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GIULIO MAIRA: LA BELLEZZA DEL CERVELLO, LA MENTE CHE INTERPRETA L'ARTE

Giulio Maira, professore di Neurochirurgia del Policlinico Gemelli di Roma

L'Associazione Atena Onlus il 14 giugno scorso ha organizzato in Campidoglio a Roma una manifestazione scientifica nel corso della quale sono stati conferiti due premi ad eminenti personalità del mondo scientifico: il Premio Roma al prof. Semir Zeki, neurobiologo di Londra, e il Premio Atena alla prof.ssa Cristina Alberini, ricercatrice del Mount Sinai di New York. Si è svolta quindi una Tavola Rotonda sul tema «The Beautiful Brain. Scienza e Arte: Il ruolo del cervello e della mente nell’interpretazione del bello». Riportiamo l’interessantissimo intervento di Giulio Maira, professore di Neurochirurgia al Policlinico Gemelli di Roma, membro del Consiglio Superiore di Sanità, presidente dell’Associazione Atena Onlus.
La discussione su cervello e arte ci ha permesso di entrare in un aspetto intrigante e misterioso delle funzioni del cervello, e cioè il suo coinvolgimento nella gioia e nei sentimenti. L’arte, tra le manifestazioni più elevate del cervello umano, capace di suscitare sensazioni ed emozioni, rappresenta, infatti, una testimonianza preziosa sul funzionamento del cervello e, in ultima istanza, dell’uomo. Il cervello è un organo di una complessità strabiliante. Consta di circa 30 miliardi di neuroni capaci di realizzare milioni di miliardi di connessioni, ed è dall’azione integrata di questa moltitudine di unità che dipendono le funzioni più importanti del nostro organismo: le attività sensoriali e motorie; la coscienza e tutte le funzioni superiori intellettive, linguistiche, concettuali; i nostri comportamenti. È parte di un circuito, il sistema nervoso, che lo collega al resto del corpo attraverso una rete di connessioni nervose che gli permettono di ricevere informazioni dall’esterno e di pianificare risposte di tipo emotivo, motorio e comportamentale. Il rapporto arte e cervello è molto complesso e negli anni ha intrigato i cultori della storia dell’arte e gli studiosi dei meccanismi di funzionamento del cervello.
La domanda alla quale oggi cerchiamo di dare una risposta è la seguente: se un’opera d’arte ci appare bella e ci emoziona, fino a che punto ciò è dovuto a meccanismi universali, propri della visione, e in che misura è determinato invece dalle acquisizioni del nostro cervello? Di certo, qualsiasi manifestazione artistica, anche la più strana o quella apparentemente più irrazionale, nasce nel cervello. Anche nella valutazione di un’opera d’arte da parte di un osservatore, e nel piacere che se ne riceve, il cervello svolge un ruolo rilevante.
La Neuroestetica, disciplina fondata da Semir Zeki, il ricercatore inglese al quale è andato il Premio Roma, consiste proprio nello studio scientifico delle basi neurologiche coinvolte nella creazione e nella contemplazione di un’opera d’arte. Il cervello riceve informazioni dall’esterno tramite i sensi, ma nello stesso tempo offre interpretazioni del mondo esterno basate sulle informazioni già presenti nella memoria e sulle caratteristiche delle sue stesse proprietà strutturali. Anche quando guardiamo un quadro, noi inseriamo un’esperienza visiva in un contesto cerebrale, acquisiamo una conoscenza e la elaboriamo in funzione di altre conoscenze antecedenti.
L’acquisizione di conoscenza è tra le funzioni fondamentali che si possono ascrivere al cervello. E l’arte rappresenta una delle più raffinate modalità di acquisizione di conoscenze. Vedere è il risultato di una trasformazione del mondo esterno in un nostro mondo percettivo in cui svolgono un ruolo essenziale la nostra precedente conoscenza, la nostra cultura e persino il nostro stato d’animo.
«La bellezza nelle cose esiste nella mente di colui che la contempla», dice il filosofo David Hume. L’artista lancia un messaggio e l’osservatore l’interpreta secondo la propria realtà e cultura, e cioè secondo il proprio cervello. Tutto accade nel cervello. La percezione non è un processo passivo: è il sistema nervoso che costruisce ciò che vediamo, è il cervello che attribuisce un significato ai segnali che riceve per permetterci di acquisire nuove conoscenze e fare nuove esperienze. È dentro il cervello che il papavero diventa rosso e la mela odora e l’allodola canta (Oscar Wilde, «De Profundis»).
È quindi nel segreto della complessità del nostro cervello che sta la ragione delle nostre gioie, dei nostri piaceri, da quelli più istintivi a quelli più intellettuali. Già nell’antichità, un greco che avrebbe influenzato profondamente la medicina, Ippocrate di Cos, diceva ai propri studenti: «Dal cervello provengono i nostri piaceri, le gioie, le risate e gli scherzi, così come i nostri dispiaceri, i dolori, le lacrime; attraverso esso noi pensiamo, vediamo, ascoltiamo, e distinguiamo il brutto dal bello, il cattivo dal buono, il piacevole dallo spiacevole». L’esperienza estetica che si realizza nel creare o nell’essere spettatore di un’opera d’arte coinvolge verosimilmente molte funzioni cerebrali, le funzioni visive, quelle acustiche, la memoria, la capacità di apprendimento, le aree coinvolte nella regolazione degli stati emotivi, i mediatori chimici del piacere o della paura ecc.
La neurofisiologia moderna studia le modalità di funzionamento del cervello e ha capito che certe informazioni, visive o acustiche, subiscono un’elaborazione particolare in alcune parti del cervello. Sappiamo che il nostro cervello è costituito da due emisferi, deputati a funzioni diverse: mentre l’emisfero sinistro è quello linguistico, che ci permette di comunicare verbalmente, più analitico e razionale, l’emisfero destro è principalmente quello visivo, della fantasia e dei sogni, dell’immaginazione e dell’intuizione artistica.
Esperimenti di Zeki e Kawabata indicano che, durante la visione di quadri descritti come belli, si osserva, in risonanza magnetica, un’attivazione di un’area localizzata in una parte della corteccia orbito-frontale mediale, già nota per il suo coinvolgimento nei meccanismi di ricompensa. La percezione del bello, quindi, sembra mettere in moto mediatori chimici che sono gli stessi attivati dalle esperienze che ci danno piacere.
Nell’esperienza estetica, inoltre, dobbiamo sempre considerare la compartecipazione di due aspetti, uno congenito e uno acquisito. La capacità di fare esperienza del colore o della bellezza è una caratteristica ereditata del cervello, tuttavia, mentre la capacità di percepire il colore non muta, quello che nel corso della nostra vita percepiamo come bello può variare a seconda del contesto, delle mode, ed è sempre condizionato dalla cultura e quindi mutevole nel tempo.
Il cervello influenza sempre il modo di esprimersi dell’artista, spesso in modo non evidente ma talvolta in modo evidente. Facciamo alcuni esempi: in alcuni ritratti a matita di Leonardo possiamo vedere come il chiaroscuro abbia un’inclinazione che ci fa capire come l’artista fosse mancino; la comprensione da parte del nostro cervello della prospettiva fa sì che i quadri dei pittori rinascimentali si differenzino dai pittori che ancora non la conoscevano.
Ma sia l’acquisizione dell’informazione visiva che la sua elaborazione interiore possono essere alterate da cause patologiche. Mentre la prima coinvolge selettivamente l’apparato della visione, la seconda può coinvolgere la persona in modo più generale, per processi patologici del cervello o di altri organi. Sappiamo tutti della cataratta di Monet e delle alterazioni dei quadri senili di Tiziano e Rembrandt, che chiaramente si riferiscono ad alterazioni del sistema visivo.
Molti si sono domandati se vi sia qualche relazione tra la malattia da cui era affetto Van Gogh e la sua crescente passione per i colori forti e caldi. Ben più drammatiche possono essere le alterazioni emotive, percettive e espressive nelle gravi malattie del sistema nervoso, e particolarmente nelle malattie mentali, come la schizofrenia e la sindrome maniaco-depressiva.
Ma il cervello, oltre a svolgere un ruolo cruciale nella percezione del bello, ha una bellezza in sé. È bello per la complessità delle funzioni che svolge, indispensabili per la nostra vita, ed è bello perché è all’azione del cervello che dobbiamo le nostre gioie, i nostri dolori, il nostro modo di pensare la vita, il senso di identità, le funzioni cognitive superiori, in altre parole ciò che caratterizza nel modo più alto il nostro essere uomini.
Ma il cervello è anche strutturalmente bello. Naturalmente, se pensiamo alla brutalità di una sezione autoptica, possiamo venirne sconvolti, ma se immaginiamo un’immagine rarefatta del cervello o se entriamo ad osservare con un microscopio a basso ingrandimento i particolari di aree cerebrali, restiamo impressionati dalla bellezza delle immagini che ne risultano.
Se scendiamo ancora più nel particolare, aumentando l’ingrandimento delle nostre osservazioni le immagini che otteniamo sono tali da superare in bellezza e suggestione i quadri dei pittori astratti o i più bei paesaggi in natura. Possiamo vedere alberi innevati in un paesaggio notturno rischiarato dalla luna, strie luminose, una rete d’oro in un fondo marino, fuochi d’artificio contro un cielo scuro. E tutto ciò non è fantasia di un artista, ma l’organizzazione delle nostre strutture neuronali. Le immagini riportate di seguito, simili a fiamme gialle e a campi fioriti, sono in realtà sequenze cellulari dell’ippocampo e del cervelletto.
Vi sono degli artisti, da quelli rinascimentali a quelli moderni, che hanno sentito il fascino della scienza in maniera particolare e hanno cercato di ispirarsi a essa per alcuni aspetti delle loro opere.
Il cervello è stato frutto di studi, spesso proibiti quando le dissezioni del corpo umano non erano permesse. Molti artisti hanno cercato di riprodurre la bellezza e la complessità del cervello, talvolta in modo fantasioso (disegni di anonimo sassone del 1400 e del medico inglese Robert Fludd, 1621, ma talvolta in modo sublime (come nei disegni anatomici di Leonardo).
Il rapporto arte e cervello ha trovato un nuovo intrigante punto d’incontro nel 1508, allorché Papa Giulio II assegnò a Michelangelo l’incarico di dipingere un ciclo di affreschi ispirati alla Genesi sulla volta della Cappella Sistina, in Vaticano. Il primo a notare qualcosa di strano nelle immagini della Cappella Sistina fu Frank Meshberger, il quale, durante una visita, osservò come uno degli affreschi più belli di Michelangelo suggerisse un’immagine del cervello.
Nel lavoro «Un’interpretazione della Creazione di Adamo di Michelangelo basata su studi di neuroanatomia», pubblicato nel 1990 sulla prestigiosa rivista scientifica Journal of American Medical Association, affermò che l’affresco «La Creazione di Adamo», figura centrale della volta della Cappella Sistina, riproduceva l’immagine del cervello umano, rappresentato come una nuvola che avvolge Dio, volendo così indicare che ciò che Dio ha voluto trasmettere all’uomo è la capacità cognitiva, vista come il più straordinario dono fatto all’umanità. Successivamente molte altre osservazioni sono state fatte relativamente alla presenza di immagini di anatomia del cervello nascoste nelle figure della Cappella Sistina.
Ovviamente bisogna tenere presente che il cervello umano tende a ricostruire immagini anche dove esistono solo forme incomplete e che in ogni drappeggio, così come in ogni ammasso di nuvole, con l’immaginazione noi possiamo costruire figure che in realtà non esistono. Tuttavia, ci fa piacere immaginare che il genio di Michelangelo abbia considerato la Creazione dell’Uomo come il momento della comparsa del ragionamento logico capendo la bellezza e la rilevanza del cervello e del suo modo di funzionare, e abbia voluto associarli alla grandezza della figura di Dio, affermando in questo modo che le due cose più rilevanti che indicano nell’uomo l’essere più importante del Creato sono Dio e la Sua più grande creazione, il cervello umano.

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