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FONDAZIONE UNIGIOCO. AFFRONTARE «LAICAMENTE» LE QUESTIONI CULTURALI, ECONOMICHE E SOCIALI CONNESSE AL GIOCO

Di FRANCESCO TOLOTTI
presidente della Fondazione Unigioco

Tra i refrain più ricorrenti negli articoli della stampa specializzata e di quella generalista, nonché nelle dichiarazioni degli stakeholders del settore, va certamente annoverata la necessità di approntare una trattazione multiculturale e pluridisciplinare del tema del gioco, al fine di coglierne la dimensione più vera, profondamente radicata nella stessa natura dell’uomo, e contemporaneamente di metterne in luce gli aspetti di rischio antropologico e sociale connessi ad un esercizio non equilibrato né adeguatamente controllato del gioco stesso, soprattutto quando sia fondato sull’alea o azzardo.
Con il convegno «Ludere humanum est», organizzato il primo febbraio nella Sala della Lupa in Campidoglio, la Fondazione Unigioco ha voluto dare concretezza a questo assunto tante volte ripetuto, ma assai poco praticato. Sono stati chiamati a discutere del gioco, delle sue potenzialità e dei suoi aspetti problematici, esponenti del mondo universitario, operatori impegnati in prima persona nell’assistenza ai soggetti esposti al rischio di compulsività e ludopatia, rappresentanti delle istituzioni locali e nazionali. Ne è uscito un quadro assai articolato e variegato, supportato anche dalla presentazione di un modello di ricerca, a cura dell’Osservatorio internazionale sul gioco coordinato dall’Università di Salerno, già sperimentato su un campione statisticamente significativo della popolazione campana.
Prima di dare conto, sia pure sinteticamente, di alcune delle suggestioni e delle riflessioni più stimolanti emerse nel convegno, voglio sottolineare come anche questa occasione ha confermato, se ce ne fosse bisogno, la necessità di affrontare laicamente le questioni culturali, economiche e sociali connesse al gioco. Uso il termine «laicamente» non a caso, perché il settore del gioco pubblico, per la rilevanza degli interessi che mobilita e per la serietà dei problemi sociali che solleva, tende ad essere affrontato con due opposti atteggiamenti pregiudiziali: da un lato un approccio proibizionista, che punta il dito sugli effetti considerati socialmente devastanti della diffusione dell’offerta di gioco, denuncia lo «Stato biscazziere» e fornisce cifre allarmanti sul volume di gioco illegale e sul dilagare delle ludodipendenze (anche se questi dati non sono sempre puntualmente suffragati da ricerche e indagini scientificamente fondate); dall’altro lato un approccio ultra permissivista, che spinge per un’offerta di gioco senza limiti e considera con insofferenza i vincoli che nella giurisdizione italiana sono posti all’offerta e all’esercizio del gioco lecito.
Resto personalmente convinto della necessità di un approccio regolatore, che riconosca la diffusione del gioco come fenomeno sociale e di costume ma non eluda i problemi, spesso gravi, che ad esso sono connessi (presenza di sacche diffuse di gioco illegale, innegabile attrattività del settore per organizzazioni malavitose che hanno capitali da «lavare» o riciclare, conseguenze potenzialmente pesanti sul vissuto dei soggetti psicologicamente più deboli ecc.); insomma, anche questo settore ha bisogno di promuovere cultura e conoscenza, come basi per l’affermazione di una moderna e corretta cultura di impresa, legittimamente mirante al profitto ma consapevole delle responsabilità sociali che le competono.
In questa prospettiva, il convegno ha offerto contributi significativi ed illuminanti, a partire da quello di Clementina Gily, professoressa dell’Università Federico II di Napoli, che ha centrato il proprio intervento, suffragato da una nutrita serie di rimandi pedagogico-filosofici (da Kant a Huizinga, da Gadamer ad Escher), sull’idea che il gioco è un’attività complessa che riguarda la creatività dell’individuo, ma anche la capacità della comunità di trovare delle regole entro cui esso possa esercitarsi. In questa prospettiva si può provare a rispondere alla domanda circa l’origine della malattia nel gioco.
Secondo Gily, la malattia di gioco viene dal limitare questa attività alla coazione a ripetere. Soprattutto nel gioco d’azzardo, per esempio nel gioco della roulette, la coazione a ripetere è evidente. Il giocatore è portato a ripetere lo stesso meccanismo e a un certo punto ciò può contribuire a fargli perdere il senso della misura; il soggetto continua a giocare sempre allo stesso gioco e finisce per diventare o un professionista o un malato. Perché il gioco in realtà dovrebbe essere il momento in cui ci si cimenta con la confusione o con un problema che non si sa risolvere e dovrebbe stimolare un ragionamento individuale; immagino una soluzione possibile, la metto in gioco, vedo se riesce: questo è il gioco. Quando esso non si rinnova, prevale questa coazione a ripetere che in taluni casi può anche renderci dei giocatori abili, ma che sempre mortifica la realtà più intima del gioco: l’azzardo di una propria interpretazione del mondo.
Anna Cipriani, psicoterapeuta impegnata nel lavoro sul campo a sostegno dei soggetti affetti da dipendenze e quindi anche da ludodipendenze, ha proposto un approccio psicanalitico, sottolineando come nelle prime fasi di vita la dipendenza del bambino dall’elemento materno, dalla figura che gli si offre come madre, sia una dipendenza al suo massimo livello, tanto che il bambino non può vivere senza. E se il rapporto con questa «madre ambiente» è vissuto come un’esperienza di fiducia e di sicurezza il bimbo comincerà a giocare, per esempio lanciando lontano da sé tutto quello che gli capita a tiro. Che sia il cucchiaino, che sia la pappa, comunque qualcosa che la mamma dovrà con infinita pazienza cercare di recuperare e restituirgli o caso mai legargli al polso.
Ciò vale a dimostrare quanto sia centrale nella psicoterapia il concetto di gioco, ma serve anche a ricordare come in tutti i fenomeni umani non esista soluzione di continuità; così, da una costruzione che è creativa, risanante, fondante per il sé, senza soluzione di continuità si può passare a una possibile patologia, che nell’adulto sarà etichettata come patologia di dipendenza; la dipendenza può naturalmente presentarsi sotto molteplici aspetti, perché consiste in una specifica qualità di rapporto che il soggetto vive con il resto del mondo: che si tratti di oggetti umani, che si tratti di oggetti mentali, che si tratti di esperienze fisiche, comportamenti, oggetti chimici, come possono essere le droghe o l’alcool. Sia quindi interni che esterni a lui stesso.
Ne deriva che può essere patologico qualunque comportamento umano. Le donne, più o meno scherzando, si dichiarano spesso malate di shopping, gli uomini sono più spesso malati di calcio o di qualunque cosa di questo genere; in effetti questo è possibile, nel senso che qualunque dei nostri comportamenti si presta a diventare eventualmente un comportamento di dipendenza compulsiva, da cui non possiamo più allontanarci perché lì abbiamo la sensazione di stare trovando quell’unità e quell’interezza di cui abbiamo goduto nell’ambiente materno; insomma, quel contatto profondo con noi stessi che in qualche modo è andato lesionato e ci spinge a cercare una riparazione in comportamenti che diventano trappole da cui non riusciamo a uscire.
Con l’intervento di Giuseppe Italia, dirigente dell’Ufficio per le politiche della sicurezza di Roma Capitale, l’attenzione del convegno si è spostata dall’ambito antropologico-culturale a quello degli interventi con cui le istituzioni, ai diversi livelli, possono far fronte ai problemi sollevati dal gioco pubblico. Italia ha messo in rilievo la farraginosità e la mancanza di coordinamento che spesso affliggono la produzione normativa in materia, sottolineando altresì come talora si registrino ritardi, anche gravi, come nel caso del decreto interdirigenziale del Ministero dell’Economia e delle Finanze, dell’Aams, e del Ministero della Salute, per stabilire le linee guida per la prevenzione, per il contrasto e per il recupero dei fenomeni di ludopatia conseguenti al gioco compulsivo.
Un’ulteriore preoccupazione è stata espressa da Italia sul versante della tutela dei minori rispetto all’offerta di gioco pubblico: le norme ci sono, ma sugli strumenti per applicarle regna una notevole confusione. Non è mancata una proposta operativa volta a favorire il monitoraggio e la valutazione della situazione. Italia ha sostenuto l’opportunità di istituire un osservatorio permanente, aperto a enti e organismi pubblici e privati, oltre che un numero verde per venire incontro alle esigenze di coloro, famiglie, giovani e quanti altri che sono purtroppo affetti da questo problema. Il lavoro dell’osservatorio dovrebbe favorire un’attività di prevenzione del fenomeno che dovrebbe svolgersi, su basi scientifiche e coordinate, a partire dalle scuole. Senza dimenticare i gestori delle sale da gioco e i piccoli esercenti che sono i primi che stanno sulla frontiera di questo problema, e dovrebbero essere assistiti da adeguate informazioni e formazione. Dopo la presentazione da parte del dott. Donato Verrastro del format della summenzionata ricerca condotta in Campania, il convegno si è concluso con una tavola rotonda che ha impegnato la prof. Ornella De Rosa dell’Università di Salerno, l’avvocato Marco Polizzi rappresentante dell’associazione Primo Consumo, e Alberto Fluvi, capogruppo del PD nella Commissione Finanze della Camera.
De Rosa, con una puntigliosa ricostruzione storica, ha smantellato il luogo comune secondo cui il gioco come fenomeno di massa sarebbe una peculiarità della contemporaneità. Per fare un esempio, la quantità di persone che giocavano alle lotterie, al lotto e alle tombole telegrafiche, nei primi anni dell’Italia unita, era percentualmente più elevata delle persone che giocano oggi. Lo Stato ha sempre «giocato» attraverso il gioco, imponendo una tassa implicita che la borghesia, il pregiudizio borghese, chiamava la «tassa dello stupido», ma che rappresentava l’illusione da parte del giocatore di poter ambire, di poter sognare. La storia ci dice che il popolo ama giocare. È nel nostro modo di essere. Qual è allora l’atteggiamento corretto da assumere? Dobbiamo provare a governare il fenomeno; il che significa, ancora una volta, affrontare il problema non sulla base di dossier più o meno sensazionalistici, ma a partire da studi scientificamente probanti.
Polizzi ha sostenuto che l’esercizio del gioco pubblico deve essere sempre legato alla responsabilità. Non sempre i concessionari sembrano ispirarsi a questo principio e non sempre la comunicazione o la pubblicità sull’offerta di gioco appaiono equlibrate. Non si tratta di fare il processo a questo o a quel concessionario, ma occorre ribadire che l’Aams deve intervenire in tutti i casi, deve fare il regolatore in maniera decisa.
A questo proposito Fluvi ha sottolineato ancora una volta la necessità che si costituisca finalmente l’Agenzia dei Giochi, da troppo tempo annunciata senza mai vedere la luce, come strumento a disposizione del Ministero dell’Economia e delle Finanze per regolare e vigilare sul sistema; ha altresì auspicato il varo di una sorta di Codice dei Giochi, che consentirebbe di fare chiarezza nel sistema dal punto di vista del ruolo di terzietà dello Stato.
Riprendendo alcune delle sollecitazioni emerse dal dibattito, Fluvi ha ribadito la necessità che istituzioni, operatori, scuola e rappresentanze sociali promuovano inziative coordinate nell’ambito di una grande campagna a sostegno del gioco responsabile. In questo modo si combatterebbe una battaglia non contro qualcuno, ma in favore della coesione e della sicurezza sociale. Si tratta, per restare in tema di gioco, di vincere una doppia scommessa: sconfiggere definitivamente il gioco illegale e contrastare efficacemente le ludopatie.

 

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