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Montepaschi e dintorni: banche, la via di uscita passa per la mecca?

di ENRICO SANTORO  professore, avvocato

La «madre di tutte le malversazioni». Potrà essere definita così, quando saranno raccontate le gesta finanziarie dei nostri giorni, la vicenda che interessa i vertici del Monte dei Paschi di Siena per l’ acquisto della Banca Antonveneta compiuto nel 2009 a prezzo maggiorato rispetto ai valori di mercato. Se saranno davvero provate, come appare possibile stando alle indiscrezioni apparse sui giornali, le pesanti accuse di cui è stato oggetto anche da parte di alcuni pentiti il management dell’istituto senese nato nel 1452, si tratterà di una truffa storica almeno quanto la banca dove è stata architettata.
Il reato, se c’è, va ascritto ai vertici e ai responsabili finanziari della banca, ma turba tutti i dipendenti. Ha avuto l’effetto di un terremoto anche per tutto il sistema delle banche, di cui il presidente era ai vertici. E ha avuto ripercussioni politiche ancora più forti: il Monte dei Paschi, che per tanto tempo è stato istituto di diritto pubblico, tuttora è di una fondazione in cui il Comune di Siena ha un ruolo primario. Fattispecie questa che riguarda anche altre banche per effetto della legge Amato varata 20 anni orsono, che attraverso le fondazioni voleva favorire il passaggio delle proprietà bancarie pubbliche a protagonisti privati del mercato.
Il passaggio prevedeva una fase di transizione che nelle intenzioni doveva essere brevissima, ma in realtà si trascina tuttora, probabilmente perché l’ingordo sistema politico italiano fatica a privarsi di braccia finanziarie capaci di garantirgli la tranquillità economica ritenuta necessaria per mantenere le proprie posizioni. Così la vicenda del Monte dei Paschi ha messo a nudo, durante la campagna elettorale più cruenta e ricca di colpi bassi degli ultimi anni, il profondo abisso tra politica, problemi della gente e, nel caso specifico, capacità di gestire il rilancio economico con una finanza impazzita.
La faccenda del Monte, oltre al discusso pagamento per 9,3 miliardi di euro dell’Antonveneta che solo 6 mesi prima era stata valutata 6 miliardi, ha messo anche in evidenza che il management della banca, per migliorare i ratios di bilancio, aveva messo in piedi complesse e rischiosissime operazioni basate su prodotti finanziari della gamma dei derivati, ossia contratti assimilabili più al gioco d’azzardo che all’elenco essenziale di transazioni lucrative della finanza tradizionale. Non le sarebbero bastati, per stare tranquilla, i 3,9 miliardi di fondi pubblici di cui aveva potuto avvalersi.
Ha scritto l’International Herald Tribune, rimarcando una valutazione propria dell’ex ministro Giulio Tremonti, che tale situazione ha posto sotto i riflettori l’attuale presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi, il quale ai tempi dell’acquisto era al vertice della Banca d’Italia e avrebbe avuto i mezzi per bloccare l’operazione. Il prestigioso quotidiano ha aggiunto come altre due operazioni, denominate Santorini ed Alexandria, costruite per coprire l’esborso legato a quell’improvvido acquisto, si siano rivelate un fallimento finanziario. Poi si è scoperto che il settimanale Report aveva già denunciato quell’oscura situazione.
Quest’ultimo aspetto porrebbe in cattiva luce anche gli attuali vertici dell’economia nazionale, compresa l’attuale presidente della Rai all’epoca responsabile della Vigilanza della Banca d’Italia. Ma il vero nodo è altrove: il Financial Times ha puntato i riflettori sul controllo politico delle banche in Italia, sulle «regole bizantine» che spingono i manager a privilegiare gli interessi dei politici anziché quelli della banca. E verosimilmente ci si interroga se la crepa apertasi a Siena riveli una corrosione irreparabile dell’intero sistema bancario italiano.
Le «termiti» si nascondono dietro dati ufficiali: i 33 mila sportelli bancari italiani non rendono più. Uno studio dell’Accenture rivela come nei 5 anni di crisi le sofferenze siano cresciute del 150 per cento, i ricavi calati del 17 per cento, le commissioni si siano ridotte, l’impoverimento generale abbia reso antieconomiche le reti di vendita. E propone una ricetta centrata sulla razionalizzazione geografica, la flessibilità dei modelli di agenzia, la preparazione del personale, la multicanalità e il cross selling, nonché sugli strumenti di vendita messi a disposizione dalle nuove tecnologie.
Una strada obbligata, si direbbe, imboccata da colossi come Deutsche Bank e BNP Paribas, seguita da esperimenti di prolungamento di orari di sportello come quello di Banca Intesa. Che però resta impervia nello scenario generale. Sembra cioè che le banche in Italia, rimaste solide nei primi anni di crisi mentre le anglosassoni subivano i contraccolpi della crisi dei mutui subprime, abbiano trasformato la solidità in un’ingessatura resa soffocante dalla recessione, mentre tagli e tasse hanno finito col deprimere il prodotto interno e aumentato disoccupazione e debito pubblico e privato.
Inoltre la crisi ha fatto esplodere alcune contraddizioni. Lo scandalo Montepaschi è stato solo il detonatore. Opinione pubblica, risparmiatori e imprenditori non tollerano più che il sistema bancario commetta errori quando si scopre - il libro di Gianni Dragoni «Banchieri e compari» docet - che i manager delle banche guadagnano bonus iperbolici senza rischiare, mentre la Banca Centrale Europea e gli Stati ripianano, con fondi rimpinguati dalle casse pubbliche, bilanci in perdita a causa di speculazioni avventate se non immorali.
Serve a poco che mille dipendenti della Barclays vadano a ripetizioni di etica, per riscoprire valori di responsabilità sociale e correttezza finanziaria dopo che alcuni dirigenti di quella banca sono stati scoperti a manipolare il tasso di riferimento interbancario Libor. Le notizie che rivelano la scarsa affidabilità del sistema bancario sono tante: dalle sentenze di magistrati favorevoli ai Comuni che in Italia avevano abboccato all’acquisto di derivati di convenienza nulla, alla richiesta fatta dall’associazione britannica Bully Banks ai giudici della Financial Service Authority di punire le banche che avevano danneggiato i clienti per un miliardo e mezzo di sterline.
Il sistema bancario occidentale appare alle corde su molteplici fronti. Continuano i fallimenti bancari in Danimarca, i prestiti tossici in Spagna hanno raggiunto il record dell’11,38 per cento, tagli di personale hanno riguardato nelle ultime settimane 14 mila unità della Bank of America e, secondo la Pricewaterhouse, altri 43 mila posti saranno presto perduti in Gran Bretagna. La banca svizzera Wegelin si è dichiarata colpevole di aver aiutato i clienti ad aggirare il fisco americano per un ammontare di 1,2 miliardi di dollari in 8 anni. L’amministratore delegato dell’Ubs, Andrea Orcel, dice: la finanza è stata troppo arrogante.
C’è da chiedersi come se ne esce. Soprattutto da noi dove, secondo l’Unioncamere, chiudono mille imprese al giorno e dove contemporaneamente, anziché fare soprattutto il loro mestiere tradizionale, le prime dieci banche hanno puntato sui derivati per 218 miliardi - certamente meno di colossi come la Deutsche Bank o la Jp Morgan -, partecipando in ogni caso a spartirsi la torta complessiva del mercato dei derivati che, secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali, ha toccato la cifra di 687 trilioni di dollari. Al riguardo la Banca d’Italia tranquillizza ricordando che la quota dei nostri istituti è solo l’1,6 per cento, ma gli interrogativi etici restano in piedi.
Occorrerà quanto prima regolamentare una volta per tutte e separare le attività classica e speculativa delle banche, per limitare i rischi di contagio tra le operazioni azzardate e quelle corrette. Per non mettere in pericolo l’equilibrio che deve esserci nel rapporto tra il credito erogato e la quantità di risparmio drenato: non è una bestemmia, in definitiva è soltanto quello che avveniva in epoca rinascimentale, ossia quando avvenne la fondazione del Monte dei Paschi. Bei tempi andati. Oggi le banche negano fondi anche alle aziende sane: il processo di «credit crunch», rivela il Bollettino Bankitalia, ha toccato il fondo a fine 2012.
Nell’attesa di regolamentare i derivati, di separare finanza classica e finanza creativa, di veder partire i controlli promessi dalla BCE su 150 banche europee, di veder monitorata l’attività delle «too big to fail», ossia di quegli istituti considerati troppo grandi per fallire ma forse capaci di trascinare con sé una bella fetta dell’economia occidentale in caso di dissesto, non sarebbe male guardare a Sud. E prendere esempio dalla finanza islamica, un modello che - ispirato dalla legge coranica e approdato da noi anche per effetto dell’imponente flusso migratorio - oggi sostiene economie emergenti, trasudando solidità e correttezza.
La finanza islamica gestisce una fetta consistente dei 530 miliardi di dollari che ogni anno, secondo i calcoli diffusi dalla World Bank, gli immigrati inviano a casa. E soprattutto si candida a fare da ponte sul Mediterraneo, sostenendo imprenditori di origine africana che operano sempre più numerosi e vitali anche in Italia, secondo i dati Abi, e imprenditori italiani che in tutti i settori, dall’edilizia all’alta moda, si accingono ad esplorare i nuovi mercati africani non solo per salvare la loro storia imprenditoriale, ma anche per strappare quei mercati alla concorrenza cinese.
L’Islam prevede che le banche non chiedano interessi, considerati usura, condividano rischi e profitti dei debitori, investano il denaro in attività concrete o immobili, appoggino solo transazioni fondate su un attivo reale, non investano in prodotti derivati. L’effetto della legge islamica si è tramutato per loro in solidità: sono cresciute del 15 per cento annuo, negli ultimi anni del 30; hanno un giro d’affari dell’1 per cento del mercato finanziario globale e a fine 2015 avranno risorse per 2.800 miliardi di dollari. Nel 2010 i titoli da loro emessi e le loro obbligazioni, conformi alla Sharia, erano pari, secondo il mensile World & Pleasure, a 47 miliardi di dollari.
È la bontà del modello che prevale su tutto il panorama finanziario internazionale. Le banche islamiche crescono per numero ed efficienza nell’area dell’euro dove entro 5 anni la loro attività sarà regolamentata uniformemente ed hanno prospettive di sviluppo di un ulteriore 15 per cento nel medio termine. Con 350 istituti in 50 Paesi, fondi di investimento e indici azionari compatibili con la legge coranica che esclude comportamenti economici basati sull’incertezza, sulla scorrettezza informativa, sulla compartecipazione al rischio anche nel venture capital, si candidano ad essere il supporto all’economia del Terzo Millennio.
Molte banche occidentali sono state contagiate positivamente da questo modello, dalla Landesbank del Liechtestein alla londinese Standard Chartered. E bene ne hanno ricevuto, poiché il mondo della finanza islamica non è stato toccato dalla tempesta dei subprime in quanto si fonda sulla trasparenza e condanna la speculazione, come ha avuto modo di sottolineare in passato l’attuale direttrice del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde. Le banche occidentali, italiane comprese malgrado la centralità del cattolicesimo, hanno dunque una direttrice utile per poter uscire dal tunnel in cui si sono cacciate: rivalutare la finanza islamica.
Questo significa far studiare ai loro manager, e agli studi legali che li consigliano, tecniche di management un tempo marginali, oggi destinate a vincere nella competizione finanziaria. «Niente interessi, grande interesse» è il titolo di un’analisi condotta dalla Deloitte sul fenomeno, che ha come punto di forza lo stretto legame con l’economia reale e, come valori fondanti, la responsabilità sociale, il contenimento della speculazione. E la possibilità di porsi al servizio di una clientela che cresce enormemente nella zona europea per numerosità, per effetto del fenomeno migratorio.
Da ultimo la collaborazione con la finanza islamica può rivelarsi un asset di pace. Il che non guasta. Deloitte fa riflettere su alcuni dati. In Europa ci sono 17 milioni di musulmani e si stima in 14 miliardi al 2020 il potenziale di risparmio gestito. Regno Unito, Francia, Spagna sono i principali operatori europei per la finanza islamica. L’Italia può solo crescere, con 1,3 milioni di musulmani - raddoppiati nel 2050 - che possono produrre una raccolta di 4,5 miliardi nel 2015. Senza contare che prodotti e servizi bancari di matrice islamica potrebbero interessare anche la popolazione non musulmana grazie al loro valore etico e al forte legame con l’economia reale. Forse la via d’uscita dalla crisi per le banche passa dalla Mecca.  

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