Il nostro sito usa i cookie per poterti offrire una migliore esperienza di navigazione. I cookie che usiamo ci permettono di conteggiare le visite in modo anonimo e non ci permettono in alcun modo di identificarti direttamente. Clicca su OK per chiudere questa informativa, oppure approfondisci cliccando su "Cookie policy completa".

  • Home
  • Interviste
  • Francesco Belcaro: Made in Italy a New York è un marchio registrato, ed è il nostro

Francesco Belcaro: Made in Italy a New York è un marchio registrato, ed è il nostro

Francesco Belcaro, imprenditore e cofondatore di Made in Italy NYC Ltd

Hanno registrato in America e in Italia il marchio «Made in Italy» e ne hanno fatto una grande e fruttifera attività che unisce eventi, marketing, real estate, ospitality, gourmet e molto altro: nel 2002, quando una crisi economica partita proprio dall’America stava per esplodere in grande, il padovano Francesco Belcaro e il braccianese Francesco Mo hanno investito con successo nell’Italia. Ma rigorosamente senza l’Italia

«Made in Italy» indica la provenienza di un prodotto completamente progettato, fabbricato e confezionato in Italia. Sorto per contrastare la falsificazione della produzione artigianale e industriale italiana, il marchio ha confuso coltello e manico e si è prestato esso stesso ad abuso per la facilità con la quale lo si usa anche senza costanza di requisiti. Una pizza non è Made in Italy solo perché pizza, un mandolino non suona bene solo per il richiamo a un luogo comune, un vestito non è bello solo perché la sua targhetta finisce in vocale: la qualità non si eredita da un marchio, ma il Made in Italy dovrebbe garantirla, facendo riferimento a qualcosa di più specifico. Esso richiama le origini, una procedura di lavorazione custodita da generazioni e le capacità di un popolo, riconosciute più altrove che in casa (nemo profeta in patria). Ma la stessa Corte di Cassazione è flessibile ed ha precisato che, perché sia Made in Italy, è sufficiente che il prodotto sia pensato o disegnato da un imprenditore italiano, senza richiedere che ogni fase della sua lavorazione avvenga in Italia.
A New York qualcuno si è chiesto se il marchio fosse stato registrato: sono Francesco Belcaro, padovano, e Francesco Mo, braccianese. E lo hanno registrato: nasce nel 2002 il «Made in Italy Nyc», ormai ben noto nella Grande Mela, sinonimo di italianità ma anche di mondanità, party, real estate, moda e molto altro, che oggi si amplia ad accogliere il «Made in Italy Gourmet», nuova impresa che parte da Miami ed è pronta a diffondersi. Dal 2002 ad oggi chiunque sia passato da Manhattan ha conosciuto il Made in Italy Nyc dei due Franceschi e dei loro soci, constatandone l’italianità e gustando una grande mela che è stata piantata, coltivata, fertilizzata e colta interamente in Italia, ma che può essere morsa solo in America, dove sono date possibilità che l’Italia non dà.
Domanda. Da Padova a New York: come?
Risposta. Sono nato in un piccolo paese vicino Padova, Pieve di Sacco, e con mio fratello abbiamo respirato design ed immobiliare attraverso i nostri genitori. Mio fratello ha seguito la parte di design e lavora come stilista nell’azienda di mia madre; invece io, quasi all’età di 18 anni, appena finite le superiori, decisi di trasferirmi all’estero. Non avevo un obiettivo fisso né una visione specifica, ma volevo imparare molte lingue, aprire la mente e cercare il mio futuro senza guardare a quello che si faceva in casa. Trascorsi così un anno sabbatico in Inghilterra prima dell’università, la sera lavavo i bicchieri in un pub e la mattina imparavo l’inglese a scuola nel quartiere di Wimbledon. Conobbi tantissime persone, europee e non; allora ebbi chiaro di voler studiare Economia per buttarmi nel mondo degli affari e del business, sicuramente non in Italia e non perché non credessi nell’università italiana, ma perché mi dissi: se questa è un’Europa unita e aperta, voglio imparare un’altra lingua oltre all’inglese. Mi iscrissi alla Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Madrid e cominciai a lavorare nelle agenzie di pubbliche relazioni. Fortunatamente potevo lavorare anche come modello e qualcosa riuscivo a racimolare per il weekend, pagata l’istruzione e pagate le spese personali, e così potei continuare l’università. Quindi vinsi una specie di borsa di studio, per metà pagata dall’università, e mi permise di fare un anno a Berkeley, negli Stati Uniti. Mi piacque tantissimo: tornai a Madrid e una volta terminata l’università subito mi venne voglia di tornare in America, con il desiderio di vivere a New York.
D. Come mai New York?
R. Per un amico. A New York atterrai il 15 gennaio 2002, mi persero le valigie, era inverno e c’era una neve che faceva paura, aiutai il tassista a montare le catene, giunsi nella casa che quell’amico mi aveva lasciato e non funzionava la corrente, così uscii, e camminando per la Second Avenue giunsi in un locale italiano che si chiamava Baraonda. La strada era deserta per la bufera di neve e fuori dal locale una ragazza mi guardò e subito disse: «Sei italiano?». Lei era di Vicenza, mi fece entrare, mi presentò al proprietario, mi fecero da mangiare, ci mettemmo a ballare sui tavoli, tornai a casa e andai a dormire. Mi svegliai la mattina con un sole stupendo e dissi: questa è la mia città. Avevo 23 anni. Da lì comincia la mia storia.
D. Come si è evoluta da allora la vita newyorchese?
R. Cominciai a lavorare facendo il cameriere, come fanno quasi tutti, poi con la mia laurea in Economia e Commercio trovai un lavoro da analista presso una società italiana; rimasi con loro per un certo periodo, quindi mi trasferirono a Los Angeles, realtà che non mi piacque moltissimo per cui solo dopo 6 mesi chiesi di ritrasferirmi a New York. Mantenni i rapporti con quella società ma cominciai a guardare nel mondo dell’imprenditoria in generale domandandomi: come si può costruire qualcosa negli Stati Uniti? Chiesi a loro di darmi una mano con il visto e non li abbandonai dalla sera alla mattina, perché avessero il tempo di trovare una persona per sostituirmi.
D. Quando fu il momento del «Made in Italy»?
R. Cominciai la mia prima attività con un socio che aveva origini americane da parte di madre, italiane da parte paterna: si chiama Francesco Mo e viene da Bracciano. Iniziammo a lavorare insieme nel campo del marketing, delle pubbliche relazioni, della parte vendita e degli eventi, tramite le feste francesi che andavano molto in voga in quel periodo a New York, i «French Tuesday». Andando a questi eventi ci siamo detti: ma è possibile che nell’ospitality nessuno abbia mai registrato il marchio «Made in Italy?». Ci informammo: era proprio così, e noi lo registrammo. Il marchio nacque tramite un nostro amico, Tommaso De Nardo, di Treviso. Nel gruppo entrò Luca Parlanti, di Roma, poi si unì Davide Di Malta, di Milano. La società fu fondata da me e da Mo a New York: nasce così il nostro Made in Italy, che all’inizio curava solo la parte marketing di alcune aziende italiane.
D. Il marchio è registrato a livello internazionale?
R. È registrato in Italia e in America come «Made in Italy NYC», ed inizialmente si concentrò su marketing, pubbliche relazioni e parte vendita di alcuni prodotti tipicamente italiani; in seguito nacquero le attività dedicate agli eventi, nelle quali inserimmo lo spirito italiano, l’ospitalità, la nostra voglia di fare, coinvolgendo tantissimi newyorkesi ed americani. Una volta al mese tuttora organizziamo un evento di grande impatto attraverso il Made in Italy Events, che tutti aspettano con impazienza. L’abbiamo fatto sin dall’inizio nei locali storici di Manhattan come il Plaza, Le Cirque, Cipriani, 1 Oak, Box, Up and Down, anche in ristoranti o hotel come il Boom Boom Rum, dove ogni anno a febbraio portiamo il carnevale veneziano.
D. Con questi eventi già vi mantenevate, ma era l’unica cosa che facevate?
R. Crescendo gli eventi, cresceva anche la mailing list. Personalmente continuavo nel settore immobiliare nel quale cercavo ancora la mia strada da laureato in Economia e Commercio; anche Francesco Mo lavorava nell’immobiliare in quanto ingegnere edile. Associandoci ci accorgemmo di un pezzo di mercato che comprendeva l’immobiliare e il marketing: l’idea iniziale era quella di creare un canale sempre più esteso nel quale la nostra vita sociale desse imput anche agli altri affari. Non avevamo ancora in vista la parte del lucro, non organizzavamo eventi tanto per guadagnare quanto per creare una rete di conoscenze in città e trovare nuovi clienti. A quel punto abbiamo dovuto distaccare legalmente le due società, la parte «ospitality» dall’immobiliare, che altrimenti sarebbero entrate in conflitto. Maurizio Marchiori, numero due di Diesel nel mondo, mi disse una volta: «Il 60-70 per cento del tuo lavoro in questa città verrà dal tuo network, dipende da te come lo gestisci». Questa è stata una delle lezioni più importanti, che mi è rimasta impressa: quando abbiamo creato Made in Italy NYC la maggior parte dei nostri clienti e contatti si è formata proprio tramite gli eventi che abbiamo organizzato.
D. In cosa consiste l’«ospitality» e in cosa il «real estate»?
R. «Ospitality» vuol dire semplicemente marketing, eventi, lavori con ristoranti, hotel, club. Nella parte del real estate Mo faceva il lavoro da ingegnere edile, io operavo da «developer», mettevo insieme «capitals» ed «assets» per costruire da unità singole a palazzine, e mi occupavo del «brokeraggio», ossia portavo investitori. Ci siamo specializzati in quelli stranieri, creando un pacchetto soprattutto per gli europei intenzionati ad investire negli Usa, offrendo un servizio di agenzia nel quale i nostri clienti mettono il capitale, noi lo gestiamo per loro. L’ospitality continuava a crescere anche grazie agli eventi mensili, e i vari club ci chiamavano per fare marketing; dall’altro lato si trovavano sempre più clienti per l’immobiliare e le due società andavano di pari passo.
D. Come siete giunti al settore «food and beverage»?
R. Facendo ospitality e creando situazioni con società del settore. Abbiamo così creato un nuovo marchio, il «Made in Italy Gourmet», piccolo ristorante-gourmet-mercato dove si può comprare il prodotto da asporto o mangiarlo lì. Com’era già accaduto, nemmeno nel mondo del «food and beverage» c’era alcuna realtà che si chiamasse Made in Italy, che ora abbiamo registrato. In questa attività convertiamo capannoni prefabbricati e vi insediamo una parte gourmet-market, una specie di supermercato, e una parte di ristorazione. Abbiamo cominciato da soli 6 mesi a Miami, una piazza abbastanza vergine che abbiamo scelto attraverso uno studio di mercato: nel Made in Italy Gourmet si può entrare, comprare olio, pasta, olive, o mangiare con un menù, scegliere tra ristorazione e market. È un progetto nuovo che vogliamo duplicare, perché abbiamo già visto che lo stile, il concetto e il marchio funzionano, lo notiamo quando la gente entra e dice «wow!». Abbiamo scelto di cominciare nel quartiere di Wynwood, dove si riunisce tutto il mondo dell’arte; non è Miami Beach, non è spiaggia, bensì una zona nuova dove tutti stanno investendo. È un progetto molto interessante e le aziende italiane sia di larga che di piccola scala ci contattano per esporre o far conoscere i prodotti locali.
D. Rispetto a New York è molto differente: come vi trovate a Miami?
R. La città sta crescendo moltissimo, sta diventando molto internazionale, c’è più cultura, aprono nuovi musei. Quando si ha un marchio che funziona a New York, si ha un bel biglietto da visita. Prima di aprire il Made in Italy Gourmet mi sono recato più volte a Miami per organizzare altri eventi.
D. E oltre a Miami, dove vorreste espandervi ancora?
R. Los Angeles e Atlanta ad esempio. Ma vorremo collegare il marketing e gli eventi con una struttura fissa, cioè portare la mondanità italiana e i prodotti all’interno dei nostri punti, perché abbiamo l’ambizione di offrire un momento mondano all’interno del Made in Italy Gourmet dove provare i prodotti del nostro «food and beverage», ma anche collaborare con i ristoranti italiani della città attraverso la parte eventi.
D. Non vi sieti adeguati ai canoni americani per soddisfare il target dei vostri prodotti e locali?
R. No, tutto il contrario: noi sosteniamo la causa e non dobbiamo adeguarci proprio perché dobbiamo insegnare come si mangia in Italia e com’è la nostra cultura. Devo dire che l’attuale momento economico e sociale ci sta aiutando poiché con le migrazioni in America gli italiani che arrivano fanno il nostro lavoro, insegnando agli amici e alle scuole come mangiamo in Italia.
D. Made in Italy è solo in America?
R. Abbiamo in mente città come Dubai, Londra, Mosca, Singapore, Shanghai, tantissime sono le realtà che stanno cercando il Made in Italy, in particolar modo nel «food and beverage».
D. Di fronte a questo enorme lavoro di mantenimento dell’originaria cultura italiana, le istituzioni italiane vi hanno aiutato? Avete mai chiesto?
R. Ancora non ci hanno aiutato. Abbiamo chiesto a varie istituzioni presenti a New York. Questo è un po’ il bene e il male del nostro Paese.
D. Quale sarebbe il bene?
R. Mangiamo bene e produciamo dei grandi prodotti. Ma comunque abbiamo avuto più appoggi americani che italiani.
D. Siete collegati con le istituzioni che ci rappresentano diplomaticamente?
R. Abbiamo conosciuto uno degli ambasciatori che ci sono stati, non di più. Il sostegno dalla rete Mediaset italiana, invece, ci è giunto su iniziativa di una straniera, Darina Pavlova, produttrice bulgara che ama Roma, inserita anche a Hollywood, la quale ha messo personalmente i fondi per il programma televisivo «Sognando l’Italia», che ha fatto 11 puntate negli Stati Uniti nelle quali io ero uno dei protagonisti.
D. Dal 2002 ad oggi le cose sono cambiate molto in America: il vostro Made in Italy come ha vissuto la crisi?
R. Dovevo ascoltare di più quel vecchio saggio di mio padre quando mi diceva che non sono invincibile. Mi trasferii durante quella crisi mondiale che era partita proprio dall’America, una crisi che non c’era da 100 anni, specialmente nel settore immobiliare dove abbiamo perso molto nel 2008-2009. Ma il bello dell’America è che si riprende, e adesso la situazione va benissimo, tutto il mondo investe, c’è lavoro e al momento non c’è un Paese così fluido come questo. Una società si apre in poco più di un giorno e senza costi, lo Stato addirittura aiuta, non ci sono le tasse che ci sono in Italia e la burocrazia è molto più snella.
D. Costituire una società dà diritto al visto?
R. Assolutamente no, altrimenti tutto il mondo sarebbe in America. Il visto è dato se si investe un minimo di capitale e si dà lavoro ad un certo numero di persone, dipende dallo Stato.   

Tags: Novembre 2015 made in italy gourmet food Padova Miami New York

© 2017 Ciuffa Editore - Via Rasella 139, 00187 - Roma. Direttore responsabile: Romina Ciuffa