Arte, architettura e nuovi spazi: Miami, la città che non dorme mai
Nei primi quattro giorni di dicembre, duecentosessantanove tra i più influenti galleristi del mondo si ritrovano a Miami per la fiera Art Basel in America. Succede da tre lustri esatti, non può più quindi essere considerata una succursale tropicale o una variante autunnale dell’originale Art Basel - la kermesse di arte moderna e contemporanea ideata quasi mezzo secolo fa da Ernst Beyeler, Trudi Bruckner e Balz Hilt. Lì il Reno di Basilea s’attorciglia tra i confini di Svizzera, Francia e Germania. Qui siamo invece a Miami Beach: le acque in primo piano sono quelle della baia di Biscayne, sullo sfondo c’è l’Atlantico e l’entroterra è innervato di creeks (ruscelli) e swamps (paludi), con tutta l’oleografia liquida d’ordinanza del «Sunshine State». Gli anglismi sono obbligatori, fanno parte dell’essenza stessa di quest’immersione in una delle metropoli statunitensi più sature di cliché e di scoperte. Navighiamo dunque tra i primi alla ricerca delle seconde, nel segno di arti e architetture. Per gli opuscoli è la «Magic City», a quasi tutti vengono in mente bikini e motoscafi, palme e grattacieli sulla sabbia, insegne al neon e sigari in esilio, Versace (la sua villa è ora un hotel) e Bacardi (la sede mondiale è a Miami). Un frullato di pop, hip, kitsch & arty che va esplorato mappando i luoghi.
Miami Beach, tanto per iniziare, è un comune a sé, al municipio hanno spento la candelina numero centouno a marzo. Occupa una lingua di terra lunga quindici chilometri ma soltanto la sua punta meridionale (South Beach) custodisce, compendia ed esibisce le icone più conosciute, quelle del patrimonio art déco. Quante sono? La Miami Design Preservation League è stata fondata quarant’anni fa, per l’American Institute of Architects è la più antica Art Déco Society nel mondo - non ce ne sono parecchie altre, va detto (ma cosa importa?) - e tenta di preservare e proteggere l’integrità del Miami Beach Architectural Historic District. A scorrere la lista di edifici e spazi diversi (circa 1.300) si apprende che quelli art déco rappresentano un terzo del totale, un altro è formato da strutture moderniste e di «revival mediterraneo» (in parti uguali), il terzo residuo è ancora più vario ed eclettico. E non basta, col parterre srotolato dal MiMo, il quartiere del modernismo, si replica a soggetto. La MiMo Biscayne Association parte dalle stesse basi della Miami Design Preservation League e con un obiettivo simile, il campionario di cui si fa guardiana è però formato in buona parte da motel e bistrot di metà Novecento, allineati uno dopo l’altro sul Biscayne Boulevard - per questo viene anche chiamato MiMo on BiBo (on Biscayne Boulevard).
Di Miami ce ne sono tante, retorico ma vero. Vale per le etichette promozionali e per le denominazioni amministrative. Ma anche, e soprattutto, per quelle con una precisa identità comunitaria. Tanto uniformi nella composizione interna quanto rapide nel mutare, dando così luogo ad un’incessante, nuova (ed ennesima) serie di porzioni di territori a geometria variabile. Altrettanto coese, altrettanto pronte ad un «reset». A quelle della terraferma si approda dalla striscia costiera lungo le «causeways», ponti-bretella che sfiorano le acque. Scandiamone la sequenza per segnarci i nomi e ricavarne altrettanti spunti di visita.
La John Fitzgerald Kennedy causeway è la più lunga, attraversa degli isolotti e sbarca a pochi isolati da Little Haiti. Si diffida sovente (e spesso con buoni motivi) su quanto ci sia di autentico nelle varie Chinatown, Little Italy & co in giro. L’atmosfera cubana della Little Havana di Miami, per esempio, è sbiadita. I tempi cambiano, la storia rincorre la cronaca ed i presìdi che restano evocano malinconia tenace e vintage involontario. Vale comunque la pena andarci, anche per questo, e rendersi conto di come Miami catalizzi i nuovi fermenti e cosa mantenga di quelli maturi. Al ristorante «Versailles» tutto questo continua a sopravvivere e condensarsi: tre generazioni di cubani, ottimo cibo, turisti in fila. Un’istituzione, come si dice. Per Little Haiti è presto azzardare un bilancio: la comunità haitiana è radicata e numerosa, s’è stabilita qui da pochi decenni, facendone la capitale della diaspora e integrandosi ai primi pionieri neri che chiamavano questa zona Lemon City. Forse non ha bisogno di un rettangolo di vie o un colore diverso sulla mappa. O forse sì, smarcandosi però dalle derive della gentrification e facendosi parte attiva di una rinascita di piccole imprese creative. Secondo alcuni osservatori sarà così, non ci vorrà comunque molto per verificarlo ché il futuro remoto è una modalità del presente a Miami.
La Julia Tuttle causeway omaggia invece la «fondatrice» della città. Le virgolette sono d’obbligo ma il ruolo di questa (improvvisata) business woman del freddo Ohio - al secolo Julia DeForest Sturtevant Tuttle - non è in discussione. La statua che la ritrae sul Bayfront Park ne consolida la memoria, i cenni biografici miscelano l’epica verosimile, le storie vere e tutto quello che c’è in mezzo. La narrazione da c’era-una-volta la vede comunque, visionaria e lungimirante, insistere con Henry Flagler, magnate di petrolio e ferrovie, per creare una zona residenziale sul Miami River. Incentivi, dubbi e azzardi, fortuna e fortune si sono rincorsi nel solco del più classico degli American Dream.
Torniamo ai segmenti di asfalto trasversale, il terzo è la Venetian Causeway, il riferimento alla laguna veneta resta confinato all’aneddotica della toponomastica ed ai sui curiosi meccanismi. Fino a quando era in piedi si chiamava Collins Bridge. Era il più antico di tutti, opera di un quacchero (John Collins), tra i costruttori della prima Miami. Per dei rimandi più solidi a Venezia, espliciti e «very Florida» bisogna spingersi più a sud e visitare il complesso «Vizcaya Museum and Gardens» di Coral Gables. Insieme alla vicina Coconut Grove rappresenta l’altra Miami di un secolo fa, un pastiche di stili e ispirazioni ed un melange di persone diverse: coloni dalle Bahamas in cerca di spazi e vite migliori, intellettuali e affaristi. Dei primi impulsi restano architetture da scorgere nei bei viali e l’atmosfera molto rilassata dell’opulenza del terzo millennio. E luoghi-totem, uno su tutti: il Biltmore, l’hotel della prima Dolce Vita di Miami, dei summit dei potenti, dei gangster e di tutto il pantheon scintillante.
Con la quarta arteria terra-mare-terra chiudiamo questa piccola rassegna. É la Mac Arthur causeway, dedicata al generale-simbolo dell’iconografia bellica e di celluloide (l’hanno impersonato, tra i tanti, Henry Fonda, Gregory Peck, Laurence Olivier e Tommy Lee Jones). Siamo però a due passi da Historic Overtown, la zona a maggioranza nera. Che ha tre radici - Caribe antillano, Africa Occidentale, il Sud Profondo - a loro volta miscelate e sedimentate. Cronache, vinili e racconti ne restituiscono un affresco di vitalità da «Harlem della Florida», jazz e segregazione in quella che veniva chiamata «Colored Town». Il frazionamento che ha poi diluito l’aura originaria ha spento i riflettori su Overtown ma qualcosa si muove, merito della Black Archives History and Research Foundation e dei primi segnali di recupero e rinascita. Il Miami River è qui vicino, Brickell e Downtown fanno da quinta e cornice. E lo stordimento storico-architettonico-antropologico, vero e proprio trademark di Miami, ha bisogno di qualche informazione per essere compreso al meglio.
Ciro Campagnoli è un imprenditore emiliano di quarant’anni. Laurea in economia (nell’ateneo della sua Bologna) e master in marketing (alla NYU), nel 2008 ha preso un biglietto di sola andata per gli Stati Uniti, nel pieno della crisi finanziaria mondiale. Per tutti i primi anni Duemila s’era occupato di attività immobiliari in Italia ed Europa dell’Est, quando s’è rimesso in gioco oltreoceano ha dovuto confrontarsi con una realtà diversa, tra New York e Miami. «Ho comprato a Miami durante la recessione del 2008, prendendomi enormi rischi», esordisce. «Le scelte imprenditoriali si basavano a quei tempi più su intuito e fiducia che razionalità: Lehman brothers era appena saltata e Miami si trovava ad avere decine di migliaia di unità nuove invendute. Brickell sembrava più una città fantasma che il centro finanziario che è ora. Quando comprai il blocco di appartamenti all’Icon Brickell si poteva girare per ore nel complesso senza incontrare anima viva». Moltissimi ci provano, non pochi ci riescono. «In Florida non si paga la personal income tax (l’equivalente dell’Irpef, ndr) e ciò attrae investimenti da tutto il mondo. Fu però impossibile trovare altri soci disposti ad investire con me, col senno di poi si sono pentiti ma in quei giorni il pessimismo era forte».
Nel ricambio continuo tra trend economici, cicli immobiliari, il gioco dei pieni e dei vuoti è alimentato da spinte diverse. Quella di matrice hipster non è l’unica, né la più forte. Ma è senz’altro la più visibile e compatta, Wynwood ne è l’esempio più evidente in città. «Nel 2002 era il quartiere delle famiglie portoricane, nel giro di pochi anni gallerie d’arte e ristoranti si sono stabilite in parecchi spazi. I suoi murales sono un museo all’aria aperta coi turisti che si accalcano per farsi i selfie». I duri e puri della street art storcono la bocca, l’arte «al servizio» di un committente impersonale non è però una novità e così, coi fermenti dal basso che si ribaltano, gli schemi consolidati si aggiornano. Restiamo dalle parti del fiume e del nuovo centro finanziario. «Se solo un anno fa Little River non entrava sulle mappe oggi è nel mirino di molti.»
Continua Campagnoli: «sono ottimista sulla crescita di Miami nel lungo periodo ma scettico nel breve. Bisogna sottostare a cicli fisiologici che non prevedono ripetute doppie cifre percentuali di crescita».
Ogni quartiere può dunque ritenersi emblematico del modello-Miami di trasformazione urbana, Downtown non fa eccezione ed il Pèrez Art Museum Miami (l’ex museo di Belle Arti) ne è l’epitome: inaugurato tre anni fa, è stato ideato dallo studio Herzog & de Meuron (yes, quelli di Basilea) e si aggiunge alle tre dozzine di musei cittadini. Lì vicino sorgerà «1000 Museum», un complesso residenziale di lusso disegnato da Zaha Hadid (yes, l’archistar di origine irachena scomparsa proprio a Miami).
Anche il porto è a due passi e Port Miami è considerata la «capitale mondiale delle crociere». Se la retorica pare autocelebrativa, le cifre lasciano però pochi dubbi, tre su tutte: è un hub che ogni anno vede quasi cinque milioni di passeggeri in transito. Diciotto compagnie di navigazione hanno una sede qui, quaranta grandi navi sono ancorate ai suoi moli. E a gennaio il Visitors Bureau (l’Ufficio del Turismo) cerca di incentivare le esperienze a terra puntando su soggiorni più lunghi col Miami Cruise Month. Del resto il 96 per cento di chi pernotta a Miami arriva in aereo (lo scalo è il secondo del Paese per arrivi internazionali).
A proposito di dati sul turismo, qualche cifra aggiornata: le presenze nel 2015 sono cresciute del 6,4 per cento, col totale di quindici milioni diviso a metà tra ospiti statunitensi - New York in testa (un mercato che da solo vale due milioni di dollari) - e dal resto del mondo. A questa ricognizione delle macro-aree dovrebbe seguire quella degli interstizi di cultura ed arti varie, la linfa meno visibile ma più dinamica di Miami: collettivi di creativi, incubatori di start-up, associazioni e iniziative private. La lista è lunga e scritta, per definizione, a matita.
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