente, era ancora in fase di costruzione e la sistemazione alternativa che il tour operator offrì era di classe decisamente inferiore a quanto pagato.
Al rientro dalla vacanza, i consumatori coinvolti si rivolsero ai nostri legali e, nonostante nutrissimo qualche perplessità sul neonato strumento processuale, decidemmo di andare avanti con un’azione di classe. Da quel momento il percorso è stato in salita e naturalmente ci siamo scontrati con tutte le contraddizioni di questa azione che sembra essere stata introdotta in Italia da un legislatore tremante. Una volta che il giudice ha riconosciuto l’ammissibilità dell’azione, la legge richiede che si debba dare la massima pubblicità al processo per consentire le adesioni, affinché ciascun potenziale danneggiato venga informato della possibilità di inserirsi. Tuttavia, in un Paese in cui sempre meno cittadini leggono i giornali ed è il web il mezzo di informazione privilegiato, i giudici hanno comunque scelto di ordinare all’Unione di fare una dispendiosa campagna su carta stampata per raccogliere le adesioni, non considerando, se non facendolo di proposito, l’alto costo dell’acquisto di una pagina di pubblicità sui quotidiani nazionali.
Perché la campagna di adesione è così importante? Negli Stati Uniti, dove la class action è nata, vige il principio «opt-out» per cui tutti i consumatori coinvolti hanno diritto all’eventuale risarcimento, tranne coloro che richiedono di essere esclusi; la class action all’italiana funziona esattamente al contrario. Ed è naturale che le adesioni di massa restano un sogno. Un altro problema di questa nostra azione di classe è la pretesa di «omogeneità»: inizialmente affinché la causa fosse valida, i soggetti coinvolti dovevano presentare situazioni «identiche», successivamente il requisito è stato ammorbidito richiedendo casi «omogenei». Ecco spiegato perché non tutti i turisti coinvolti nella «vacanza pacco a Zanzibar» avranno diritto al risarcimento di 1.300 euro stabilito dal Tribunale, in quanto al momento della sistemazione sostitutiva sono stati collocati in strutture diverse e il giudice ha applicato in modo esageratamente rigoroso il concetto di identità delle posizioni dei danneggiati.
Se la norma avesse permesso la retroattività, pensiamo ad altri casi simbolo in cui avremmo potuto procedere con una class action: nei crack finanziari di Parmalat e Cirio ovviamente non ci saremmo trovati davanti agli stessi profili clienti; così come se in futuro procedessimo con un’azione di classe contro Monte dei Paschi di Siena. È ovvio che il risarcimento deve essere proporzionale all’investimento, ma la natura del danno rimane la medesima. Altra storia negli Usa: arriva la notizia della class action attivata da alcuni genitori che si sono ritrovati bollette spaventose a causa delle applicazioni scaricate dai loro figli sui cellulari; Apple si è impegnata a rimborsare i consumatori con un buono da 5 euro da spendere sull’Apple Store. Alla faccia della nostra omogeneità.
Un’altra storia che arriva sempre da Oltre oceano fa riflettere su come la class action nel nostro Paese fa solo il solletico alle grandi aziende: due case automobilistiche, Hyundai e Kia, sono state costrette, lo scorso novembre, a varare un programma di rimborsi dopo essere state denunciate da numerosi clienti per aver dichiarato consumi più bassi delle loro automobili rispetto a quelli effettivi. In Italia, pensare che un’azienda possa finire in Tribunale per una dichiarazione pubblicitaria ingannevole è assai difficile; che poi faccia mea culpa e ripaghi i consumatori sembra pura fantascienza. I film americani, su tutti «Erin Brockovich - Forte come la verità» del 2000, raccontano un’altra storia: certo lì vi sono altre leggi, altri giudici, altri avvocati. Non è sempre un mondo migliore: ma vi sono anche altri consumatori, più consapevoli e battaglieri. Questi film dimostrano le connivenze e le coperture di cui spesso i potenti godono, ma anche che non è detto che si è sempre costretti a scegliere tra salute e lavoro. Soprattutto Erin Brockovich è la dimostrazione, in quanto tratto da una storia vera, che la class action non è una sfida per nuovi Robin Hood, ma un semplice modo per riportare i soldi in tasca a chi ha subito un danno. Uno strumento di reazione e non di attacco al sistema economico: nulla più di un airbag che si attiva per evitare danni più grossi. Intanto, in attesa di una riforma dell’istituto, noi abbiamo dato il nostro contributo: da primi della classe.   

Tags: Aprile 2013

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