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MA CHE È QUESTO MOBBING, MA CHE È QUESTO STALKING

Fabio Massimo Gallo

«Inizio questa relazione ricordando quello che è, e che non è, il mobbing, ma soprattutto quello che non è, perché se ne parla tanto ma non ha una definizione giuridica». Con questo lapidario esordio Fabio Massimo Gallo (nella foto), presidente della sezione Lavoro della Corte d’Appello di Roma, ha aperto un interessante dibattito, lo scorso mese, nell’auditorium del Palazzo di Giustizia di via Antonio Varisco. Un dibattito autorevolmente presieduto e moderato dallo stesso presidente della Corte d’Appello Giorgio Santacroce, e al quale hanno partecipato illustri studiosi esperti della materia tra cui il prof. Paolo Arbarello, direttore dell’istituto di Medicina legale dell’Università Sapienza di Roma, Stefano Ferracuti, Luigi Iavarone e Gioacchino Onorati. Un dibattito interessante, soprattutto, per chiarire, oltre alle intenzioni del legislatore, i dubbi di chi si chiede quale bisogno vi fosse di introdurre un altro neologismo incomprensibile nell’ordinamento giudiziario italiano, che da tempo immemorabile prevede, sotto una casalinga ma più eloquente e sufficiente terminologia, figure di reati codificati addirittura nell’antico diritto romano. Che necessità c’era di definire mobbing e stalking specie di illeciti bisognosi, forse, solo di un inasprimento delle sanzioni? «La prima definizione che noi abbiamo e che sostanzialmente è stata utilizzata dalla giurisprudenza è quella di Heinz Leymann, il creatore e il papà di questo istituto: io mi diverto sempre a sottolineare che noi italiani usiamo, per il fenomeno, la parola inglese utilizzata da uno studioso tedesco che lavorava in Svezia, mentre gli inglesi usano altri termini, e la stessa cosa fanno i francesi–ha osservato non senza ironia il presidente Gallo–. La parola ‘mobbing’ l’abbiamo recepita, ce la teniamo e ci siamo affezionati, e tra l’altro i primi disegni di legge, che per una decina di anni si sono avvicendati, hanno letteralmente confuso ‘mobbing’ con le molestie sessuali, e nessuno in Parlamento ha capito che invece era un’altra cosa». Ma insomma, che cosa è? La giurisprudenza e il foro, ha precisato Gallo, hanno ben capito che è un comportamento con il quale, nel posto di lavoro, uno o più soggetti tendono a compiere pressioni e vessazioni nei confronti di un singolo lavoratore, ma non per indurlo a licenziarsi, perché questa può essere una conseguenza. Quello che conta è che ci sia una volontà persecutoria non necessariamente finalizzata all’estromissione dal mondo del lavoro». Gallo ha ricordato che una sentenza del Tribunale di Como, tra le prime in Italia, secondo la quale il fine dell’estromissione dal lavoro era elemento caratterizzante del mobbing, fu duramente criticata dal prof. Harald Ege, presidente dell’Associazione contro il mobbing e lo stress psico-sociale; e che il fine della legge è quello di combattere il comportamento persecutorio. «Il mobbing è un insieme di comportamenti che, presi singolarmente, possono anche essere del tutto legittimi, come di volta in volta il diniego di ferie per esigenze di servizio, una sanzione disciplinare in presenza dei presupposti, l’invio del medico per una visita di controllo. Ma se tutti questi comportamenti si ripetono solo nei confronti di una persona, qualcosa di sospetto c’è», ha semplificato il presidente Gallo ricordando che la Cassazione ha definito elementi costitutivi del mobbing la continuità di questi comportamenti, la necessità di un disegno unificatore e la prova del danno. Ma come provare il mobbing? Nel dibattito, svoltosi in occasione della pubblicazione del libro «Etica del lavoro e mobbing» dell’Aracne Editrice, contenente interventi dei suddetti esperti, Gallo ha messo in luce che la prova risiede nel fatto che, mancando una definizione legislativa, il giudice è chiamato a individuare, in quel disegno doloso e persecutorio, l’unificatore dei vari comportamenti; il lavoratore deve dimostrare questo; il datore di lavoro deve dimostrare invece che non c’è stato né intento persecutorio né danno. Forme di tutela anti-mobbing sono ora contenute in alcuni contratti collettivi, ma questa tutela dipende dalla volontà delle parti collettive. Insomma, visto che il rapporto di lavoro è fondamentale per la vita delle persone e della società, il mobbing è uno svilimento dell’individuo, una forma di mortificazione non sempre addebitabile al datore di lavoro ma talvolta anche ai colleghi. Conclusione: bisogna tutelare la posizione del cittadino anche nel posto di lavoro. Ma a queste tesi, in base alla propria ricca esperienza ne ha affiancate altre, non meno verosimili e veritiere il prof. Arbarello, che si è mostrato molto scettico sui casi veri, reali di mobbing. Del resto come oggi bisogna mostrarsi scettici sul ricorso ad altre novità legislative, ad esempio la legge sulla riservatezza, usate da furbi e disonesti per fini tutt’altro che veri e legittimi. Prima di dire che esiste un caso di mobbing e soprattutto di riconoscere un danno, ha detto, occorrono conoscere i rapporti dell’ispettore del lavoro e della Asl. 

Tags: Gennaio 2013 stalking mobbing Giorgio Santacroce Fabio Massimo Gallo

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