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Corsera Story. Se il Corriere della Sera avesse ascoltato il neutrale Giolitti nel 1915, forse...

L’opinione del Corrierista

Sin dall’esordio, nell’ottobre 1900, Luigi Albertini imprime al «Corriere della Sera» un orientamento e una linea politica decisamente antigiolittiani data l’autorevolezza raggiunta dal quotidiano, che avrà conseguenze sulla tenuta del sistema istituzionale, allorquando l’avvento della folla nella vita politica e la diffusione della demagogia estremista determineranno la fine delle libertà.
Giolitti, comunque lo si voglia giudicare, fu un liberale vocato al riformismo, al consolidamento del parlamentarismo, al dialogo anche con le aree estreme, per moderarle ed inserirle nella cornice liberaldemocratica. Fu sempre esempio di ragionevolezza e gradualismo per una politica indirizzata agli interessi di tutti i ceti sociali, dal ceto imprenditoriale al proletariato. Il cauto ma incisivo riformismo giolittiano venne, peraltro, riconosciuto e lodato anche dalla parte più illuminata degli avversari politici.
Oddino Morgari, segretario del Psi dal 1906 al 1908 e direttore dell’«Avanti!», riconoscente per la positiva azione di governo, scrisse a Giolitti: «Io sono e sarò sempre socialista, ma il progresso va per gradi, ed Ella è tale uomo da personificare il progresso per un periodo di dieci o vent’ anni».
Certo è che il decennio giolittiano fu periodo d’oro per l’economia, l’industria, i conti pubblici, i successi coloniali, i diritti civili, il miglioramento della qualità della vita, a cominciare dal proletariato di fabbrica. Eppure, dopo cotale felice stagione fiorirono, da un lato, l’estremismo anarchico ed il massimalismo socialista; dall’altro, l’intellighenzia ostile al liberalismo e alla normalità antieroica della prassi parlamentare.
Così, il leader di Dronero si trovò al centro di critiche sanguinose, all’inizio specie da sinistra, si veda il pamphlet del socialista Gaetano Salvemini («Il ministro della malavita») che, nel 1910, descrisse il giolittismo come diabolico combinato disposto di violenza e malaffare, peraltro contiguo alla criminalità organizzata del Sud.
Quindi, sarà D’Annunzio il capofila dei detrattori, giungendo al punto da esortare la folla a penetrare nell’abitazione privata del «vecchio boia labbrone» non per avvertirlo, bensì per ucciderlo. I drammatici eventi, che porteranno alla fine del regime liberaldemocratico, dimostreranno che Salvemini ed Albertini ebbero torto nel contrastare per partito preso Giolitti.
Così, il «Corriere della Sera» fu in prima linea per l’intervento in guerra nel 1915 e contro il neutralismo giolittiano, con pagine assai vicine a quell’estrema destra interventista, financo nel lessico marziale e già annunciante l’enfasi della retorica del Ventennio.
Annunciando la dichiarazione di guerra all’Austria, 24 maggio 1915, l’editoriale del 22 maggio, «L’Italia s’è desta», a firma Luigi Barzini, festeggia così l’atteso intervento: «La nostra emozione e il nostro entusiasmo avevano una pienezza e una violenza che sorpassavano la misura della nostra anima perché erano sentimenti di una personalità più grande della nostra: la Razza… Sì i morti si levano, i morti ritornano, essi sono nel nostro spirito e nel nostro sangue». Come in seguito noterà Salvemini, altro convinto e fervente interventista, costretto, però, a prendere atto delle disastrose conseguenze della guerra, «se il Corriere si fosse messo a predicare la neutralità ad ogni costo, l’intervento italiano non sarebbe stato possibile. Albertini non fu il solo autore dell’intervento, ma fu uno dei principali». In altre parole, se Albertini fosse stato più vicino al terrestre Giolitti piuttosto che all’aereo D’Annunzio, avremmo potuto evitarci l’inutile strage - definizione di papa Benedetto XV - del 1915-1918.
Intanto, però, il «Corriere della Sera» superava ogni altro foglio della stampa interventista, dall’«Idea nazionale» sino al «Secolo», riguardo all’ampollosità eroicizzante del tutto gratuita rispetto alla durissima vita di trincea. Tra i soldati e gli stessi ufficiali nauseati dal trionfalismo del quotidiano, non erano rari sfoghi minacciosi: «Se vedo Barzino [sic!] lo sparo». E lo stesso Barzini, temendo ritorsioni e ben cosciente di dover raccontare un epos inesistente, pregò Albertini di pubblicare le sue cronache di guerra senza firma.
Insomma, nell’itinerario antigiolittiano, Albertini aveva condotto il «Corriere della Sera» sino al passo fatale di tradire la correttezza dell’informazione, trasformando i suoi famosi corrispondenti di guerra, peraltro tutti grandi giornalisti, in aedi e cantori liberati dal dovere di cronaca, per coprire delusioni, cadute e rotte (Caporetto, ad esempio), trasfigurandole in inni marziali.
In verità, a partire dal direttore, tutti erano consapevoli che la vita di trincea, tra fango, sangue, tubercolosi e topi, nulla aveva di eroico, ma l’angosciosa domanda che si ponevano, una volta incarnata la divisa del cronista-combattente, pur possedeva legittimità: se avessimo raccontato «la putredine della guerra» quali colpi avremmo inferto alla resistenza morale degli italiani?
Tuttavia, Luigi Albertini fu responsabile anche di un’ulteriore e forse più grave falsificazione, che gli fu rimproverata dallo stesso D’Annunzio e da Giovanni Amendola, amici personali e accesi interventisti, cioè l’aver imposto ai suoi cronisti di non riportare le critiche anche ufficiali, addirittura dei comandi alleati inglesi e francesi, alla pessima strategia militare di Luigi Cadorna. Continuando a sostenere il generale, Albertini corse il rischio di indebolire davvero la resistenza morale del Paese.

Tags: Settembre 2016 Corsera story Victor Ciuffa Corriere della Sera Corrierista Giolitti giornalisti editori

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