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GIORGIO SANTACROCE: IERI ED OGGI, IL RITRATTO DI DUE DIVERSE SOCIETà

Giorgio Santacroce, presidente della Corte d’Appello di Roma: «Esprimo la mia indignazione verso la sottocultura degli ultimi anni, maturata sotto gli ombrelloni di spiagge di massa o all’ombra di abeti di montagne sconosciute, alimentata da una classe dirigente spesso degradata e degradante dove sono state lanciate in tutti i campi tante iniziative discutibili e paradossali, come l’insegnamento dei dialetti»

Il Premio Mattonella all’insigne ex allievo

Giorgio Santacroce, presidente della Corte d’appello di Roma, il regista Carlo Lizzani e lo stilista Bruno Piattelli: tre mondi, apparentemente lontani tra loro, si sono ritrovati a Roma, in un antico edificio fatto costruire tra il 1582 e il 1584 da papa Gregorio XIII Boncompagni per ospitare il Collegio romano, oggi sede del Ginnasio-Liceo Ennio Quirino Visconti. Si tratta di tre dei tantissimi e noti ex allievi del famoso istituto, tornati in quella solenne e austera atmosfera per un’occasione insolita: la consegna del Premio Mattonella 2012 a un illustre personaggio che vi ha studiato, appunto Giorgio Santacroce. Perché la Mattonella? Perché si tratta di uno dei pochi elementi dell’antico pavimento del Salone o meglio dell’Aula Magna, salvati in un rifacimento da un vecchio custode e conservati nel piano interrato. Grazie all’ospitalità della preside Clara Rech, il Visconti è stato testimone per un mattino di una super-lezione impartita alle centinaia di studenti dall’esimio ex allievo, ricco non solo dei preziosi saperi appresi in quel Liceo ma anche di una profonda esperienza maturata in tanti uffici, funzioni e incarichi pubblici ricoperti nell’ambito della Giustizia, civile e penale. Un’esperienza che desidero trasmettere ai giovani attraverso il racconto di una vita ma soprattutto il raffronto tra due società non lontane tra loro nel tempo - 30 o 40 anni - quanto nei costumi, nei gusti, nei sentimenti, nelle aspettative. Titolo dell’intervento dell’illustre magistrato: «I valori umani della cultura classica nella società del Terzo Millennio».
La conferenza di Giorgio Santacroce.

Grazie di cuore a tutti. È con animo sincero e commosso e con un pizzico di nostalgia che torno in questo prestigioso Istituto che rievoca in me i ricordi di un’epoca lontana, quando, come i tanti giovani presenti oggi in quest’aula, frequentavo il ginnasio e il liceo (Sezione C). E sono, quindi, profondamente grato a chi, assegnandomi la «Mattonella» per l’anno 2012, mi ha offerto la possibilità di riunire e rivedere tanti amici, con alcuni dei quali si è instaurato un percorso privilegiato di vita, perché gli anni del ginnasio e del liceo sono serviti a consolidare e perpetuare un’amicizia nata sui banchi di scuola, e a rinsaldare una comunanza di ideali e di sentimenti che si protrae da allora.
È dunque con un senso di profonda riconoscenza che rivolgo un sentito e affettuoso ringraziamento a Carlo Lizzani, Presidente dell’Associazione degli ex Alunni del Visconti e regista di tanti film di successo e di vitale impegno sociale, al Dirigente Scolastico Professoressa Clara Rech, a tutti coloro che mi hanno sostenuto in questi anni con il loro apprezzamento e la loro fiducia, e a chi ha ricevuto questo premio prima di me, come Bruno Piattelli e Michele Tedeschi, che fanno parte di quel gruppo ristretto di persone con le quali è sorto un legame affettivo inossidabile e che hanno voluto essermi accanto anche in questo momento gratificante della mia vita.
Dico subito che, quando ho appreso che mi era stato attribuito questo riconoscimento, ho provato una forte emozione. Ricordo che un’emozione molto simile la provai il 4 febbraio 1985 quando il presidente della Repubblica Sandro Pertini mi consegnò la Medaglia d’Oro come «Benemerito della Scuola della Cultura e dell’Arte», per l’esito felice di alcune inchieste giudiziarie da me condotte che avevano portato al recupero di alcuni importanti dipinti trafugati da chiese e musei, il più celebre dei quali è stato quel «Ritratto di gentiluomo» di Antonello da Messina che è riprodotto in tutti i libri di storia dell’arte. Non è facile descrivere i sentimenti che riempirono il mio cuore quando l’allora ministro per i Beni culturali on. Antonino Gullotti mi comunicò la notizia, ma ancora più grande e intensa fu l’emozione di scoprire che, oltre a me (anzi, proprio vicino a me), il Premio veniva conferito quello stesso giorno e in quella stessa occasione a Natalino Sapegno, storico insigne della letteratura italiana.
Ma una sensazione e un’emozione nuove e per certi aspetti inaspettate ho avvertito nell’apprendere che questa volta si aggiungeva, al conferimento di un premio, la richiesta di tenere un seminario di studio su un argomento estraneo al mio ambito specifico di conoscenze e di interessi. E di doverlo tenere qui, nell’Aula Magna del Visconti, valorizzando così la naturale vocazione di questo Istituto a luogo di incontro e di dibattito di idee, ma soprattutto a luogo di alta formazione delle nuove generazioni. Nell’avviarmi alla conclusione di una lunga carriera, tornare in questo Istituto mi è parsa un’occasione preziosa per saldare idealmente il punto di partenza e quello finale di un itinerario di studi e di crescita - umana e professionale - che negli anni non ha mai conosciuto interruzioni.
Se non mi sono tirato indietro e ho accettato di buon grado la sfida è perché ho sentito che qualcosa da dire sulla cultura classica e sui suoi valori ce l’avevo anch’io, se non altro perché dalla tradizione classica e dai suoi principi ispiratori ho tratto giovamento nell’intero arco della mia vita e di essi mi sono largamente avvalso in quell’attività di magistrato che esercito da quasi 50 anni. Gli studi classici si sono rivelati utili a sviluppare in me capacità di concentrazione, di ragionamento e di riflessione, mi hanno insegnato quelle discese in profondità che solo la cultura classica è in grado di dare; mi hanno fatto maturare una concezione granitica del bello e del brutto, del giusto e dell’ingiusto, del lecito e dell’illecito; e mi hanno trasmesso idee e sentimenti che costituiscono ancora oggi il mio patrimonio etico e culturale di base.
Sono queste, del resto, doti indispensabili per un magistrato che deve coniugare il rigore della conoscenza e della concreta applicazione del diritto con uno sforzo costante di comprensione dell’animo umano, con una buona dose di equilibrio e con un’indiscussa e indiscutibile integrità morale, oltre i confini di ciò che è normale pretendere da chi svolge altre, pur importanti, funzioni. Perché quella del magistrato è una professione che racchiude in sé una profonda vocazione civica e necessita di un forte senso di servizio in difesa della credibilità delle istituzioni dello Stato. Così mi è stato insegnato a viverla, così ho cercato di esercitarla in tutti questi anni che mi hanno spinto a confrontarmi con pezzi di quella che oggi può essere considerata parte della più recente «storia d’Italia». In perfetta coerenza con quella tensione morale e quell’idea di negotium e di impegno per il bene comune, che è piena eredità dei classici.
Non è un caso che i classici abbiano svolto un ruolo fondamentale anche nel campo di scienze sociali a me congeniali, come il diritto e la giustizia. Basta leggere il libro V dell’Etica di Aristotele, nel quale il filosofo sostiene che «La giustizia è la virtù più efficace, e né la stella della sera né quella del mattino sono così meravigliose, perché nella giustizia ogni virtù si raccoglie in una sola. Ed è una virtù perfetta al più alto grado perché chi la possiede è in grado di usare la virtù anche verso gli altri, e non solo verso se stesso». Una riflessione, questa, quanto mai attuale, che mette l’accento proprio sulla necessità di guardare anche agli altri, alla collettività, all’evoluzione della società. Una visione fortemente radicata nel mondo antico, che oggi sembra evaporata e non solo nell’ambito della giustizia.
So bene che, per parlare di cultura classica e per dire qualcosa che non sia stato già detto, dovrei essere più abile di un prestigiatore. Sono consapevole di entrare in un terreno molto insidioso e controverso, dove esistono opinioni radicate e pregiudizi altrettanto immodificabili, che hanno fomentato nei secoli una curiosa dialettica storica e ideologica tra classicismo e anticlassicismo. Laddove queste due linee sono spesso intrecciate e sovrapposte molto più spesso di quanto comunemente non si pensi. Con questo intervento desidero semplicemente condividere un discorso di buon senso, che intende l’espressione «cultura classica» solo come un’endiadi dotata di suggestione. Non è in fondo l’aggettivo «classica» che conta, ma il sostantivo «cultura», inteso in senso lato come formazione umana, civica e morale dell’individuo.
Solo in questo modo ha senso recuperare i tratti peculiari della nostra identità culturale e rivitalizzarla per coglierne i significati e i valori che sottende. E comincerei esprimendo tutta la mia indignazione verso la sottocultura di questi ultimi anni, maturata sotto gli ombrelloni di spiagge di massa o all’ombra di abeti di montagne sconosciute, alimentata da una classe dirigente spesso degradata e degradante, dove sono state lanciate in tutti i campi tante iniziative discutibili e paradossali. Basti pensare, proprio con riferimento alla scuola, alla proposta di dare spazio all’insegnamento dei dialetti o di far sostenere l’esame di dialetto agli insegnanti ai fini di un loro reclutamento su base regionale.
Non sono il primo né l’ultimo a dolersi di questo preoccupante impoverimento (e imbarbarimento) culturale. Nella scorsa metà di febbraio il quotidiano «Il Sole 24 Ore» ha pubblicato un articolo che fornisce una serie di indicazioni «per una Costituente della cultura», offrendo elementi di riflessione non convenzionale per sollecitare ogni azione che sappia riportare al centro del dibattito pubblico il valore della cultura, della ricerca scientifica, dell’innovazione e dell’educazione a vantaggio del progresso del nostro Paese. Il fatto più emblematico è che tre ministri dell’attuale Governo tecnico (Corrado Passera, Lorenzo Ornaghi e Francesco Profumo), sotto la spinta di questa sollecitazione, hanno inviato una lettera al direttore del «Corriere della Sera», per evidenziare come le prospettive di ripresa e di tenuta della coesione sociale siano legate a programmi virtuosi di cambiamento che possono avviarsi solo mediante iniziative di natura culturale, in grado di salvaguardare il nostro civismo, il nostro senso di responsabilità, gli spazi di una vera democrazia, e il nostro rapporto con la cosa pubblica e il bene comune.
I tre ministri segnalano che l’investimento in cultura, ricerca e educazione in Italia è largamente insufficiente, se confrontato su scala internazionale. Sottolineano che mancano da noi la cura e la salvaguardia di una «Repubblica della conoscenza», che sono condizioni indispensabili di una società aperta e moderna e sono elementi costitutivi dell’identità del Paese, della sua storia e della sua civiltà. Per concludere che, se si vuole uscire dal pauroso vuoto di valori che ci opprime, occorre restituire a ogni livello di istruzione, dalla scuola elementare all’università, una formazione di qualità e di alto livello, in grado di invertire la rotta per superare una crisi culturale che non ha precedenti.
Si deve tornare a investire sulla cultura. Quella classica, si aggiunge. Ma che cosa s’intende per «cultura classica», qual è il raggio di estensione del suo significato? C’è chi si attesta su un uso del termine rivolto ad indicare in blocco l’orizzonte letterario, artistico, storico e filosofico dell’antichità greca e latina, racchiuso fondamentalmente nell’esegesi delle lingue cosiddette morte, la cui lettura «diretta» richiede una specifica competenza linguistica. E c’è chi manifesta un atteggiamento di diffidenza verso la cultura antica, considerando il latino solo un immenso serbatoio di frasi memorabili con cui condire i propri ragionamenti, in un compiaciuto tentativo di abbellimento: cum grano salis, sic transit gloria mundi, carpe diem, cui prodest.
Ma c’è anche chi, con un passo ulteriore, estende il significato dell’espressione fino a comprendere ogni esperienza culturale che si ponga con una forza e un valore essenziali e determinanti, per cui classici non sarebbero soltanto gli antichi né coloro che mirano a far risorgere l’antico, ma classici sono anche gli scienziati, i poeti, i filosofi, gli artisti di epoche diverse da quella greco-romana. Limitando il campo alla letteratura, classici sono tutti gli autori ritenuti degni di essere letti al di là dei limiti del loro tempo, come classiche sono tutte le opere ritenute costitutive di identità culturale e provenienti dagli orizzonti più diversi, vicini o lontani, che dovrebbero far parte del patrimonio dell’umanità.
Significativa è l’opinione di Italo Calvino che, in un citatissimo intervento del 1981 («Italiani, vi esorto ai classici», poi raccolto nel volume postumo «Perché leggere i classici?») definisce classico (leggo testualmente) «un libro che si configura come equivalente dell’universo, al pari degli antichi talismani» (pagina 16) e considera classico «ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno».
Fuori di metafora, autori e libri classici sono quelli che riescono ad essere nello stesso tempo attuali e inattuali e ci dicono qualcosa di essenziale sia sul significato di quel mondo lontano da cui traggono origine, sia sul significato del nostro mondo e della nostra vita. Classici sono quei libri, insomma, che fanno sì che ciò che ci è distante - nel tempo, nello spazio, nella storia, nell’esperienza -, ci venga incontro come presente, come «proprio» nel momento stesso in cui è «altro». Attraverso questo intreccio tra «identità» e «alterità», possiamo percepire il senso del nesso che lega passato, presente e futuro, memoria, coscienza e speranza, e reso in modo calzante dalla formula con cui Giuseppe Pontiggia, uno dei grandi scrittori del Novecento, ha definito i classici, nel titolo di un suo libro del 1998, «I contemporanei del futuro», che indica un modo estroso e vitale di avvicinarsi alla lettura dei grandi autori del passato, dalla navigazione degli Argonauti alla stufa di Cartesio, dagli amori di Ovidio ai pirati di Defoe.
C’è, dunque, chi considera la cultura classica una «modalità del conoscere», per rimarcare l’estrema labilità dei confini di tempo e di spazio che separano le varie discipline. Non ha più molto senso, quindi, considerare l’insieme delle conoscenze «classiche» un relitto del passato, espressione di un’utopia elitaria che genera una sorta di rifiuto verso tutto ciò che sul piano pratico non serve perché insignificante, anzi nullo, scarsamente spendibile nel mondo del lavoro e nella società civile, e privo di valore commerciale in un universo che valuta il bagaglio culturale di una persona in relazione alla sua capacità di influenzare le borse e di pesare sulle scelte dei mercati.
Il Terzo Millennio vive purtroppo un profondo vuoto di memoria storica e si è aperto con una prospettiva fortemente innovata. Il sistema della scienza e della tecnologia, con i suoi mezzi di produzione e di comunicazione di massa, ha radicalmente trasformato il modo di vivere e di rapportarsi con gli altri. La civiltà industriale e le dinamiche proprie della globalizzazione tendono sempre più verso uno scenario culturale omogeneizzato, massificato e per certi versi banalizzato. La televisione e la pubblicità propongono modelli di vita e di comportamento rivolti al consumo esagerato del presente, al culto dell’apparenza e della performance, all’assillo della sorpresa e della trasgressione.
L’unica dimensione veramente centrale è la simultaneità, che invita in misura crescente a una navigazione di superficie, scarsamente compatibile con il lento e meditato confronto della densità delle pagine scritte e con il loro procedere lungo e avvolgente. I giovani, e non solo loro, non possono fare a meno di indossare abiti pret à porter tutti rigorosamente uguali, di consumare cibi e bevande prodotti industrialmente su larga scala, differenziati nei tipi che possono più facilmente captare le loro scelte e pubblicizzati secondo formule che i persuasori occulti delle agenzie pubblicitarie mirano a imporre in modo indifferenziato, rendendo i gusti sempre più uniformi, per semplificare le tecniche produttive e contenere i costi di magazzino.
Interrogarsi sulla cultura classica nella società del Terzo Millennio significa chiedersi perciò quale funzione questo tipo di cultura possa svolgere in una società altamente tecnologizzata e completamente diversa da quella in cui quel modello culturale è stato concepito e ha funzionato. Il che impone però di sbarazzarsi di un equivoco assai diffuso. E cioè che l’innovazione tecnologica e l’avvento di Internet, riguardati come nuove forme di cultura, si debbano percepire come minaccia alla purezza della cultura classica, alle sue radici e ai suoi valori. Al contrario di quello che comunemente si crede, le nuove tecnologie non arruolano solo programmatori e grafici. Tecnici, insomma.
Il futuro, ha scritto Umberto Eco, sarà sempre più dominato dal software a scapito dell’hardware, ovvero dall’elaborazione di programmi più che dalla produzione di oggetti che ne consentono l’applicazione. Steve Jobs è diventato quello che è diventato non perché ha progettato i computer, ma perché ha ideato programmi. La Rete, in fondo, più che una rivoluzione tecnologica, si è rivelata una straordinaria rivoluzione della comunicazione e sono i suoi «contenuti», più che gli effetti speciali informatici, che decideranno sempre di più il suo successo e il suo sviluppo nel futuro. Anche nel mondo della tecnologia, insomma, l’avvenire è di chi sappia ragionare. E si dà il caso che lo studio e la cultura «classica» siano un allenamento eccezionale della mente a elaborare, inventare e progettare.
Ad onta di certi aspetti folkloristici (come la bizzarra iniziativa di essere guidati alla scoperta del Colosseo, tra vetuste arcate e imperiture gallerie, ascoltando il commento in latino), la cultura classica non ha nessun timore di confrontarsi con la cultura moderna, apparentemente orientata verso l’esclusivo tecnicismo, perché il capitale di cultura di cui dispone il Paese è estremamente variegato, e comprende il sapere umanistico, il sapere scientifico e anche il sapere professionale. Il futuro è senz’altro di chi sappia unificare con intelligenza queste diverse forme di sapere, facendo di esse il contrappeso all’eccessiva tendenza tecnologica della realtà contemporanea, che è destinata a rivelare i propri limiti, se non si accompagna a una solida coscienza storica delle proprie radici culturali.
Vorrei concludere, partendo da una constatazione, scontata forse, ma che credo voi tutti condividiate. Il nostro Paese, ma forse il mondo intero, sta vivendo ormai da qualche anno un abbassamento strisciante del senso dell’etica e della cultura dei doveri, a livello individuale e a livello collettivo. A favorire questo preoccupante impoverimento di valori che colpisce i più disparati settori della vita sociale è un equivoco più ingenuo che velleitario: e cioè che soltanto i diritti, raccolti in un elenco lungo più di un lenzuolo e senza alcun contrappeso, siano decisivi e indispensabili per l’emancipazione dell’uomo, dimenticando che solo individui con un forte senso dell’etica e del dovere possono conquistarli e difenderli.
Sul versante della giustizia, che è quello di cui mi occupo, il decadimento dell’etica collettiva e della cultura dei doveri ha contribuito nel tempo ad aggravare l’inefficienza cronica e di sistema di un servizio essenziale e irrinunciabile come è quello che svolge la magistratura, costringendo tutti a sperimentare una legalità difficile, cioè una legalità che fa sempre più fatica a imporsi e che, proprio per questa sua incapacità, finisce per evocare una legalità perduta e svuotata di contenuti, aprendo la strada alla continua violazione dei principi fondamentali del vivere civile e democratico. Non è questo però il tempo per una rassegnazione cupa, a volte silenziosa, altre volte rumorosa, che impedisca di ritrovare una speranza costruttiva per il futuro, superando il senso di precarietà e di incertezza che sembra caratterizzare l’avvenire in questo difficile momento economico e politico.
Cari ragazzi, nella scelta degli studi universitari che farete uscendo da questo liceo, mentre vi invito a coltivare la speranza di un domani migliore, vi esorto anche a non perdere mai la spensieratezza e l’entusiasmo che deve alimentare i vostri sogni e le vostre aspirazioni. Prima o poi quel rapporto fra competenza e valorizzazione delle proprie specifiche attitudini tornerà ad affiorare: non certo restaurando quel mondo mitico in cui tutti si sentono garantiti, dove lo Stato dà gratis tutto a tutti, perché ci sono solo diritti e i doveri non si sa nemmeno cosa siano, perché quel mondo, in queste forme estreme, non esiste e non è mai esistito.
La sola verità che sento il dovere di dirvi è che il mondo è profondamente cambiato e forse cambierà ancora. Per affrontarlo occorrono rigore, onestà, disponibilità alla fatica e coraggio di accettare sfide non facili, per rispondere alle quali tutto serve meno che gli slogan para-pubblicitari e le leggende metropolitane. Essere equipaggiati di una buona cultura resta il bagaglio migliore per vincere in concreto questa sfida. L’importante è che nessuno di voi si lasci suggestionare da quello scenario frustrante e avvilente preconizzato da molti falsi soloni di questo Paese. Perché la disperazione più grande che possa impadronirsi di una società, ha scritto Corrado Alvaro, un altro grande scrittore del ‘900, è il dubbio che vivere onestamente sia inutile.

Tags: Settembre 2012 premio magistratura Giorgio Santacroce

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