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tra i limiti di bilancio europei e i principi ispiratori della repubblica

Tito Lucrezio Rizzo

Prendendo le mosse dalle riflessioni di Luigi Einaudi, venne sostenuta la tesi che, se anche il mercato non fosse stato ancorato a dei principi morali, pur autoregolamentandosi con norme proprie, avrebbe finito con il dover premiare virtù come la morigeratezza, la costanza, lo spirito di sacrificio, la prudenza: in estrema sintesi l’etica. Questo era l’humus nel quale si sarebbe venuto a caratterizzare il superamento dello Stato «di diritto», che nella Costituzione italiana assunse la configurazione di «sociale».
Si trattò di un nuovo e lungimirante modello, non più limitato a dettare regole valide per la collettività, nel tradizionale ruolo dello Stato quale tutore della libertà e di garante dell’ordinato vivere civile, bensì come promotore dello sviluppo della personalità di tutti i cittadini, rendendosi così direttamente fautore della crescita del benessere collettivo. Ciò sia attraverso un’equa ripartizione delle risorse disponibili, sia tramite la promozione dell’assistenza sanitaria, della cultura, della solidarietà, della tutela dell’ambiente, e con la rimozione degli ostacoli che avrebbero altrimenti impedito agli amministrati la reale partecipazione alla vita civile e, quindi, la realizzazione di una democrazia compiuta e non meramente formale.
Si configurò insomma un’inedita funzione propulsiva e non semplicemente protettiva del minimo indispensabile alla pacifica convivenza: in tale cornice di riferimento, quello della solidarietà divenne così un carattere identitario della Repubblica, con un saldo ancoraggio dell’economia all’etica della solidarietà medesima, oggi ribadito anche dalla Costituzione dell’Unione europea.
Quest’ultima, in una logica coerente con i propri principi ispiratori, definisce con felice sintesi espressiva l’Unione come uno «spazio privilegiato della speranza umana», anche se, attualmente, l’accentuarsi della divaricazione tra Paesi ricchi e non, in ambito comunitario, non sembra confortare in concreto l’attuazione della pur suggestiva, evocata definizione.
Il Vecchio Continente è comunque riuscito a contenere gli effetti disastrosi della cosiddetta «finanza creativa» d’oltreoceano, causata da facili guadagni speculativi in Borsa, disancorati dalla ricchezza reale e dal lavoro. Tutto ciò è stato frutto dell’esasperazione di una ricerca del profitto di matrice calvinistica, sensibilmente diversa dalle tradizioni dell’economia sociale di mercato tipica del capitalismo europeo; ma anche estranea alla finanza islamica, che nell’ambito di una più generale cultura solidaristica, è intrinsecamente avversa ad ogni avventurismo speculativo.
Una finanza fuorviata dall’uso di strumenti sofisticati, atti ad ingannare i privati risparmiatori come i grandi investitori, deve riscoprire le proprie fondamenta etiche orientandosi a vantaggio del bene comune, il quale trascende le barriere dei singoli Stati, coinvolgendo necessariamente lo sviluppo dei Paesi poveri, come vero strumento - in ultima e lungimirante analisi - di ricchezza per tutti.
Una particolare tutela va accordata a coloro che sono più vulnerabili, quali i meno abbienti, i piccoli risparmiatori e coloro che hanno, in genere, scarsa competenza e informazione sulle regole dei mercati finanziari; categorie che, nel loro insieme, sono state già facili - e poi disperate - prede di spregiudicati operatori di Borsa, i quali, anche con la complicità di talune banche, hanno loro rifilato «titoli spazzatura» con la promessa di mirabolanti guadagni di fronte all’incauto investimento dei risparmi realizzati nel corso di una vita di sacrifici.
La legge costituzionale 20 aprile 2012 n.1, modificativa dell’articolo 81 della Costituzione, ha sancito il principio del pareggio di bilancio, già caro alla Destra storica come ai Governi di Giovanni Giolitti; ma oggi si pongono nuovi problemi di ordine costituzionale, etico, politico ed economico sul pareggio in parola, proprio in relazione alla menzionata connotazione socialmente orientata che ha costituito il «quid novi» identitario dello Stato repubblicano rispetto al precedente regime statutario.
A differenza di altri modelli europei, la Costituzione italiana è basata su una serie di principi ispiratori, come i diritti fondamentali della persona umana - al lavoro, alla salute, all’istruzione ecc. - che essa non ha creato, ma dei quali si è resa funzionalmente «ricognitiva» in quanto ad essa intrinsecamente preesistenti, e quindi immodificabili da qualsivoglia riforma della Costituzione medesima, la quale, va ribadito, nella loro tutela trova ragione di esistere e limite invalicabile nello stesso tempo.
È la stessa Corte costituzionale che, con la sentenza n. 1146 del 1988, precisò espressamente che i principi fondamentali dell’ordinamento non possono essere oggetto di revisione costituzionale. Ne consegue che neanche le regole comunitarie, peraltro assai sensibili alle istanze dei mercati finanziari, possono stravolgere le basi dell’ordinamento interno italiano.
In base alla nuova formulazione dell’articolo 81 «lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico; il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico... al verificarsi di eventi eccezionali».
Il pareggio di bilancio così determinato potrebbe diventare un nuovo parametro di incostituzionalità, rilevabile nell’immediato già dal Capo dello Stato, nel caso di sforamento dello stesso. Per converso, il contenersi sempre e comunque nei confini indicati sembrerebbe inconciliabile, ad esempio, con la tutela del diritto primario alla salute nel caso che, per conseguire tal fine, dovesse superarsi il limite in parola; afferma infatti l’articolo 32 della Costituzione: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti».
Un altro esempio può essere quello delle restrizioni di spesa per la cultura, che non può essere tagliata con la tesi dei vincoli imposti dalla crisi economica. Argomentando su un caso di specie ricordato da Stefano Rodotà, la Sezione campana della Corte dei Conti ha sancito: «I pur fortissimi diritti di contenuto economico e finanziario, posti a salvaguardia dell’integrità dei bilanci pubblici, non possono incidere sui diritti fondamentali della persona» come quello dell’istruzione per i bambini, elemento costitutivo del diritto costituzionale al libero sviluppo della personalità.
Alla stregua di un attento esame della normativa vigente e degli orientamenti espressi dalla giurisprudenza italiana ed europea, appare certo il rifiuto di una subordinazione dei diritti fondamentali al mero criterio economico, che sembra essere divenuto l’unica regola di riferimento dei tempi presenti. Recentemente il Rodotà, nella propria lectio magistralis al Premio Napoli 2013, ha evidenziato che la solidarietà, dovere «appartenente all’ordine naturale delle cose» recepito sia nella nostra Costituzione sia nella carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, non può essere recessiva innanzi ai vincoli economici comunitari, a pena della perdita della dignità stessa dell’Uomo, con una «crescita delle diseguaglianze» che incide anche sulla sua libertà.
Concludendo: nel caso di conflitto tra la salvaguardia dei diritti fondamentali che costituiscono il dna della Costituzione italiana, e il rispetto dei limiti sanciti dall’articolo 81 della Costituzione, che cosa succederebbe? In campo giuridico ne sarebbe investita la Corte costituzionale; ma in campo politico si porrebbe un problema di sopravvivenza per qualsiasi Governo, chiamato necessariamente ad optare tra la difesa dei superiori valori fondanti dello Stato nazionale e il loro sacrificio in ossequio a vincoli europei, derivanti dai vari «patti di stabilità», «patti euro plus» ecc., concernenti valori di rango inferiore ma in ogni caso - a prescindere dalla bontà o meno dei loro contenuti -, formalmente blindati dall’antico principio di diritto internazionale «Pacta sunt servanda».
Privilegiando l’ipotesi pattizia in ultimo richiamata, si dovrebbe prendere atto della fine della sovranità nazionale, in ossequio non certo a precetti universali di giustizia ma, assai più modestamente, di direttive economiche elaborate sotto la spinta dei mercati finanziari, delle banche centrali e così via. Non spetta a noi indicare la soluzione, ma l’aver sollevato il problema, forse può aiutare ad una riflessione a livello comunitario che eviti la paralisi altrimenti prevedibile di un Paese compresso tra l’incudine del rispetto dei patti internazionali sottoscritti e il martello del patto siglato con i propri elettori nella cornice dei valori della Costituzione.  

di TITO LUCREZIO RIZZO Consigliere Capo Servizio Presidenza della Repubblica

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