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Il lavoro nella Costituzione e nella dottrina sociale della Chiesa

GIORGIO BENVENUTO  presidente della fondazione  Bruno Buozzi

L'articolo 1 della Costituzione conserva intatta tutta la forza. Per Hannah Arendt, «non c’è niente di peggio di una società fondata sul lavoro ma senza lavoro». Il tema del lavoro negli anni del dopoguerra è stato centrale, lo disse Riccardo Lombardi in un intervento all’Assemblea Costituente: «Non c’è nessun altro problema in questo momento, compreso quello dei salari, che sia così essenziale come quello della disoccupazione... Ora il problema dei disoccupati non si può affrontare con i metodi dell’ordinaria amministrazione, voglio dire con il metodo degli espedienti anche costosi, con il quale è stato affrontato fino ad oggi. Non può questo problema, che è anche morale oltre che politico, avere la stessa natura, lo stesso rilievo di tutti gli altri... Si sacrifichi qualunque altra cosa, si sacrifichino anche dei principi, ma il problema della disoccupazione deve essere risolto».
La nostra Costituzione dà molto spazio al lavoro. Di più di quello previsto per la famiglia. Lo Statuto Albertino è stato la Carta fondamentale dell’Italia appena unita. Ma quella non era una Costituzione accettata da tutti, molti settori della popolazione non vi si identificavano. La Costituzione nata dopo la seconda guerra mondiale, invece, è la legge fondamentale di uno Stato in cui tutti si riconoscono, soprattutto i lavoratori. Essi hanno fatto la Resistenza, avviato il Paese sulla strada del riscatto morale con gli scioperi del ‘43, difeso le fabbriche dalla distruzione, partecipato alla ricostruzione. La Costituzione ha retto sempre, come all’epoca dell’involuzione autoritaria del Governo Tambroni e negli anni del terrorismo.
È vero, ci sono nella Costituzione norme sul lavoro inattuate. Si tratta: dell’articolo 46 («Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende); dell’articolo 39 («Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso gli uffici locali o centrali... I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce»); dell’articolo 40 («Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano»).
Ci sono ritardi e permangono pregiudizi nell’applicazione della Costituzione. È necessario introdurre delle modifiche. Vanno aggiornate le norme sul lavoro. I principi sulla rappresentatività vanno meglio definiti. Va precisata la parte relativa alla partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa. Vanno chiarite le regole per esercitare il diritto di sciopero. La nostra Costituzione non è vecchia in assoluto, è invecchiata in alcune sue parti. Sui diritti, ad esempio, è ancora giovanissima e molto bella. Ma sull’articolazione dello Stato appare decisamente arretrata.
Essa è stata realizzata quando i tempi delle decisioni erano più lenti. Si veniva da venti anni di fascismo e la preoccupazione era quella di creare contropoteri e controlli per evitare nuove ricadute autoritarie. Oggi quelle garanzie, non essendo state corrette e adeguate ai tempi nuovi, portano sovente alla paralisi delle decisioni. La necessità di «accelerare» gli interventi ha avuto come corollario il consociativismo che non è la concertazione con il sindacato, è altra cosa: consiste nel dare qualcosa a tutti per costruire un generale consenso. Una strada che ha portato inevitabilmente all’aumento della spesa pubblica. Il più grande partito italiano è così diventato il «PSPA»: il partito della spesa pubblica allargata.
La «sacralità» costituzionale ha determinato l’allungamento delle decisioni, che ha favorito il consociativismo, che ha ampliato la spesa pubblica, che ha fatto impennare l’indebitamento e, alla fine di questo circolo vizioso, il pedaggio è stato pagato dalle politiche fiscali perché, non potendo incidere sulla spesa, si è sempre ricorsi a nuove imposte, a inaccettabili balzelli, a innumerevoli tasse.
In Italia c’è un crescente aumento della conflittualità tra i diversi organismi dello Stato. L’antagonismo non è più tra le classi sociali ma è ormai tra le diverse istituzioni. Invece le competenze di ognuno devono essere chiare. Si deve rinunciare all’idea che il consenso debba essere totale, unanime, perché per questa strada si va solo verso la paralisi. La semplificazione è fondamentale. Dobbiamo ammettere che le dottrine, le ideologie, le formule organizzative dei sindacati e dei partiti sono vecchie; sono l’espressione di un mondo che non vive, ma sopravvive; non sono più capaci di animare fedi, di suscitare trascinanti passioni, di ispirare etiche di cambiamento.
Se ai lavoratori l’Italia ha prestato un’attenzione prevalente con la Costituzione, la Chiesa sulla dottrina sociale si cimenta con efficacia ormai da più di un secolo. La Rerum Novarum di Leone XIII è stato il primo tassello di questa svolta; Benedetto XVI ha posto l’ultimo con la Caritas in Veritate. Ora Papa Francesco ha messo il piede sull’acceleratore. La dottrina sociale della Chiesa ruota intorno a tre cardini: la proprietà come diritto naturale; la dignità dell’uomo e del lavoro che non può essere merce; il riconoscimento della sussidiarietà come elemento integrativo al ruolo dello Stato.
La Chiesa, a partire dalla Rerum Novarum, ha sostituito al concetto di carità, almeno per quanto riguarda il lavoro e l’economia, quello di solidarietà. Poi è arrivato il Concilio Vaticano II. Quindi i Papi stranieri, prima Giovanni Paolo II, poi Benedetto XVI, infine Francesco. Se sul fronte della dottrina il messaggio resta conservatore, per quanto riguarda il lavoro e l’economia, la Chiesa esprime invece concetti innovativi mettendo sempre al centro la persona umana. Le idee della Chiesa sono sempre molto argomentate e sarebbe superficiale liquidare le varie encicliche inserendole in un contenitore di destra o di sinistra.
Molto meglio badare ai contenuti piuttosto che alla giacca, o alla tonaca, da tirare di qua o di là. La dottrina sociale della Chiesa ha il merito di esaltare il ruolo della persona in contrapposizione ai meccanismi dell’economia. Giovanni Paolo II ha usato toni durissimi contro il capitalismo. Nella dottrina sociale della Chiesa c’è il rifiuto dalla legge della giungla, c’è l’attenzione verso il Terzo Mondo. Per non parlare degli aneliti innovativi che si respirano nella enciclica Mater et Magistra di Giovanni XXIII, e che raccolgono in qualche maniera i fermenti del tempo, una fase di accelerate trasformazioni con Kennedy negli Stati Uniti e col mondo occidentale che viveva un periodo di grande espansione economica e di straordinarie sfide tecnologiche, a cominciare dalle avventure spaziali.
I laici sono rimasti fermi. Anzi sono andati indietro. Abbagliati dalla finanziarizzazione, dal mercato e dalla globalizzazione, non si sono accorti dell’attacco alla dignità della persona. I lavoratori, i giovani, le donne, gli anziani non sono più considerati socialmente ma statisticamente. Sono diventati dei numeri. È mancata ed ancora manca la capacità di intendere la relatività e la precarietà delle ideologie, di cogliere in esse quello che viene via via travolto e ridotto ad un ammasso di ruderi resi inutilizzabili dal procedere vorticoso degli avvenimenti. Lo stesso internazionalismo della sinistra, meritevole di ogni rispetto, si esprime ormai come una patetica manifestazione di sentimentalismo ecumenico.
Invece, la dottrina sociale della Chiesa ha finito per ispirare un modello di capitalismo alternativo ai modelli degli Stati Uniti e della Germania. Ai valori religiosi hanno fatto riferimento i teorici dell’economia sociale di mercato. Alla domanda su cosa fosse il liberalismo, uno dei più autorevoli esponenti della scuola di Friburgo, Wilhelm Roepke rispondeva: «È umanistico. Ciò significa: esso parte dalla premessa che la natura dell’uomo è capace di bene e che si compie soltanto nella comunità, che la sua destinazione tende al di sopra della sua esistenza materiale e che siamo debitori di rispetto ad ogni singolo in quanto uomo nella sua unicità, che ci vieta di abbassarlo a semplice mezzo. Esso è perciò individualistico, oppure, se si preferisce, personalistico». Un liberalismo piuttosto lontano dal «laissez faire» classico, che non considerava «la mano invisibile» e ordinatrice del mercato sempre giusta ed efficace.
Nell’azione della Chiesa l’attenzione ai problemi sociali che si trova in tutti gli ultimi Papi, a partire da Leone XIII, è rilevante. Wojtyla è stato estremamente critico verso l’arricchimento a tutti i costi. Benedetto XVI sulla globalizzazione ha espresso un concetto semplice ma straordinariamente suggestivo: siamo tutti più vicini ma anche tutti più soli nella lotta. E Papa Francesco sugli aspetti voraci della finanza, sulle grandi disuguaglianze che accompagnano questa crisi ha già avuto modo di esprimersi molto severamente, agendo di conseguenza.
Alla fine degli anni sessanta Paolo VI cominciò già a parlare dei rischi della globalizzazione che lui chiamava mondializzazione. Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e ora Papa Francesco, danno una interpretazione dei problemi e delle angosce del mondo del lavoro più lungimirante ed efficace di quella della sinistra sociale e politica troppo acquiescente sulle disuguaglianze nel lavoro. Dalla lettura delle encicliche si capisce che le analisi dei Papi sono figlie dei tempi. La Rerum Novarum nasce in un momento in cui la predicazione socialista fa proseliti, lo scontro di classe si allarga e la Chiesa ha la necessità di rimettere in ordine la sua dottrina sotto l’ombrello dell’ecumenismo. Giovanni XXIII parla e scrive da vero «rivoluzionario»; Giovanni Paolo II denuncia, dopo la caduta del muro di Berlino, i rischi di un liberismo sfacciato, spregiudicato, senz’anima e senza rispetto.
La Chiesa segue con grande attenzione l’evoluzione dei tempi, le encicliche non segnano mai un passo indietro. Non sono caratterizzate da ripensamenti. Il segno distintivo è la continuità. I laici, invece, fanno fatica ad apprezzare tutto questo. La grande attenzione agli aspetti sociali si accompagna nella Chiesa a posizioni di chiusura verso i diritti civili (quelli cari alla cultura laica). Sono queste ultime constatazioni che purtroppo orientano i nostri giudizi e pregiudizi. Dovremmo essere invece in grado di scindere i due piani perché la sensibilità della Chiesa sui temi sociali non solo va apprezzata (forse anche un po’ invidiata) ma va anche utilizzata come fonte di positiva ispirazione. La dottrina sociale della Chiesa può rendere meno difficile e tortuoso il cammino di sindacati e partiti in un mondo sempre più complesso, con troppe sfaccettature e contraddizioni. La Chiesa ha una dimensione sovranazionale, è ecumenica. I Pontefici scoprono nella modernità aspetti oscuri, sconosciuti, ingiusti. L’arretratezza del mondo laico dipende dal fatto che continua orgogliosamente a definirsi solo italiano. La Chiesa, invece, guarda al mondo. Soltanto la tecnocrazia e la grande burocrazia hanno la medesima capacità: sanno muoversi a livello europeo meglio dei sindacati, dei partiti, della Confindustria.
Mater et Magistra potrebbe essere una buona base programmatica per un partito «labour». In taluni casi, i Pontefici sembrano far propria la frase di Brodolini: «Da una sola parte». Giovanni Paolo II e ora Papa Francesco, appaiono come una icona anti-capitalistica. Wojtyla si rese conto che la Caduta del Muro di Berlino, a cui pure aveva contribuito attivamente, avrebbe sì portato la democrazia ma con il rischio per la persona umana di essere messa al servizio dell’economia, della finanza, della speculazione. Si rese conto che l’uomo rischiava di essere sopraffatto dal punto di vista etico. Per questa rapidità e lucidità di analisi la Chiesa affronta il mondo della globalizzazione armata di una bussola e di una visione sovranazionale. I laici, al contrario, si dedicano a polemichette su chi è di destra o chi è di sinistra, sui populismi e roba di questo tipo. Qualcuno, prima o poi, dovrà dire dove stiamo andando e, soprattutto, qual è il traguardo finale.
Adriano Olivetti a premessa di un suo saggio «Democrazia senza partiti» presentando il movimento Comunità, così guardava con speranza il futuro: «Ognuno può suonare senza timore e senza esitazione la campana. Essa ha voce soltanto per un mondo libero, materialmente più fascinoso e spiritualmente più elevato. Suona soltanto per la parte migliore di noi stessi, vibra ogniqualvolta è in gioco il diritto contro la violenza, il debole contro il potente, l’intelligenza contro la forza, il coraggio contro la rassegnazione, la povertà contro l’egoismo, la saggezza e la sapienza contro la fretta e l’improvvisazione, la verità contro l’errore, l’amore contro l’indifferenza».
La storia non risolve i problemi, ma neanche li seppellisce. Ogni processo storico contiene in sé sbocchi tendenzialmente diversi ed è certo che il modo per rendere irrimediabile una sconfitta è quello di non dare battaglia, fingendo di non accorgersi, o addirittura non accorgendosi, come sta accadendo oggi alla sinistra sociale e politica, che una battaglia sia in corso. Quando lo spirito difensivo domina, scriveva Emmanuel Mounier, è segno che l’invenzione è morta, che la preoccupazione di conservare e di conservare tal quale, ha espulso la preoccupazione di promuovere e di creare. Vale, in conclusione, il monito di Giambattista Vico: «Paion traversie, sono opportunità.   

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