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Come i gruppi di imprese possono meglio resistere alle difficoltà economiche

Lucio Ghia

L’impresa, come dimostra l’attualità, da sola spesso non ce la fa. I mercati ove competere sono oggi globali, resi instabili dall’estrema competitività dei protagonisti che li affollano. Molte volte ci siamo occupati delle difficoltà oggi consolidatesi nella grave crisi che affligge, da almeno tre anni, il Paese e non solo. Una risposta alla crisi, anch’essa resa variabile nei contenuti, sta nella capacità di aggregarsi, di fare sistema, che le imprese possono dimostrare, con i fatti, di possedere.
 Distretti industriali e più recentemente Reti d’impresa sono realizzazioni rilevanti, capitoli in divenire della realtà economica allorquando il prodotto è reso competitivo dalla riduzione dei costi di produzione e di distribuzione, dalla possibilità di acquisire, per la forza dell’aggregazione, un merito creditizio maggiore e di pagare meno il danaro necessario a finanziare l’impresa. Ma in tutte le economie avanzate una gran parte della loro storia, delle loro sfortune o periodi di crisi è scritta dai gruppi d’imprese.
In Italia le imprese che fanno parte di un gruppo si stima siano talune migliaia, una fetta notevole del fatturato nazionale e di un notevole polo occupazionale. La ratio che le anima, è la fiducia nella convergenza degli sforzi produttivi, ed insieme la consapevolezza della capacità di raggiungere obiettivi di maggiore importanza se l’unione di più esperienze e funzioni, tutte necessarie, diviene forza comune. Il traguardo di una maggiore efficienza produttiva, la possibilità di migliorare la qualità delle comunicazioni, la penetrazione nei mercati, l’affidabilità del prodotto, costituiscono la speranza delle imprese che si aggregano ed insieme «il miraggio che rimette in moto le carovane» per dirla con il poeta.
Il concetto che distingue queste esperienze e le rende concrete muove dal presupposto che tutte le grandi produzioni necessitano di componenti funzionali di dimensioni correlate, in grado di occuparsi della finanza, dei rapporti commerciali, della distribuzione, della pubblicità, delle proprietà intellettuali da utilizzare - marchi, brevetti, know how -tali da rendere possibili quelle produzioni e quella competitiva presenza sui mercati. Sfiorito il mito della grande industria, inteso come agglomerato universale di funzioni che in un’unica, enciclopedica governance fosse in grado di risolvere le necessità dell’impresa in tutte le aree d’interesse primario da presidiare, si è affermato il «gruppo di imprese» che risponde alla stessa logica, ma offre risposte più articolate e flessibili, in quanto distribuite su più soggetti, ognuno dei quali identificato e specializzato per quella specifica missione.
Ovvero più soggetti, anche imprenditori individuali che possono costituire il cosiddetto gruppo di fatto ma più spesso più persone giuridiche come società di capitali e in alcuni settori anche di persone, sono legati tra loro da collegamenti proprietari o contrattuali e vengono a formare un Gruppo di imprese. Ogni società avrà la propria assemblea, i soci, il capitale sociale, l’organo amministrativo e di controllo, l’autonomia gestionale e patrimoniale, ma sarà collegata alle altre o dai soci, che possono essere anche gli stessi in tutte le società, o da contratti di appartenenza al gruppo, legati, ad esempio, alla realizzazione di una determinata produzione, ovvero da clausole statutarie o da accordi commerciali o finanziari, o infine, da «patti di dominio» di una società rispetto ad una o più società del gruppo.
Normalmente esiste una società di capitali che ha come scopo sociale quello di possedere e gestire le partecipazioni di capitale che ha nelle altre società del gruppo, ognuna delle quali, pur avendo la propria autonomia giuridica e patrimoniale, svolgerà una specifica attività nell’ambito della più ampia strategia del gruppo. Vi saranno quindi imprese che si occuperanno della produzione, altre della distribuzione dei prodotti, altre delle necessità finanziarie delle varie società del gruppo e alle quali affluiranno le liquidità derivanti dall’attività commerciale; altre ancora che saranno proprietarie di marchi, brevetti, disegni industriali ecc.
Il collegamento con la capogruppo, holding o parent company delle varie società costituenti il gruppo è dato normalmente dai rispettivi organi amministrativi che, essendo nominati dall’azionista quindi dalla holding, manifestano nella migliore delle ipotesi il coordinamento e la direzione, nella peggiore la preminente volontà della capogruppo. È evidente la fragilità del filo rosso che unisce coordinamento e direzione della holding al rispetto dell’autonomia giuridica e decisionale delle varie società del gruppo. Così come, dietro l’angolo, è il conflitto di interessi, che fa da pericoloso sfondo per gli amministratori che, in realtà, in tutte le società del gruppo vengono nominati con il consenso della holding, e non di rado si tratta delle stesse persone in numerosi consigli di più società.
E veniamo al punto. Se sotto il profilo economico e fiscale il gruppo d’imprese è bene identificato ed ha la propria cornice regolamentare, poiché il disegno economico è chiaro, concentrato nel fatturato delle varie società del gruppo che presentano i bilanci separati, ma del cosiddetto bilancio consolidato di gruppo dal punto di vista giuridico invece parliamo di un’entità virtuale. Il gruppo d’imprese giuridicamente non esiste o perlomeno non ha ancora ricevuto né una definizione normativa né una compiuta regolamentazione. Eppure numerose leggi se ne occupano, disciplinando alcune conseguenze dell’appartenenza delle diverse società al gruppo.
Pensiamo alla Prodi bis, che già nel 1999, negli articoli 80 e 91, si è occupata del gruppo nell’ambito dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi; ed ancora alla legge Marzano modificata in occasione dei casi Parmalat, Alitalia, Volare, ma anche all’articolo 2497 del Codice civile che disciplina l’attività di direzione e coordinamento tra le varie società del gruppo, o all’articolo 2381 dello steso Codice che sancisce l’obbligo di responsabilità nei confronti degli amministratori della «subsidiary» temporaneamente sacrificata alla volontà della «parent company».
Si tratta, infatti, di un mosaico spezzettato, le cui tessere non compongono ancora un disegno univoco che si sostanzi in una disciplina chiara che consenta un’interpretazione unitaria dei vari complessi problemi che l’attività dei gruppi presenta. Ecco quindi che, laddove il legislatore non è ancora arrivato, giungono le prassi dei Tribunali più o meno aperti alle ragioni del gruppo nel tutelare il più ampio interesse misurato nel vantaggio collettivo delle società appartenenti, rispetto al sacrificio imposto alle singole società. Infatti, il problema che si pone con frequenza è proprio conseguente alla crisi del gruppo e al sacrificio addossato ai vari creditori delle diverse società che ne fanno parte. Fino a che punto può essere intaccata l’autonomia giuridico-patrimoniale della singola società in nome dell’interesse del gruppo?
Fino a che punto è lecito per gli amministratori di una società compiere atti di impoverimento della stessa «subsidiary» (nomen ominis), con conseguente danno per i creditori di quest’ultima a vantaggio di altre società consorelle che attraversino un periodo di crisi? Direbbero gli americani: il «piercing the veil», ovvero rompere il diritto alla tutela dell’interesse della singola società «subsidiary»; ovvero far prevalere la volontà della società madre nell’interesse più generale delle altre società del gruppo che sono in crisi, necessita di una valutazione delicata e senz’altro di ampio respiro anche prospettico.
La Corte di Cassazione ha fornito interessanti indirizzi per avviare a soluzione questo non semplice problema. In estrema sintesi andrà valutato applicando criteri compensativi, se quella società alla quale si chiede un sacrificio economico o patrimoniale abbia ricevuto dall’appartenenza al gruppo, quali e quanti vantaggi, e se la parte buona additiva così realizzatasi, possa compensare gli effetti negativi dell’operazione che le viene richiesta, nell’interesse del gruppo, ma pur sempre tale da non compromettere il futuro e la stabilità economica della «subsidiary».
Si tratta indubbiamente di una valutazione difficile poiché in gioco sono non solo le fortune e il futuro del gruppo che vanno esaminati anche alla luce della sua storia; la soluzione dei problemi che affliggono la holding o le subsidiaries da sostenere; ma anche e soprattutto i diritti dei creditori delle singole società che, ai sensi dell’articolo 2740 del Codice civile, vedono nei beni della loro debitrice, la garanzia per il pagamento dei crediti.
È evidente che, se a causa dell’operazione richiesta dalla holding alla «subsidiary» i creditori di quest’ultima vedono diminuire drasticamente la loro garanzia generale, questa diminuzione deve risultare obiettivamente compensata, secondo la giurisprudenza, da un evidente incremento, già ottenuto in precedenza e riottenibile in futuro dopo la ristrutturazione del gruppo, dei valori positivi della «subsidiary», del suo fatturato e dei suoi assets. Solo la comprovata esistenza di un tale incremento verificatosi nel passato e la ragionevole valutazione della buona riuscita della ristrutturazione del gruppo, con vantaggi obiettivi per la società temporaneamente sacrificata, potranno rendere infondata la proposizione di giudizi di responsabilità nei confronti degli amministratori della «subsidiary».
Ovvero, non si può essere fratelli e figli solo quando le cose in famiglia vanno bene per poi applicare la regola dell’ognuno per sé, quando bisogna fare qualche sacrificio. Nella buona e cattiva sorte il gruppo e la sua appartenenza vanno salvaguardati, naturalmente se il sacrificio è ragionevole ed è realmente utile al risanamento del gruppo. È evidente come la propensione del singolo Tribunale ad inquadrare il coinvolgimento patrimoniale nella singola «subsidiary», in bonis, ovvero sana economicamente e finanziariamente, nella logica del salvataggio del gruppo e nel risanamento delle consorelle malate, risulti di estrema rilevanza.
Trattandosi di crisi d’impresa, saranno chiamati i giudici delle Sezioni fallimentari dei vari Tribunali, a valutare la legittimità del piano di risanamento che riguarderà anche le operazioni di sostegno infragruppo. È utile, quindi, soffermarsi sulle prassi dei vari Tribunali non per incentivare il Forum Shopping, che comunque assume una valenza positiva quando riesce a salvare imprese realmente capaci di creare ancora valore, malgrado la crisi che le affligga. Spesso si è di fronte ad imprese che con l’iter disegnato dal Piano, alleggerite di parte dei debiti pregressi, riescono a far fronte alle esigenze produttive pagando stipendi, oneri fiscali e previdenziali, fornitori di beni e servizi, professionisti ecc., in tempi di crisi; è perciò necessario conoscere i precedenti già affrontati dai singoli Tribunali ed il loro orientamento.   

Tags: Maggio 2014 Lucio Ghia

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