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MARIO STIRPE: UNA VIA VERSO UNA MEDICINA PIÙ UMANA

Mario Stirpe Fondazione Bietti

Direttore per oltre vent’anni della clinica oculistica dell’università La Sapienza di Roma, il prof. Giovan Battista Bietti viene ricordato in questo mese, a trent’anni dalla sua scomparsa, con un convegno internazionale organizzato, in occasione del centenario della sua nascita, dalla Fondazione che da lui prende il nome. «Si tratta di un grato e affettuoso ricordo non solo da parte della Fondazione, ma da tutti gli oftalmologi italiani e di altri Paesi che, attraverso i suoi insegnamenti, hanno arricchito le proprie conoscenze», spiega il prof. Mario Stirpe che fu suo allievo e che, da lui apprezzato e stimolato, entrò a far parte negli Stati Uniti di un gruppo di studiosi che hanno messo a punto e poi diffuso nel mondo una nuova tecnica chirurgica per gravi patologie della vista prima incurabili. Scienziato di fama internazionale richiesto in ogni parte del mondo, il prof. Stirpe racconta in questa intervista come, avendo deciso per amor patrio di tornare in Italia rinunciando a rilevanti opportunità offertegli negli Usa, a causa delle promesse non mantenute delle istituzioni pubbliche nazionali ha abbandonato il settore pubblico dando vita alla fondazione privata dedicata al suo grande maestro. Un ulteriore riconoscimento all’opera svolta dalla Fondazione Bietti, dal suo presidente e dai suoi sostenitori per salvare la vista a moltissimi pazienti è costituito dalla qualificata partecipazione di scienziati al convegno e dalla sua sede: la sala Zuccari del Senato.

Domanda. Perché dopo le riforme degli anni 70, invece di migliorare, la sanità pubblica è peggiorata e non si profila la fine del degrado?
Risposta. In Italia abbiamo avuto un momento in cui il settore sanitario registrava un altissimo livello qualitativo. Io ho potuto usufruire per poco tempo di quella stagione a causa della mia giovane età. In quel periodo la medicina era definita «baronale» in riferimento ai grandi professori chiamati «baroni»: certamente aveva anche dei lati negativi perché quei personaggi erano dotati di un potere eccessivo, anzi di uno strapotere che giustamente andava ridimensionato, cosa che avvenne in seguito al movimento studentesco del 1968. Ma in realtà questo, invece di apportare utili innovazioni, distrusse le istituzioni, che non sono state più ricostituite in maniera adeguata. Io faccio sempre notare che nelle istituzioni scientifiche il 1968 non ha rappresentato altro che una presa di potere politico, nel senso che la politica si è sostituita alle istituzioni scientifiche.

D. Quali sono stati gli effetti?
R. Credo non vi sia bisogno di commenti, con una proliferazione di posti pur in mancanza di istituzioni; quando io mi laureai, i professori della facoltà di Medicina dell’università La Sapienza di Roma erano 33; oggi, quando si riuniscono in assemblea superano i 900, senza pensare poi a tutto quello che ci si può aspettare da decisioni adottate appunto in modo «assembleale», ma che nella sostanza sono sempre le decisioni di pochi. Queste sono oggi le istituzioni scientifiche e quindi sanitarie italiane. A quell’epoca vari eventi condizionarono la mia vita ma tra essi il più doloroso fu la perdita di mio padre che dirigeva 400 posti letto nel Policlinico Umberto I di Roma: durante gli scioperi appunto del ‘68, non avendo la possibilità di far sottoporre i pazienti ad esami radiologici, volle controllarli ugualmente con la radioscopia, ma purtroppo l'apparecchio era lesionato ed egli contrasse lesioni da raggi che ne determinarono il decesso tra molte sofferenze.

D. Quali sono state le successive tappe della sua carriera?
R. Il mio maestro professor Giovan Battista Bietti, titolare della cattedra di Clinica oculistica dell’università di Roma, che aveva compreso il mio stato e conosceva le mie idee in merito alla tecnica chirurgica che ritenevo migliore per risolvere patologie della retina all’epoca irrisolvibili, mi informò dell’esistenza a Miami di un luogo in cui si sperimentavano le mie stesse teorie, spingendomi a prendere contatto con quegli scienziati. Così ebbi la fortuna di entrare in quel gruppo di studiosi che hanno poi diffuso nel mondo una nuova tecnica chirurgica. Poi accaddero alcuni eventi che misero in grande risalto i risultati che avevamo ottenuto, e da quel momento siamo stati chiamati in tutto il mondo: nonostante la «guerra fredda» allora in atto, perfino nell’allora Unione Sovietica dove i chirurghi, non essendo a conoscenza di quella tecnica, non riuscivano ad operare personalità di rilievo colpite da quelle patologie.

D. Quali sono state le carriere di quegli scienziati?
R. Dovunque siamo stati accolti con grande entusiasmo e ogni componente del gruppo è stato invitato a rimanere negli Stati Uniti con rilevanti incarichi direzionali nelle varie Università. La maggior parte di loro hanno accettato, tanto che l’attuale presidente dell’American Academy of Ophthalmology, C. Patrick Wilkinson, proviene dal nostro gruppo. Io invece, per una serie di motivi dovuti anche all’attaccamento che avevo per il nostro Paese, sono tornato e sono rimasto in Italia, dove ho avuto esperienze assolutamente negative. Infatti, essendo uno dei tre o quattro studiosi tornati in Europa e in possesso di quella tecnica chirurgica, sono stato invitato a costituire un centro regionale per la chirurgia oftalmica che non ha mai funzionato, a causa di conflitti tra Regione e Commissario di Governo. Così ho deciso di abbandonare le istituzioni pubbliche che in quel momento mi offrivano ponti d’oro senza però offrirmi la garanzia di mettere in pratica quello che avrei voluto fare.

D. E che cosa ha fatto in pratica?
R. Ho deciso di costituire una fondazione. In quel momento in Italia le fondazioni erano pressoché sconosciute tanto che, quando ho manifestato a un autorevolissimo esponente politico, addirittura capo del Governo, la mia intenzione di crearne una sul modello che avevo conosciuto fuori dall’Italia, mi sono sentito rispondere che «da noi le fondazioni nascono solo per sottrarre soldi al fisco». Questo era il giudizio diffuso in quel momento su istituzioni che in altri Paesi avevano dato risultati brillanti. Ho costituito ugualmente la «Fondazione G.B. Bietti per lo studio e la ricerca in oftalmologia» e, poiché non c’erano finanziatori, ho dovuto far ricorso a risorse personali e della mia famiglia; solo successivamente alcune persone hanno creduto nell’istituzione e mi hanno affiancato; tra loro il prof. Massimo G. Bucci, allora titolare della cattedra di Clinica oculistica dell’università di Roma La Sapienza; il dottor Luigi D’Elia che oggi dirige l’azienda ospedaliera San Giovanni Addolorata.

D. Come impiega i propri fondi la Fondazione?
R. I finanziamenti che riceve sono destinati principalmente a compensare gli studiosi che lavorano per essa. Ho ricevuto di volta in volta contributi dall’Imi, dalla Banca di Roma e soprattutto da Fidia, un’industria farmaceutica all’epoca molto attiva in Italia. Ben presto la Fondazione ha registrato un notevole sviluppo anche grazie ai rapporti che intrattenevo negli Stati Uniti, dove ero considerato l’interlocutore diretto; pertanto dovevo mantenere alto il prestigio dell’istituzione senza mostrarne le difficoltà finanziarie. Nonostante queste, negli anni abbiamo realizzato varie iniziative e ottenuto soddisfacenti risultati molto apprezzati all’estero, consistenti soprattutto nel miglioramento e perfezionamento delle nuove tecniche chirurgiche. Finché, a un certo punto, ho avuto un incontro che ha consentito di compiere il salto di qualità grazie a un sostegno finanziario adeguato.

D. Chi è questo sostenitore?
R. Il presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Roma, professor Emmanuele Emanuele, il quale mi ha assicurato un contributo equivalente a quello che mi concedeva generalmente la Banca di Roma. Successivamente, visti i risultati, mi è stato chiesto di inserire nel consiglio di amministrazione della Fondazione Bietti un rappresentante della Fondazione Cassa di Risparmio di Roma, a garanzia del giusto impiego dei finanziamenti. Abbiamo accettato volentieri riservando a quest’ultima la vicepresidenza della nostra fondazione e la presidenza del collegio dei revisori dei conti. I rapporti tra le due istituzioni sono stati e sono ottimi tanto che la Fondazione è cresciuta a tal punto che, essendo nel frattempo cambiata in Italia la disciplina giuridica del settore, ho pensato di far diventare la fondazione un IRCCS, ovvero un istituto di ricovero e cura di carattere scientifico, e di cambiarle il nome. Il passaggio è stato particolarmente difficile.

D. Quali difficoltà ha incontrato?
R. Fino a quel momento venivano riconosciuti solo gli IRCCS dotati di due elementi, la sede e un’attività svolta con risultati positivi. Noi invece potevamo presentare i risultati della produzione scientifica e la preparazione di elementi eccellenti, per cui l’accoglimento della richiesta ha costituito un fatto innovativo. Avevamo dalla nostra parte il parere favorevole dell’organizzazione della ricerca scientifica del ministero della Sanità e della Conferenza Stato-Regioni, dovuto al credito internazionale che avevamo conquistato e alla produzione scientifica. Da quel momento sono aumentate da una parte tutte le nostre possibilità, dall’altra anche i nostri problemi.

D. Per quali motivi avviene ciò?
R. Come IRCCS riceviamo dal Ministero della Sanità un aiuto diretto in rapporto alla nostra produzione scientifica; un altro aiuto ci viene concesso per progetti di ricerca ritenuti importanti. In seguito a tutto ciò abbiamo cominciato a pensare di dotarci di una sede definitiva. Abbiamo già una sede di ricerca che è stata acquistata per noi dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Roma. Inoltre stiamo stipulando un accordo con l’amministrazione dell’ospedale San Giovanni Addolorata di Roma per acquisire un’ala dell’ospedale britannico, che intendiamo destinare a centro indipendente ma in stretto rapporto di collaborazione con il San Giovanni stesso; intendiamo realizzarvi in particolare un’importante iniziativa, il Centro regionale per le maculopatie, cioè per la ricerca e la terapia della degenerazione maculare che oggi è una delle tre maggiori cause di cecità nel mondo più industrializzato. Si tratta di una novità di rilievo perché la maggior parte della ricerca cui ci siamo indirizzati riguarda il diabete e il glaucoma, che sono le altre due maggiori cause di cecità. Il diabete lo è nell’età lavorativa, cioè dalla prima gioventù fino ai 50-55 anni; nei soggetti di età superiore la causa maggiore è la degenerazione maculare ed è un rischio incombente, anche per il consistente allungamento verificatosi nella durata della vita.

D. Vi occupate anche di altri tipi di malattie della vista?
R. La nostra ricerca si svolge soprattutto in queste patologie, non trascurando però quelle della cornea e in particolare dei trapianti di cornea, anche perché abbiamo avuto un ruolo decisivo nella modifica della relativa legge che abbiamo illustrato e sostenuto in Parlamento. La «banca degli occhi» è già localizzata nel San Giovanni, quindi spostiamo il nostro interesse alla cura là dove sono già state costituite basi consistenti. Sulla ricerca che andiamo a svolgere abbiamo suscitato un’attenzione particolare all’estero; negli Stati Uniti si è costituito adesso un board in cui entra a far parte il ricercatore che ha scoperto il fattore proliferativo vascolare che determina la degenerazione maculare e anche l’antidoto; grazie a questa scoperta, possiamo cominciare a curare questa patologia svolgendo la ricerca in Italia con la collaborazione diretta dell’Istituto Superiore di Sanità, il che è molto significativo.

D. Sono sensibili ora le istituzioni pubbliche italiane ai problemi di questa branca della medicina?
R. Posso dire che l’Istituto Superiore di Sanità ha una lunga tradizione e un peso particolare; è uno dei più rappresentativi nel mondo per le attrezzature e per l’organizzazione di cui dispone. In questa nuova fase diventa particolarmente impegnativa la ricerca diretta alla retina. In proposito ricordo il caso di una ricercatrice italiana che, come tanti colleghi, ha abbandonato il nostro Paese diventando una punta di diamante negli Stati Uniti, e che torna per lavorare con noi; è un ritorno molto significativo ma, sentendomi in parte responsabile di questa decisione, l’ho consigliata di dividere il proprio tempo e il proprio impegno tra gli Stati Uniti e l’Italia; se l’Italia le fornirà un adeguato affidamento, resti pure a lavorare con noi. È quanto speriamo, e daremo tutto il nostro sostegno e il nostro impegno affinché questo avvenga.

D. Che cosa si sta facendo in Europa?
R. Intanto si è costituita un’European Academy equivalente dell’American Academy e che ci ha coinvolto pienamente; e si è lavorato per creare una rete europea di studi multicentrici che coinvolgono vari istituti internazionali. In questa struttura la Fondazione G.B. Bietti è stata inserita come istituto d’eccellenza, e ci è stato assegnato il compito organizzativo. In questo mese celebriamo il centenario della nascita del professor Bietti al cui esempio abbiamo ispirato la nostra attività e operato nel rispetto della sua memoria, cercando di non tradire mai il suo nome che avevamo assunto come simbolo.

D. Qual è in particolare il programma delle manifestazioni?
R. In occasione del centenario presentiamo i risultati dell’attività e le mete raggiunte dalla ricerca nelle patologie che maggiormente incidono sulla cecità nel mondo; illustriamo inoltre i progetti per il futuro. Insieme ai rappresentanti delle maggiori istituzioni internazionali - a cominciare dal presidente dell’American Academy -, confrontiamo quello che si fa attualmente negli Stati Uniti con quello che facciamo noi, studiando come le due attività possano integrarsi. Vi sono tanti problemi da esaminare che non sono soltanto organizzativi ma coinvolgono pienamente la ricerca scientifica le cui soluzioni vengono poi diffuse e discusse negli ambienti interessati. E per questo la Fondazione G.B. Bietti esprime un ringraziamento a chi l’ha aiutata e l’aiuta nella ricerca scientifica.

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