Il nostro sito usa i cookie per poterti offrire una migliore esperienza di navigazione. I cookie che usiamo ci permettono di conteggiare le visite in modo anonimo e non ci permettono in alcun modo di identificarti direttamente. Clicca su OK per chiudere questa informativa, oppure approfondisci cliccando su "Cookie policy completa".

riforma della pubblica amministrazione: 25 anni di beffe ai cittadini

Roma. Palazzo Vidoni, sede del Ministero per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione

Da quanti anni, o meglio da quanti decenni esiste il Ministero per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione? Un’infinità. Tanto più che bisogna considerare tutti i periodi in cui i politici al potere gli hanno cambiato nome, definendolo di volta in volta Dipartimento per la Pubblica Amministrazione, Ministero per la riforma della Pubblica Amministrazione, Ministero per la Riforma burocratica, Ministero della Funzione pubblica, Ministero per la Semplificazione normativa, Ministero per la Semplificazione amministrativa. E via di questo passo, rinviando sempre il vero obiettivo nonostante il ricorso anche ad organismi esterni come Commissioni varie, e malgrado l’aiuto di Saggi, esperti ecc. Ministero che mai, però, ha realizzato, nonostante i tanti tam tam e annunci, alcunché di positivo a favore degli amministrati. Semmai ha emanato nel tempo una raffica di pseudo-riforme ovviamente pubblicizzate come dirette a favore dei cittadini, ma che sono servite a favorire i pubblici amministratori, ovvero i politici che sono poi sempre le stesse persone. Sono le stesse persone in quanto i politici prima svolgono una specie di praticantato politico presso Sezioni di partito e Amministrazioni locali, come Municipi, Comuni, Province, Comunità montane, Regioni, società di servizi pubblici ecc. Poi si fanno eleggere in Parlamento e arrivano al Governo o, male che gli vada, comunque ad un ambito sottogoverno.

Araba fenice e oggetto di barzellette
In sostanza nella seconda metà del secolo scorso la riforma della Pubblica Amministrazione, di cui la società italiana sentiva sempre più bisogno, era diventata l’Araba Fenice e, meglio ancora, era oggetto di battute e barzellette: ma quel Ministero serviva ai partiti e al Governo per dare un posto al rappresentante di qualcuno dei minori alleati della coalizione governativa. Una struttura, quindi, caratterizzata dall’inerzia, dalla stasi, dall’inefficienza propria e dei propri vertici. Quasi una vendetta o un prosieguo della storia, soprattutto considerando che, prima della seconda guerra mondiale, il prestigioso Palazzo Vidoni-Caffarelli ove quel Ministero a Roma ha sede, all’inizio del Corso Vittorio Emanuele II, aveva ospitato la Segreteria nazionale del Partito Fascista e, in tale funzione aveva esagerato in attivismo, creatività e inventiva. Basti ricordare le stravaganti ed esilaranti trovate del segretario di quel partito, Achille Starace, che vi trascorse sette anni ad inventare via via, e ad imporre agli italiani le più ridicole e strampalate iniziative come le attività super atletiche e paramilitari del «Sabato fascista» e l’adozione del «Voi» in luogo del «Tu» e, soprattutto, del «Lei».
Costruito nel 1500, dall’immediato secondo dopoguerra ad oggi, cioè in circa 70 anni, il Palazzo Vidoni ha ospitato una quarantina di ministri, alcuni dei quali partecipanti a due o tre Governi. Ma a mettere fine alla prolungata inerzia degli pseudo-riformatori, documentata negli ultimi decenni del secolo scorso dall’irruzione in campo politico e amministrativo dei cosiddetti «pretori d’assalto», sono stati proprio i mancati interventi del legislatore, ossia del Governo e del Parlamento, e in particolare di Palazzo Vidoni, necessari per affrontare i vecchi e i nuovi problemi emergenti nella società, le lacune, il vuoto di potere determinato alle intense cure rivolte invece dalla classe politica allo sviluppo di ben altri interessi.

In azione la procura generale di roma
L’esempio più clamoroso di tale situazione fu fornito a Roma dai primi pubblici ministeri, tra cui Gianfranco Amendola, costretti ad intervenire, quasi a furor di popolo, per supplire all’inerzia che forse è meglio definire ignavia di politici e amministratori di ogni livello, impegnati in altri lucrosi affari per se stessi e per la classe politica in generale. Nei primi anni 80 un coraggioso avvocato, Domenico Marafioti, illustrò il fenomeno che stava per sconvolgere l’Italia, in due libri: nel 1983 il primo, dall’eloquente titolo «La Repubblica dei Procuratori», e un secondo, edito nel 1985 dalla Ciuffa Editore, intitolato «La supplenza. Miti e realtà dell’egemonia giudiziaria». Supplenza ovviamente riferita al ruolo che la Magistratura si vide costretta ad assumere sostituendosi ai politici assenti, lontani, incuranti degli amministrati.
Il dibattito all’epoca fu molto intenso e vivace, vi parteciparono i nomi più illustri dell’Avvocatura e della Dottrina giuridica. Così l’avvocato Marafioti fotografò la situazione determinata dall’incosciente assenteismo di politici e amministratori: «Fu proprio negli anni 60, attraverso un boom che gli economisti dovevano poi definire artificioso, che si diffusero al massimo grado i miti della società dei consumi, cui si accompagnò l’uso spesso disinvolto del pubblico danaro, soprattutto in quei settori dove l’impresa statale si alleava a quella privata. Stimolata anche da campagne di stampa, la magistratura ritenne di porre freno allo sperpero con il ricorso sempre più frequente all’arma dell’incriminazione appunto per supplire al presunto rilassamento delle restanti istituzioni, Parlamento e Corte dei Conti, cui istituzionalmente erano affidati il sindacato e il controllo sulla spesa pubblica».
Già si sollevarono, quindi, accuse precise a supremi organi costituzionali del Paese, appunto Parlamento e Corte dei Conti; e forse era ancora presto per coinvolgervi anche la cosiddetta Giustizia amministrativa, cioè Tar e Consiglio di Stato, supremi controllori delle Amministrazioni centrali e locali. Così proseguiva e precisava Marafioti: «Per quasi un quinquennio le iniziative della Procura generale di Roma si espressero in un energico indirizzo di avocazione di indagini, di istruzioni sommarie, di ricorso ripetuto alle prestazioni di periti - talvolta privi della necessaria competenza -, di ordini di cattura anche per irregolarità fino ad allora ritenute di interesse amministrativo. Vi fu chi opinò che su tale indirizzo esercitò influenza, più che il mito dell’efficienza della Pubblica Amministrazione, l’attaccamento ai principi di austerità e di rigore amministrativo connaturati alla vecchia burocrazia, e del cui progressivo allentamento si fece carico alle generazioni emergenti delle imprese di Stato e dei vari enti di gestione, oltre al moltiplicarsi ed espandersi delle attività delle Amministrazioni pubbliche in genere».

Il dieci per cento solleva un venticello
Avviandosi alla fine, gli anni 80 si caratterizzarono per la larga diffusione di un fenomeno, ormai conosciuto e in uso non solo da parte dei politici, dei pubblici amministratori e dei grandi operatori economici, ma di tutta la popolazione: era divenuto infatti «ufficiale» il pagamento di «mazzette» per ottenere qualsiasi atto, autorizzazione, provvedimento emesso dalla Pubblica Amministrazione e dalle strutture pubbliche equiparate, in particolare dagli enti di gestione e società a partecipazione statale come Iri, Eni, Efim ecc. Per qualunque cittadino divenne scontato il fatto che si doveva pagare almeno il 10 per cento del valore del beneficio ricevuto, o, meglio, del riconoscimento di un proprio diritto.
Pubblici amministratori e politici corrotti cominciarono però, allora, ad avvertire «odore di bruciato»; a capire che quel venticello spirante dalle Procure, andava via via diffondendosi e soprattutto rinforzandosi, pronto a diventare un vento impetuoso, anzi una tempesta, destinata ad essere, in breve, pilotata dalla Procura della Repubblica di Milano e poi, più precisamente e personalmente, dall’allora sostituto procuratore Antonio di Pietro. All’inizio degli anni 90 la procella assunse un nome specifico, nuovo, esclusivo: «Tangentopoli». E il pool di magistrati milanesi che vi si dedicò venne definito dalla stampa «Mani pulite». Erano finiti i tempi d’oro della cosiddetta Prima Repubblica; personaggi politici di rilievo e partiti ne avevano accelerato la caduta. La classe politica fu costretta a prenderne atto, ad abbandonare la propria inerzia, a muoversi dinanzi ad un elettorato sempre più sfiduciato e ostile nei confronti di politici e pubblici amministratori.

Continua la turlupinatura
E proprio allora cominciò la solenne, capziosa, infinita turlupinatura ovvero beffa a carico di tutti i loro amministrati, da parte di politici e pubblici amministratori. Fu presentato in Parlamento un disegno di legge la cui approvazione fu molto travagliata. I politici e gli amministratori pubblici, corrotti e corruttori, si sentivano infatti ormai braccati, ma trovavano difficile uscire dalle difficoltà approvando una legge espressamente in loro favore. Stanca di irregolarità, appropriazioni di pubblici beni, malgoverno e malamministrazione, l’opinione pubblica avrebbe reagito negativamente in sede elettorale. Nello stesso tempo continuavano a piovere denunce, ad avviarsi indagini della magistratura a carico dei protagonisti e autori di operazioni illecite, di abusi di potere, di corruzione, malversazione ed altro.

Salvagente invisibile per politici corrotti
Bisognava escogitare un provvedimento che ufficialmente e apparentemente andasse a favore dell’elettorato, della popolazione, del buon governo, dell’onestà di amministratori pubblici e politicanti. Ma quale? Anche se poco appariscente all’esterno del Palazzo, la preoccupazione era elevatissima all’interno sia perché molti parlamentari erano direttamente coinvolti nella malagestione, sia perché gli amministratori locali ad essi facenti capo, o i consiglieri di amministrazione delle moltissime società rientranti nella galassia pubblica delle partecipazioni statali, esercitavano fortissime pressioni su di loro per essere garantiti, per essere posti al sicuro da quella violenta tromba d’aria in cui si era ormai trasformato il venticello spirante dalle Procure.
Una soluzione urgentissima andava trovata, diretta a sottrarre per il futuro i politici, operanti anche in veste di amministratori pubblici centrali o locali, da rischi di indagini, inchieste, incriminazioni, processi e arresti. Chi non ricorda che fu proprio un componente della Procura di Milano, appunto Antonio di Pietro, ad indagare e ad arrestare anche chi, per la propria posizione o il proprio lavoro, «non poteva non sapere» che nel suo ufficio o in quello del suo dirigente o leader politico erano stati compiuti reati di corruzione, abusi d’ufficio ed altro? E pertanto era anche egli da considerarsi sicuramente complice dell’autore?
Il giornalista del giornale Il Tempo di Roma Enzo Carra, divenuto addetto stampa del segretario nazionale della Dc ed anche Capo del Governo Arnaldo Forlani, fu incarcerato e mostrato da un’infame e infamante emittente televisiva con le manette ai polsi, appunto perché, secondo il nuovo principio di tecnica giudiziaria, «non poteva non sapere», cioè non poteva non conoscere gli eventuali illeciti compiuti appunto dagli illustri politici suoi capi. C’era quindi da gettare immediatamente, in tale mare, anzi in tale oceano in burrasca, un salvagente per tanti responsabili della malagestione, malamministrazione e malapolitica dell’epoca, operanti a tutti i livelli.
Ma doveva essere un salvagente camuffato, anonimo, invisibile, non certo verniciato di rosso e giallo come quelli veri. Doveva apparire, anzi, uno strumento di garanzia e di salvaguardia per tutti i cittadini, doveva essere introdotto quasi silenziosamente nell’ordinamento, senza destare clamore, senza attrarre l’attenzione degli amministrati e di quelle fastidiose associazioni via via costituitesi in quegli anni, apparentemente a difesa dei cittadini. Associazioni che, grazie ai consensi e ai voti raccolti dai loro esponenti, ufficialmente impegnati per amor di popolo e di patria a sostenere l’onestà e ad accusare i corrotti, in breve tempo arrivarono anche essi in Parlamento e nei posti di potere. E che poi divennero ed operarono peggio dei vecchi, acquisendo e accumulando cariche e soprattutto sostanziali benefici finanziari e patrimoniali. Un primo effetto di Mani Pulite fu, pertanto, l’allargamento della classe dedita alla politica, anzi alla malapolitica.

Il nuovo bello doveva ancora venire
Ma il nuovo bello doveva ancora venire e non è detto che questo avvenne con l’approvazione da parte del Parlamento, l’8 giugno del 1990, del disegno di legge numero 142, destinato a diventare più importante di tanti altri che avevano contrassegnato la storia d’Italia, quanto meno dallo Statuto albertino del 1848 alla fine del ventennio fascista nel 1943 e al varo della Costituzione repubblicana del 1948. Anche se nei decenni post-fascisti era stata emanata qualche norma innovatrice, era ancora in vigore ed esaudiva egregiamente tutte le esigenze dei cittadini il vecchio Testo unico della Legge comunale e provinciale, in vigore sin dal 1934,varato in piena era fascista con il «regio decreto» del 3 marzo 1934 n. 383.

La grande trovata
L’effetto principale della legge 142 del 1990, oltre ai vari che descriveremo nei prossimi numeri di Specchio Economico, fu essenzialmente di ordine psicologico, oltreché ovviamente penale. Fino ad allora, infatti i provvedimenti emanati dalle Amministrazioni locali erano firmati pensosamente dai massimi responsabili di tali organi, ossia rispettivamente da sindaci, presidenti di Province e di Regioni, salvo altro. I quali, grazie a tale potere, potevano gestire, personalmente e direttamente, i rapporti con i privati e soprattutto con le imprese; pertanto, se tali atti erano illeciti, se erano frutto di intrallazzi, abusi di potere, corruzione ecc., ne erano personalmente responsabili gli stessi. Proprio questo aveva scatenato l’azione moralizzatrice delle Procure della Repubblica e in particolare della task force di Mani Pulite. Molti amministratori furono oggetto di indagini e processi, ma molti altri scamparono a tale pericolo pur dovendo trascorrere per mesi, per anni, notti insonni.
La surrettizia, segreta, insidiosa riforma del vigente ordinamento relativo alle Pubbliche Amministrazioni, centrali e locali, doveva avvenire infatti in silenzio, ma all’insegna di uno sbandierato e clamoroso annuncio di provvedimenti a favore dei cittadini, di accoglimento delle loro istanze, di riconoscimento dei loro diritti per decenni ignorati, calpestati, violati. Il pretesto addotto per volgere la riforma a favore dei riformatori, ossia dei politici e amministratori pubblici, era di una semplicità lapalissiana: potendo essere eletti, anzi avendo diritto di essere eletti in Parlamento e nelle Amministrazioni locali tutti i cittadini, pertanto anche operai, contadini, imprenditori, artigiani e tutti coloro che non avessero riportato condanne e avessero un minimo titolo di studio, fu escogitato un principio determinante e discriminante: quale responsabilià costoro potevano avere in campi che ignoravano del tutto? E che anzi avevano anche il diritto di ignorare?
Come poteva un agricoltore, un metalmeccanico, un portalettere, conoscere ad esempio tutte le leggi urbanistiche nazionali, regionali ed anche europee, piovute sulla testa degli italiani dagli anni 60 in poi, arricchite da continue, incomprensibili e introvabili modifiche, corredate da una marea di sentenze delle varie magistrature spesso in contrasto tra loro? Ecco la grande trovata, l’inizio di una serie infinita di trovate che hanno portato alla drammatica situazione attuale caratterizzata dall’assoluta mancanza di rispetto verso il cittadino, e dall’arroccamento nel potere centrale e locale di una massa di burocrati e politici ultrapotenti. Una vera e propria «casta» non tanto nel senso indicato dai giornalisti Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo nei loro articoli sul Corriere della Sera e nei loro libri. Ma nel senso di una dittatura insidiosamente e subdolamente insediatasi nel Paese eliminando, legge dopo legge, tutti i diritti dei cittadini, a cominciare proprio da quelli che le pseudo riforme sostenevano di voler istituire o comunque riconoscere e rinforzare.

Immunità, il gioco delle tre carte
Per cui, se la magistratura aveva proceduto contro politici e amministratori pubblici sul filo di un principio giusto o sbagliato che fosse - ma forse più giusto che sbagliato -, quello cioè del «non potere non aver veduto» i misfatti di politici e amministratori corrotti, venne usato un principio ugualmente assurdo e campato in aria, ma valido almeno, in quel drammatico frangente, a salvare i suoi autori dal vortice giudiziario scatenatosi su Tangentopoli. Quel principio era basato sul fatto che il politico e l’amministratore pubblico «non potevano sapere» cioè non potevano conoscere l’infinita dotazione di leggi esistente in Italia, per cui, se loro avevano posto una firma in calce a un provvedimento illegittimo, l’avevano fatto su consiglio e su suggerimento dei dirigenti sottostanti, anzi addirittura in seguito all’iniziativa, alla promozione, alla proposta di emanazione di un atto perorato dalla dirigenza.
Si cominciò, insomma, a giustificare in tal modo e quindi a sostenere la «depenalizzazione» dell’operato di un politico o amministratore pubblico corrotto, ladro, beneficiario diretto di un proprio atto illegittimo, di una violazione di legge. E, conseguentemente, a scaricare su una categoria di persone, i dirigenti, anche su quelli più onesti, più ligi alle leggi, più orgogliosi e rispettosi del perfetto funzionamento della macchina amministrativa, se non proprio la responsabilità provata quanto meno il dubbio sulla loro infedeltà, corruzione, appropriazione di beni e denaro pubblico.
Un primo passo, molto importante e significativo, era stato quindi compiuto con il varo della legge 142 del 1990, avvenuto in piena stagione di Tangentopoli, caratterizzata dal crollo semitotale del regime della cosiddetta Prima Repubblica. Nella stessa legge erano state inserite varie altre disposizioni tendenti allo stesso scopo: a mantenere l’immunità penale per i parlamentari nazionali, immunità la cui cancellazione veniva ormai richiesta quasi a furor di popolo, e alla quale gli stessi parlamentari capirono di dover rinunciare per placare la rabbia dei cittadini contro la politica. Ma per i pubblici amministratori non parlamentari, che non godevano istituzionalmente dell’immunità penale, e sui quali era in atto il trasferimento delle responsabilità amministrative a livello nazionale e locale, si imponeva qualche iniziativa legislativa per sottrarli ai prevedibilissimi «incidenti» cui in futuro sarebbero sicuramente andati incontro.

Altro che tangentopoli!
I più illustri esperti di diritto costituzionale, pubblico e amministrativo, preferibilmente parlamentari e politici, furono allora incaricati di attuare una vera rivoluzione in tale campo o meglio una controrivoluzione camuffata da rivoluzione, da realizzare insidiosamente, lentamente, e sempre apparentemente a favore dei cittadini, ma in realtà diretta solo a non far più correre il rischio a politicanti e pubblici amministratori di incappare in una nuova Tangentopoli che, grazie anche a tali nuove leggi, avrebbe potuto ed anzi dovuto ricrearsi negli anni seguenti. Come in realtà è avvenuto perché quelle mini e maxi riforme hanno raggiunto il loro vero, segreto scopo.  

Tags: Dicembre 2014 pubblica amministrazione P.A. Victor Ciuffa politica

© 2017 Ciuffa Editore - Via Rasella 139, 00187 - Roma. Direttore responsabile: Romina Ciuffa