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DIRITTO FALLIMENTARE. FALLIMENTO ED ESDEBITAZIONE: PER L'IMPRESA UN NUOVO INIZIO

«Il successo non è definitivo, il fallimento non è fatale: ciò che conta è il coraggio di andare avanti». Le parole del celebre sir Winston Churchill ben si prestano ad essere rilette nell’attuale contesto sociale ed economico, dove nulla oggi è uguale a ieri; dove il cammino dell’economia attraversa cicli continui che spesso si alternano e a volte, come di recente è accaduto, ristagnano; dove la parola d’ordine è sempre e comunque «mercato».
Ebbene, proprio nel «coraggio» del soggetto fallito, meritevole nella sua capacità e volontà di alzarsi e ripartire dopo la crisi, si colgono le ragioni e lo spirito dell’istituto dell’esdebitazione, introdotto di recente nel nostro ordinamento quale risultato qualificante e innovativo del circuito virtuoso che il legislatore italiano ha posto alla base della nuova legge fallimentare.
Le disposizioni del decreto legislativo n. 5 del 9 gennaio 2006, così come arricchite dalla normativa del decreto correttivo n. 169 del 12 settembre 2007, hanno ridefinito la fisionomia del fallimento ponendolo in una differente prospettiva, dove il peso è meglio distribuito tra il momento della «caduta» (che, in presenza di determinati presupposti, costituisce esclusivamente la base su cui fondare la «seconda opportunità» per il fallito) e il momento della «ripresa» (che assume una nuova e particolare valenza).
Nella «relazione ministeriale» al decreto legislativo n. 5 si legge, infatti, che la finalità è quella di «recuperare l’attività economica del fallito per permettergli un nuovo inizio, una volta estinte le posizioni debitorie». L’istituto dell’esdebitazione, infatti, offre al debitore «persona fisica» la concreta possibilità di ottenere la liberazione dai debiti residui rimasti insoddisfatti dalla liquidazione fallimentare, riconoscendo implicitamente il diritto all’errore.
L’eco delle best practice consolidatesi nei Paesi di common law è evidente. Il percorso innovativo tracciato dalla riforma risponde, infatti, alla necessità di eliminare le tipicità proprie di una architettura fallimentare che la rivoluzione tecnologica, finanziaria e commerciale, propria della globalizzazione, aveva reso via via più marcate, sino a vederci rilegati, anche in ragione dell’inefficienza della normativa fallimentare, al 170° posto nella classifica internazionale redatta dalla Banca Mondiale, con riferimento alla capacità di attrarre investimenti esteri.
Tali dati non sorprendono se si considera che - sulla scia del consueto «conservatorismo» nostrano -, il fallito ante-riforma continuava ad essere considerato come il pericoloso «untore» capace solo di diffondere la propria insolvenza, mentre altrove (in Paesi quali gli Stati Uniti, il Canada, la Germania o la Francia), a parità di condizioni, lo stesso andava incontro semplicemente ad una breve parentesi di riflessione economica, oltre la quale non residuava alcuna discriminazione.
Ne è dimostrazione la circostanza che, a far parte del consiglio di amministrazione della società fondata e per anni presieduta dal celebrato Bill Gates, vi dovessero essere - secondo sue stesse disposizioni - almeno due falliti in grado di apportare il valore della propria esperienza negativa nel corso fisiologico della vita dell’impresa. Nel nostro sistema, invece, la spinta necessitata verso la finanza illegale diveniva, il più delle volte, la risposta alle esigenze economiche del fallito. In quest’ottica, è facile comprendere che il nuovo istituto non costituisce una minaccia per la stabilità dei rapporti economici, né tantomeno sorregge l’irresponsabilità imprenditoriale.
Il complesso sistema di verifiche e l’accuratezza con la quale sono stati disciplinati i presupposti necessari per la concessione del beneficio non lasciano spazio, infatti, ad aree di illegalità o impunità là dove il debitore fallito non dovesse risultare «meritevole».
I trascorsi sul campo e la partecipazione di chi scrive ai lavori della commissione Trevisanato (istituita nel 2002 per l’elaborazione dei principi e dei criteri direttivi della riforma fallimentare) hanno confermato che il motore che spinge il debitore a collaborare e a scegliere la strada della legalità, è prevalentemente, se non esclusivamente, il suo interesse alla pronta conclusione della procedura, quale passaggio imprescindibile per il suo rientro nella vita economica e produttiva. La lettura della norma esclude, quindi, che il vento riformatore tenda alla totale, facile e acritica liberazione dai debiti residui, favorendo incondizionatamente fenomeni di «moral hazard», in danno della stabilità dei rapporti economici.
Quale ulteriore condizione preclusiva la legge prevede la mancata soddisfazione parziale dei creditori concorsuali, affermando l’impossibilità di pervenire alla concessione del beneficio in totale assenza di riparti, ancorché minimi, a favore dei creditori concorsuali. Tale presupposto, al di là di quanto affermato da una giurisprudenza e da una dottrina ingiustificatamente ancorate a concezioni superate del fallimento, può sintetizzarsi nella necessità che almeno una parte dei creditori (non obbligatoriamente tutti) siano, anche solo parzialmente, soddisfatti in sede di ripartizione dell’attivo.
L’anacronismo di alcune dissonanti letture della norma è evidente là dove, alla luce del rinnovato contesto normativo, si giunga ad interpretazioni rigorose e restrittive delle potenzialità applicative dell’istituto, ispirate ad «antiche» culture di natura inutilmente punitiva per il fallito. I 65 anni di applicazione della legge precedente hanno dimostrato, infatti, che simili interventi giurisprudenziali non solo si mostrano inidonei ad ampliare l’attivo a disposizione dei crediti, ma, in più, spingono il debitore a non collaborare.
L’esdebitazione, nel nuovo sistema, costituisce per il fallito il premio da conquistare il più velocemente possibile, attraverso una rapida chiusura della procedura. È il tempo, dunque, il nuovo centro di gravità del circuito economico nel quale la velocità delle risposte che i diversi ordinamenti nazionali danno allo stesso problema, coniugata alla percentuale di soddisfazione dei diritti, determina la scelta del Paese in cui investire, radicare la propria attività, decidere di «rischiare» anche un insuccesso imprenditoriale o un finanziamento sbagliato. Il «forum shopping» proprio della libertà di circolazione di imprenditori, consumatori, creditori e debitori, è reso possibile dall’evidenza dei dati che i vari sistemi giuridici esprimono.
Parte della giurisprudenza italiana mostra di non essere al passo con i tempi e di preferire, come da ultimo è accaduto con l’ordinanza n. 61 del 24 febbraio 2010 della Corte Costituzionale, interpretazioni di carattere pubblicistico, in controtendenza con l’accelerazione dei tempi delle procedure, con le regolamentazioni vigenti nei Paesi concorrenti e con il recupero di più ampie possibilità negoziali nella definizione dei rapporti tra creditori e debitore.
È difficile comprendere, ad esempio, il motivo per il quale a due persone fisiche dichiarate fallite lo stesso giorno venga riservato un trattamento diverso (concedendo l’esdebitazione all’uno e non all’altro) sulla base della data di chiusura del loro fallimento. Infatti solo nel caso di chiusura del fallimento successiva alla data di entrata in vigore della nuova legge potrà essere concesso tale beneficio.
Oggi, a qualche anno dal debutto dell’esdebitazione sulla scena fallimentare italiana, la sensazione è che l’istituto abbia assunto via via un maggior rilievo pratico, registrando, contro ogni attesa, un incremento progressivo della sua applicazione senza barriere regionali nell’intero territorio nazionale. A ragion veduta, tali risultati non possono che rappresentare il naturale epilogo di un percorso nel quale il quadro sociale, economico e giuridico, unito alle lungaggini processuali (7-8 anni è attualmente la durata media dei fallimenti nel nostro Paese) non collimava più con la perseguibilità a vita del debitore fallito per i debiti rimasti insoddisfatti attraverso la liquidazione fallimentare.
Il fallimento cambia faccia dunque; si spoglia - seppur con qualche inciampo - della pesantezza e della inattualità di una visione che lo considerava quale evento definitivo in grado di suggellare l’insuccesso dell’impresa e, con esso la fine economica del debitore dichiarato fallito. Con l’introduzione dell’istituto dell’esdebitazione si è compiuto, quindi, un passo ulteriore verso la costruzione di una nuova epoca del diritto fallimentare, nella quale la fine dell’impresa non rappresenta altro che la possibilità di un nuovo e diverso inizio.

Tags: Lucio Ghia Ottobre 2010 fallimento

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