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DEBITO PUBBLICO - C'è UNA STRADA PER RIDURLO E PER USCIRE DALLA STRETTA

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I palazzi delle istituzioni politiche ed economiche europee potrebbero davvero essere interessati da un imminente terremoto generato dalle speculazioni sui mercati finanziari? Il rischio esiste. E l’attesa dell’autunno quest’anno, sia in Italia che nell’intera area dell’euro, davvero non si può definire vissuta con lo stato d’animo di un tempo. Il duro anno di lavoro trascorso non è stato compensato da un meritato periodo di riposo come avveniva negli anni del boom. Anzi. Siamo nel pieno di un periodo di guerra, ha ammonito il premier Mario Monti subito dopo un vertice con il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi e con il ministro dell’Economia Vittorio Grilli.
E quindi è impensabile trovare in agenda notizie confortanti. Conferme al riguardo giungono dalle prime pagine dei quotidiani. Basta scorrerle rapidamente: c’è l’Istat che parla di 8 milioni di italiani in condizioni di povertà relativa perché hanno famiglie numerose e fonti di reddito decrescenti per la crisi occupazionale; di altri 3,5 milioni in povertà assoluta; di giovani che non trovano lavoro e di banche che, pertanto, non concedono più mutui. Gli fa eco la Banca d’Italia sottolineando che il prodotto interno è in calo del 2 per cento e che sarà di segno negativo anche nel 2013 per uno 0,2 per cento, così come anche i consumi delle famiglie per uno 0,9 per cento. Sono le conseguenze dell’austerità.
Sembrano davvero tragiche, per quanto l’Ernst & Young in uno studio pubblicato a metà luglio, intitolato «Eurozone Forecast», promuove le mosse del premier Monti sottolineando che limitano la spesa pubblica italiana, e che, nell’arco di 18 mesi, saranno in grado di suscitare i primi segnali di ripresa per il 2013 con benefici destinati a concretizzarsi nel 2014: quando la crescita del prodotto interno italiano si attesterebbe in media sull’1,5 per cento, conservandosi a quel livello anche per i due anni successivi. Nello stesso tempo però la società di consulenza segnala rischi connessi all’instabilità politica italiana, alla disoccupazione e al mancato sviluppo. Menzionando rischi da eccesso di rigore.
Una ricetta, questa, cui però sembra impossibile rinunciare. Le soluzioni keynesiane con ampio ricorso ai fondi statali per rilanciare la crescita sono allo stato dei fatti improponibili, soprattutto in Italia, dove il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno punta a proporzioni vicine al 130 per cento. Ma sono improponibili soprattutto perché gli sforzi che ormai da molti mesi tutti noi stiamo compiendo, su indicazione del Governo tecnico, per imboccare la strada capace di far calare quel drammatico rapporto, sembrano di continuo vanificati dai giochi speculativi e dal connesso aumento - come se nulla fosse accaduto sul piano delle scelte virtuose - dello spread tra i nostri titoli di Stato e quelli di riferimento tedeschi.
Gli usurai della speculazione finanziaria, i grandi fondi comuni, i consiglieri dei fondi pensionistici sono spietati nel perseguire i loro interessi. Non si preoccupano più delle sofferenze che generano con il loro comportamento. Essi sono in posizione di forza perché sanno usare strumenti finanziari legati a sofisticate formule di cui pochissimi conoscono la micidiale convenienza per chi li usa e i devastanti effetti per chi è oggetto della loro scommessa, e che in questo caso sono alcuni Stati europei indeboliti dall’alto debito pubblico. E riescono a mettere in difficoltà l’intera area europea, tanto che il Cancelliere tedesco Angela Merkel ha manifestato ottimismo ma non certezza di uscire dalla crisi.
L’altro elemento che impaurisce è l’entità dei valori finanziari messi in gioco dagli investitori istituzionali che spadroneggiano nei mercati riuscendo, grazie alle nuove tecnologie, a spostare a piacimento da un’economia all’altra capitali immensi nel giro di poche frazioni di secondo. Essa ammonta a 10 volte la somma dei prodotti interni delle economie mondiali, annota l’ex ministro Giulio Tremonti nel suo ultimo libro. Sono i croupier di un Casinò planetario: giova ricordare che qualche lustro orsono prima innalzarono alle stelle, poi fecero miseramente crollare le economie dei Paesi del Sud Est asiatico. E magari gli piacerebbe ripetere l’operazione con gli europei.
In questo trovano aiuto dalle agenzie di rating che hanno il potere di condizionare le aspettative, e che rappresentano un potente fattore di condizionamento delle scelte degli operatori malgrado siano state, sono parole del governatore della Banca di Francia, tra i carburanti della crisi del 2008. E malgrado abbiano imbarazzanti conflitti di interessi: non bisogna dimenticare che Moody’s, Fitch e Standard & Poor’s valutano a pagamento la bontà dei titoli di molte aziende private, mentre giudicano per lo più gratis le emissioni degli Stati sovrani. E possono sbagliare, come quando giudicarono eccellente la solvibilità della Lehman Brothers alla vigilia del suo fallimento.
Ma è anche vero - sarebbe disonesto fare finta di dimenticarlo - che la crisi del debito non è una loro invenzione. E che, tanto per fare l’esempio che ci riguarda da vicino, se declassano il nostro sistema economico, Regioni, città e banche italiane, potranno apparire ingiuste, cieche di fronte ai nostri sforzi e ingenerose. Però non esprimono certamente un giudizio lontano dalla realtà se è vero, come hanno scritto alcuni giornali, che la Sicilia è sull’orlo della bancarotta, o che alcuni Comuni, anche grandi, o banche prestigiose hanno accumulato debiti spaventosi in seguito a scommesse sui prodotti derivati compiute nella speranza di sanare i loro bilanci, o con l’acquisto di prodotti «tossici».
Come tanti altri suoi confratelli europei, il nostro Paese è in oggettiva difficoltà soprattutto perché negli anni ha accumulato un enorme debito pubblico e non può onestamente difendersi con l’unica arma valida in questa situazione, ossia l’esistenza di un bilancio pubblico rigorosamente, indiscutibilmente, trasparentemente, dati alla mano, in attivo. È su questo pedale che occorre dunque accelerare per uscire il prima possibile da questo videogame infernale nel quale, per citare ancora l’ex ministro Tremonti, ad ogni mostro ucciso, ad ogni pericolo scampato, ne segue uno ancora più grande, foriero di maggiori preoccupazioni e di altrettanti sacrifici.
La via d’uscita è dunque nell’abbattimento del rapporto debito-prodotto interno. Una parola. Che però può trasformarsi in fatti concreti adottando scelte precise, e rapidamente. Un’interessante proposta al riguardo - che finalmente non si tradurrebbe in un ulteriore aggravamento della situazione per le famiglie e le imprese poiché evita manovre e pressioni fiscali -, è giunta da un gruppo di studio coordinato dal prof. Paolo Savona e consiste nella proposta di cedere parte del patrimonio pubblico attivando strumenti tecnicamente efficaci. Adottandola si potrebbe riportare il rapporto debito-prodotto interno sotto la soglia psicologica del 100 per cento.
Bisognerebbe mettere a disposizione una porzione di patrimonio di valore pari a 380-400 miliardi di euro, che corrispondono a circa il 20 per cento dell’intero attivo patrimoniale valutato in 1820 miliardi di euro. Quindi, vendendo, partecipazioni, immobili e concessioni di proprietà dello Stato, far scendere di 25 punti percentuali nell’immediato quell’indebitamento che, secondo i dati incrociati dell’Istat e della Banca d’Italia, è pari al 124,7 per cento del prodotto interno. Chi li comprerebbe? Ecco il punto: le difficoltà di assorbimento di tale cospicua offerta di beni verrebbe superata creando una new company acquirente, con capitale detenuto da soggetti riconducibili allo Stato e da privati come banche e assicurazioni.
La liquidità necessaria all’acquisto sarebbe reperita sul mercato dei capitali mediante l’emissione di obbligazioni con allegata opzione (warrant) per l’acquisto dei beni stessi. In tal modo diminuirebbe il debito pubblico e lo Stato non si indebiterebbe, la vendita avverrebbe successivamente e a prezzi certi e non di svendita, la presenza di investitori istituzionali nella partita offrirebbe garanzie di correttezza dell’operazione, i beni e gli asset ceduti verrebbero valorizzati. Senza contare che l’abbattimento del debito comporterebbe un risparmio di interessi, da corrispondere a chi detiene titoli pubblici italiani, per circa 20 miliardi di euro l’anno.
Inizierebbe così una spirale virtuosa in base alla quale il risparmio ottenuto andrebbe dirottato verso progetti di crescita, il miglioramento della situazione debitoria farebbe abbassare lo spread e quindi gli ulteriori interessi che, non dimentichiamolo, sono stati pari a 82 miliardi di euro nel 2011. E ci sarebbe ancora un’altra trovata: far pagare i soggetti interessati a comprare questi pezzi di patrimonio con i titoli pubblici in loro possesso, al valore originario di sottoscrizione, con incredibili vantaggi di bilancio. Che aumenterebbero assicurando alle operazioni un trattamento fiscale di favore, quello riservato appunto ai titoli di Stato, al fine di incentivare l’acquisto e la detenzione delle obbligazioni .
L’idea merita attenzione. Nonostante gli annunci recentissimi del ministro dell’Economia Grilli il quale, intervistato dal Corriere della Sera, ha cercato di rincuorare tutti segnalando che nell’ultimo periodo l’Italia ha azzerato il deficit annuale di bilancio, ma ha fatto sapere che, a suo avviso, il patrimonio immobiliare italiano è di difficile valorizzazione e quindi non sarebbe all’altezza di far riuscire un’operazione del genere. Ciononostante non va esclusa l’ipotesi di impostare un programma pluriennale con vendite di beni pubblici per 15-20 miliardi di euro l’anno pari all’1 per cento del prodotto interno, che si tradurrebbe in un abbassamento del 20 per cento del rapporto tra debito e prodotto interno in 5 anni.
È stata persino stilata una lista di caserme, uffici, aree demaniali candidabili per la vendita, e sono state incontrate, secondo indiscrezioni, banche d’affari giapponesi e fondi sovrani - gli stessi che ci stanno mettendo in difficoltà, sarebbe da chiederci - cui piazzare i 350 miliardi di immobili dei Comuni e i 300 miliardi di immobili dello Stato, così come calcolati nell’indagine conoscitiva della Commissione Finanze della Camera, e già identificati nella «white list» di 13 mila immobili predisposta due anni fa per l’assegnazione ai Comuni nell’ambito del federalismo demaniale. Aggiungendo poi assets legati ai portafogli delle partecipazioni statali.
Ma la troppa prudenza - perché aspettare 5 anni quello che si può fare subito? - esaspera. Se è vero che siamo in guerra, è il momento di riscoprire coraggio e determinazione: nel vendere il patrimonio con criteri trasparenti, equi, efficienti, ma anche adottando altri provvedimenti, con una certa rapidità. Quelli capaci di colpire con efficacia quel mondo della finanza che, in modo sostanzialmente parassitario, sta riuscendo in poco tempo ad affamare interi ceti produttivi. Si può parlare in proposito, senza entrare nei dettagli ma cogliendo il valore semantico, di far capire alla Finanza che a comandare è ancora la Politica, intesa come l’interesse comune.
Queste soluzioni consisterebbero nel «cementare» il patto europeo con un’unione politica effettiva, riscontrabile in un accordo di politica bancaria e fiscale degna di questo nome, davvero unitaria, grazie a alla quale le mosse speculative verrebbero scoraggiate da una ritrovata solidità del sistema economico europeo. Dettagli di tale scelta potrebbero essere una vigilanza europea sulle banche, un concorso alle perdite bancarie anche dai creditori privilegiati, come ha ipotizzato Draghi, e infine la famosa tobin tax, che prevede un prelievo minimo proporzionale all’entità delle transazioni effettuate dagli investitori sui mercati finanziari internazionali.
Provvedimenti del genere, per quanto discutibili, darebbero segnali forti agli speculatori. La tobin tax in particolare - seppure ritenuta improbabile poiché la City di Londra non intende accettarla e quindi si risolverebbe in una penalizzazione dei mercati finanziari intenzionati ad adottarla -, sarebbe capace, è stato calcolato, di risolvere alla base il problema internazionale del debito pubblico, favorendo l’accumulo di un ammontare di risorse capaci di sanare annosi problemi sociali irrisolti come la libertà dal bisogno delle popolazioni più povere. Sarebbe splendido. Ma non è il momento di sognare a occhi aperti. È quello di sbrigarsi ad uscire dall’incubo dell’autunno.

Tags: Settembre 2012 Enrico Santoro

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