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leonardo tricarico: libia, unica strada un’offensiva diplomatica quotidiana

Il Gen. Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa (Intelligence  Culture and Strategic Analysis)

Generale di Squadra Aerea, ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, già Consigliere Militare del Presidente del Consiglio dei Ministri (1999-2004), Comandante della 5ª Forza Aerea Tattica Alleata della Nato e Vicecomandante della Forza multinazionale nel conflitto dei Balcani nel 1999, il Generale Leonardo Tricarico è il nuovo Presidente della Fondazione Icsa, nella quale ha sostituito il sen. Marco Minniti, nominato di recente Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica. Già Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, il Gen. Tricarico ha ricoperto il ruolo di Consigliere Militare con tre diversi Presidenti del Consiglio dei ministri, Massimo D’Alema, Giuliano Amato e Silvio Berlusconi.
Domanda. Cos’è, com’è nata e a che cosa serve l’Icsa?
Risposta. La Fondazione nasce nel 2009 per un’idea e dall’iniziativa del Presidente Francesco Cossiga, appassionato di intelligence e di questioni legate alla tecnologia e alla sicurezza. Egli chiese a Marco Minniti, oggi sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, di prendere in mano questa iniziativa e di mettere insieme un gruppo di persone che potessero occuparsi dei temi legati alla sicurezza e all’intelligence. Sono più di 4 anni che operiamo, siamo afflitti dai problemi di quotidianità che hanno tutte le fondazioni, anche per risorse che per la sicurezza non sono volentieri concesse.
D. La sicurezza è «sicura» oggi?
R. La sicurezza è un assetto improduttivo che spaventa, soprattutto se si pensa all’impegno di grandi società private ed anche pubbliche. Nonostante questo, siamo orgogliosi di continuare in un’attività scientifica che riteniamo molto vantaggiosa per la collettività nazionale, e forse un giorno in una prospettiva internazionale.
D. Eppure gli avvenimenti degli ultimi tempi mostrano una sempre maggiore pericolosità internazionale: la collettività non recepisce l’importanza di un intervento forte?
R. Un conto è l’informazione, un conto è l’ossessione dell’informazione. In certi momenti di determinati argomenti se ne deve parlare, dalla settimana scorsa a oggi non è cambiato niente, a sentire la televisione invece sembra che sia scoppiata la terza guerra mondiale, mentre siamo andati soltanto un passo avanti verso il baratro. È un sistema d’informazione che si basa sui talk show, dove si prendono due sedicenti esperti o sostenitori di tesi contrapposte e si pretende che il cittadino decida chi dei due abbia ragione. Oggi purtroppo i fatti ci stanno dando ampiamente ragione: ci troviamo in un contesto soggetto a una deriva che rischia di divenire incontrollabile ed ingestibile. La comunicazione dovrebbe fare un lavoro di carattere strategico, perché certamente vi è una sicurezza percepita ridimensionata che non è affatto indicativa del rischio che il cittadino corre. I fatti di Parigi ne sono forse la dimostrazione più concreta: c’è uno stravolgimento delle priorità e del senso delle cose che stanno accadendo. Com’è possibile che nel mondo, per il solo fatto di professare una religione, per il solo fatto di andare in una chiesa, in una moschea, in una sinagoga o altro luogo di culto a pregare, si debba perdere la vita in maniera brutale? Paradossalmente, per i giornalisti di Charlie Hebdo c’era un movente identificabile rispetto alla mattanza di innocenti che hanno avuto la sola colpa di pregare o di andare a scuola. Non dimentichiamo cosa è accaduto in Nigeria: ecco che una tempesta mediatica è collegata a Parigi, l’indifferenza più totale è invece collegata a tragedie più efferate e molto più terribili. Va ristabilito il senso delle cose e va compreso che la Francia, la Danimarca, il Canada, l’Australia, e speriamo mai l’Italia, sono dei tasselli di un contesto globale che va espandendosi e che dovrebbe sollecitare la comunità internazionale ad occuparsene, a prescindere dalle circostanze libiche.
D. A proposito di Parigi, lei ritiene corretta la comunicazione della rivista Charlie Hebdo, come anche quella che fanno le nostre televisioni e quelle di tutto il mondo? Non crea adepti, non li stimola maggiormente?
R. Se vogliamo parlare di Parigi e se vogliamo parlare di Charlie Hebdo, è sacrosanto il diritto di libertà di parola, ma questo assunto va usato nei confronti di tutti, mi riferisco per primo a Dieudonné, l’attore satirico ed anarcoide francese che, per aver postato un «je suis Coulibaly» su un social network, è stato condannato a una pena detentiva per apologia di terrorismo. Quindi per lui manifestare comprensione nei confronti del terrorista ucciso è equivalso ad una sanzione per reato di opinione, mentre dall’altra parte sfilavano in corteo, a difesa della libertà di pensiero, governanti sanguinari tutt’altro che rispettosi dei diritti fondamentali. Vedo in tutto questo molta ipocrisia, che genera una comprensione sfasata e malata di ciò che sta succedendo. Oggi stiamo assistendo a una lotta di potere fra due religioni, la sunnita e la sciita, questa è un po’ la colonna sonora di tutto, e la prima domanda che dovremmo porci è: «Noi occidentali dobbiamo inserirci in questa dialettica o assistere inerti in attesa che questa guerra abbia fine?». Francia, Danimarca, Canada e Australia sono i lapilli di un vulcano che sta eruttando altrove, e forse dovremmo proteggerci da essi, disinteressandoci di una guerra che non ci riguarda.
D. Le ideologie non sono mosse da discorsi di interessi e di potere, uno fra tutti il petrolio?
R. Nel mondo globalizzato gli interessi sono sempre sul tavolo, ormai inestricabilmente legati a ogni vicenda di qualunque natura. In Libia sono di tutta evidenza due aree di interesse vitale per il nostro paese, quello legato ai flussi migratori e quello dell’ENI, oltre quello legato ad altri operatori presenti nel teatro libico. È il caso della Finmeccanica, la quale aveva una propria struttura nei pressi di Tripoli, come nucleo di formazione di un’iniziativa più vasta, per il momento sospesa, e della quale a suo tempo mi sono personalmente interessato. In proposito, l’ultimo atto formale nei confronti della Libia è stato quello compiuto il 17 febbraio 2012 a Bengasi, quando abbiamo presentato alle autorità libiche, allora ancora in sella e che l’accolsero con entusiasmo, un progetto tuttora valido di controllo delle frontiere terrestri e marittime; quel progetto divenne il «backbone» di un memorandum tra i due governi che si impegnarono a mandare a compimento la realizzazione di un disegno importante di collaborazione, con ricadute molto promettenti per la nostra industria del settore, Finmeccanica in primis.
D. Riguardo alla Libia, nel dicembre del 2014 si era mosso «un giro di colloqui tra i partiti locali in conflitto tra loro per provare ad arrivare a una soluzione degli scontri che minacciano anche la produzione petrolifera». E vari Paesi avevano ribadito il loro appello per una cessazione immediata delle ostilità sottolineando la «volontà, nel caso in cui alcuni attori chiave non dovessero partecipare al processo guidato dalle Nazioni Unite, di prendere in considerazione il ricorso a misure aggiuntive per proteggere l’unità, la stabilità e la prosperità della Libia e per contrastare l’espansione delle minacce terroristiche in Libia e nella regione». Cosa è accaduto?
R. La missione dell’Onu, capeggiata dallo spagnolo Bernardino Leon, nata per pacificare le parti in causa e consentire alla Libia di procedere verso una democrazia compiuta, ha per ora mancato gli obiettivi. Bisogna oggi insistere su questa strada dato che paiono esistere ancora spazi di riconciliazione tra le parti per una successiva edificazione dello stato unitario, soluzione al momento da appoggiare senza riserve. Una precondizione per un processo negoziale nuovo è quella di estirpare o fermare il terrorismo, con in parallelo una intermediazione più attiva della comunità internazionale.
D. E in quale maniera?
R. Il come lo si vedrà dopo; il primo passo sarebbe quello di una nuova risoluzione dell’Onu contro il terrorismo, perché quella che sosteneva Leon è ormai obsoleta. Non sarà semplice, ma verosimilmente Cina e Russia non potranno opporre veto ad un documento il cui intento fondante è la lotta allo Stato Islamico. Va ritagliato con cura un ruolo anche per i paesi arabi e islamici, tutti, anche quelli che inizialmente ammiccavano, guardavano con eccessiva tolleranza, sponsorizzavano o restavano inerti rispetto al crescere del terrorismo radicale; ora le carte in tavola sono cambiate, il fenomeno può sfuggire di mano e prendere pieghe che vanificano i progetti di nuovi equilibri regionali e le aspirazioni di vari attori che ora potrebbero gettare la maschera dell’ipocrisia ed assecondare una intelligente opera di diplomazia parallela mirata alla soluzione del problema libico. Oltre al sostegno politico da spendere ai tavoli negoziali o dietro le quinte, laddove si dovesse passare alle vie di fatto, un contributo di inestimabile valore dei paesi dell’area sarebbe quello dell’intelligence e di un’opera di mediazione culturale che accompagni passo passo le fasi del percorso negoziale o di altro tipo. Anche sul terreno, nella malaugurata ipotesi del passaggio della voce alle armi, le informazioni diverrebbero il core business dell’interlocuzione con i paesi arabi, informazioni funzionali alla generazioni di obiettivi, ora del tutto deficitaria in campo occidentale.
D. Perché? Non esiste questa informazione?
R. Tutto cambia in una maniera rapidissima e quindi soltanto chi è sul terreno, soltanto chi parla la loro lingua, soltanto chi conosce i loro movimenti, le intenzioni, le vere finalità, può darci una mano nel capire gli obiettivi, sempre mutevoli e rigenerantisi, da colpire.
D. E i servizi segreti cosa fanno?
R. Evidentemente la capacità di interagire con gli arabi e con i servizi collegati va potenziata al massimo per avere una visione più chiara di quali possano essere poi i nostri interventi militari. Una coalizione militare che non desse questo tipo di apporto produrrebbe ben pochi risultati, cioè si avrebbero buoni risultati iniziali, depotenziando le capacità letali di massa dei terroristi, ma poi la macchina entrerebbe in stallo, comincerebbe a girare a vuoto incapace di controllare quello che avviene sul terreno.
D. C’è anche pericolo per l’Italia?
R. L’Italia non corre pericolo alcuno, i sistemi in mano ai terroristi dello stato islamico non sono in grado di portare offesa al territorio italiano, e tuttavia la guardia va tenuta alta e gli apparati di difesa tenuti attivi, efficienti e possibilmente potenziati.
D. Che cosa può fare allora l’Icsa?
R. Noi siamo una fondazione, quindi diciamo quello che pensiamo, accendendo i riflettori sui possibili problemi riguardanti la collettività; in campo nazionale di recente abbiamo promosso una verifica sull’adeguatezza del sistema legislativo e giudiziario, dell’organizzazione della giustizia e delle forze di polizia, rispetto al fenomeno dei cosiddetti «foreign fighters», la ripercussione in Italia della minaccia terroristica. Questo è il nostro lavoro. 
D. E cosa consiglia alla Difesa?
R. La Difesa dovrebbe attivare un primo stadio di allerta, quella che io chiamerei vigilanza militare, un passo che non costa nulla ma importante per saggiare il livello capacitivo del nostro strumento militare. Si tratta di azioni preparatorie - organizzative, conoscitive e di verifica - necessarie appunto per verificare quanto le forze armate italiane siano preparate ad affrontare operazioni a bassa, media o alta intensità e per periodi prolungati in partnership con forze armate di altri paesi.
D. Abbiamo i fondi necessari?
R. Usciamo da un decennio di tagli di bilancio che hanno inciso soprattutto sulla preparazione e sulla formazione, va fatto un check up serio per verificare quanto le prolungate sofferenze di bilancio abbiano inciso sulla preparazione dello strumento militare nel suo complesso. Va rivista anche la destinazione dei fondi della Difesa, se operata correttamente nell’ultimo esercizio di bilancio, perché i criteri che a suo tempo hanno guidato la suddivisione dei fondi per capitoli, per forze armate o per sistemi d’arma, può non essere quella giusta in vista di un impiego bellico di carattere asimmetrico. D’altronde mi risulta che tra le forze armate non ci sia una visione condivisa sull’argomento, tutt’altro, e quello spirito «interforze» che si va auspicando da anni purtroppo ha subito negli ultimi tempi un’inversione di tendenza molto evidente e palpabile anche fuori dai palazzi. Anche per questo una verifica, assistita da una supervisione politica attenta ed assidua, è necessaria ed ineludibile, anche ad evitare il ravvivarsi di liti da pollaio sempre dietro l’angolo.
D. C’è la possibilità di una guerra in Italia?
R. No, ma esiste l’eventualità di una partecipazione ad un’operazione militare multinazionale di fisionomia al momento non precisabile, ma nella quale il nostro paese potrebbe dare un apporto di prim’ordine qualitativo pur se di limitate dimensioni. E a prescindere dalla circostanza libica, la circostanza va colta per costringere la Nato a volgere lo sguardo a Sud, cosa che noi insieme ad altri paesi del fianco Sud stiamo chiedendo, inascoltati, da molti lustri.
D. La Nato si è disinteressata?
R. I fatti dell’Ucraina ci dimostrano che non solo c’è insensibilità, ma c’è un’ipersensibilità al dialogo Est-Ovest che nessuno ci ha ancora spiegato. Di fatto, mentre due Paesi non membri della Nato come l’Ucraina e la Russia regolano tra di loro una disputa, certo con metodi non condivisibili, la Nato si atteggia a «voyeur» appassionato e petulante di una questione che non la riguarda, perché non mi risulta che alcun Paese della Nato sia a rischio rispetto alla contesa tra questi due Paesi non membri. La Nato volga invece lo sguardo a Sud e consideri se non debba far scattare la solidarietà atlantica rispetto ad un pericolo che giorno dopo giorno va definendosi nei suoi caratteri di rischio per i paesi del fianco Sud. In caso di persistenza dell’atteggiamento noncurante dei nostri alleati del Nord, non è ulteriormente dilazionabile un’iniziativa della Farnesina, invocando l’art. 4 del Trattato che consente ad un paese membro la convocazione del Consiglio Atlantico per consultazioni rispetto a specifiche situazioni critiche, e la Libia lo è purtroppo a pieno titolo. In particolare non va perso altro tempo nel rinforzo del dispositivo di difesa aerea, ad iniziare dai radar volanti da dislocare in Sicilia. Trapani è una base che nasce esclusivamente per ospitare questi sistemi, in tal senso è perfettamente attrezzata, allora che comincino le loro orbite sul Mar Mediterraneo per vedere quello che succede in Libia, ed evitare anche una possibile penetrazione di velivoli ostili a bassa quota. Non è una fantasia, c’è un precedente: negli anni 80 arrivò un velivolo libico inaspettato e atterrò a Sigonella, non visto da nessuno. È opportuno poi che i nostri Eurofighter continuino a prestare servizio di difesa aerea in favore dei paesi baltici quando i mezzi si dovessero rivelare insufficienti per un rafforzamento del fianco Sud?
D. Che pericolo corriamo con l’Isis?
R. In Italia abbiamo un apparato investigativo straordinariamente efficiente, dal mio piccolo ne ho fatto parte più volte; di recente una conferma importante da parte di un magistrato impegnato da decenni nella lotta al terrorismo il quale, senza mezzi termini, ha posto tra le eccellenze mondiali le forze di polizia italiane. La nostra «fortuna» è stata quella degli anni bui delle Brigate Rosse: quegli anni terribili ci hanno consentito di mettere a punto strumenti e metodologie d’indagine che oggi ci sono molto utili. Se la situazione dovesse precipitare siamo meglio attrezzati di altri per individuare le fonti di pericolo e neutralizzarle.
D. Cosa pensa della situazione dei nostri marò, non è scandalosa la figura dell’Italia?
R. Se devo vedere un responsabile in tutto questo io dico che il peso più grave lo porta il governo dell’epoca, nella sua espressione di vertice. Da subito c’è stata la percezione che la questione doveva contare su una gestione collegiale, sotto il controllo attento del Presidente del Consiglio. Credo che invece ci sia stata all’epoca una lettura errata del mandato di governo, non chiamato alla sola tenuta in ordine dei conti pubblici, ed il caso marò è stato gestito con visione non unitaria e condivisa ma seguendo probabilmente visioni o interessi di parte; tanta era la sensibilità per questioni di sicurezza che a Palazzo Chigi non fu concessa ad alcuno la delega per i Servizi, ciò avvenne solo il giorno dopo la morte dell’ing. Lamolinara, rapito ed ucciso in Nigeria durante un blitz delle forze speciali nigeriane e britanniche. Ormai la questione è incancrenita, le armi possibili, male usate a suo tempo, paiono aver perso la loro efficacia.        

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