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ARMIN ZOEGGELER, IL «CANNIBALE» SENZA FRENI

Armin Zoeggeler

È il più grande atleta di tutti i tempi nel suo sport, avendo vinto nelle Olimpiadi dal 1994 in poi due medaglie d’oro, una d’argento e due di bronzo, ed è l’unico atleta in attività di qualsiasi sport di discipline olimpiche invernali che può aspirare a conquistare la sesta medaglia consecutiva. Si presenta così, prestigiosamente, il leggendario Armin Zoeggeler, 40 anni e nativo di Merano, il più grande slittinista italiano ora in partenza per le Olimpiadi invernali di Sochi in programma dal 7 al 23 febbraio, e che ha avuto l’onore di essere stato scelto come portabandiera dell’Italia. La cerimonia di consegna del Tricolore da parte del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che ha ricevuto la delegazione degli atleti azzurri, si è svolta il 18 dicembre scorso al Quirinale, presenti il ministro per gli Affari regionali con delega allo Sport, Graziano Delrio, e il presidente del Coni Giovanni Malagò.
La specialità dello slittino si differenzia molto dal bob. Mentre in questo si gareggia seduti, nello slittino si scivola, con il corpo rivolto al cielo, sdraiati su una slitta altamente tecnologica in fibra di vetro e metallo dal peso di 23 chilogrammi, le cui lamine dei pattini sono in lega di acciaio. Tale mezzo, però, non ha i freni. Sono i piedi, posti ad uncino, a fungere da timoni direzionali durante la gara che si corre a 140 chilometri all’ora su una pista di un chilometro e mezzo, composta da budelli di ghiaccio. Gli atleti indossano una tuta gommata di 6 chilogrammi che aumenta il peso per la maggiore stabilità, un caschetto di protezione per il volto e guanti chiodati da usare come pinne.
Le prove di aerodinamicità vengono eseguite nella galleria del vento della Ferrari a Maranello. Il resto è messo dall’atleta, tra passione e coraggio per arrivare alla massima concentrazione. Zoeggeler, che quando non in gara vive a Fiana, frazione di Lana in provincia di Bolzano, e gareggia per il Gruppo Sportivo dei Carabinieri nel quale ha il grado di maresciallo, a Sochi è a caccia della  sesta medaglia, con la quale vorrebbe chiudere con l’agonismo. Tra i soprannomi che gli sono stati cuciti addosso dai giornalisti figurano «l’uomo di ghiaccio» e, soprattutto, il «cannibale dello slittino», termine che si spiega con la sua insaziabile fame, peraltro molto soddisfatta, di successi sportivi.
Domanda.  Che si prova ad essere il portabandiera dell’Italia?
Risposta. È un grande onore ed una grandissima responsabilità, ma sono molto orgoglioso di essere stato scelto. Spero che questa decisione federale, che mi vede protagonista, porti fortuna a me e a tutti gli atleti della Nazionale.
D.  Una sua impressione sull’incontro con Giorgio Napolitano quando, il 18 dicembre scorso, ha ricevuto la bandiera tricolore direttamente dalle mani del Presidente?
R. Ho sentito in me una forte emozione e tutto il peso della responsabilità che ho ricevuto sulle spalle e che mi sento di portare con onore. Personalmente ho una grande stima per il presidente Napolitano, un uomo ammirevole che rappresenta il meglio del popolo italiano. Mi impegnerò al massimo per non deludere lui e tutti gli italiani.
D.  Il suo rapporto con Giovanni Malagò. Cosa pensa del presidente del Coni che, dopo un anno di lavoro dal suo insediamento, sembra intenzionato a rivoluzionare lo sport italiano?
R. Non lo conosco ancora molto bene, ma dalle prime impressioni credo che stia imprimendo un nuovo impulso e stimoli interessanti a tutte le diverse discipline sportive.
D. Al netto della scaramanzia, quante probabilità ritiene di avere per conquistare la sua sesta medaglia olimpica?
R. I tedeschi sono molto forti, come anche il mio compagno di Nazionale Dominik Fischnaller, ma temo soprattutto loro. Confesso però di sentirmi molto bene e di essere in forma. Non escludo, quindi, di riuscire a salire sul podio.
D. Il tedesco Felix Loch sembra essere il suo avversario più temibile, a causa della sua nuova slitta. Tecnicamente e tecnologicamente come lo contrasterà?
R. Gli atleti della Germania hanno a loro favore l’innovazione tecnologica su slitte, pattini ed altro. Noi italiani, però, l’estate scorsa abbiamo lavorato tanto e perfezionato la nostra tecnica. Gli ottimi risultati di questa stagione l’hanno dimostrato. Quindi sono molto ottimista.
D. La pista di Sochi, dove lei gareggerà, riserva tre salite insidiose, cui si aggiunge il cattivo fattore climatico dovuto all’umidità del vicino Mar Nero. È vero che si dovrà «giocare» molto sull’inclinazione dei pattini? E su cosa altro si tenterà di intervenire in gara?
R. Certo, il fattore climatico impone di «giocare» sull’inclinazione dei pattini. L’intero staff della squadra si sta impegnando molto su questo aspetto. Il migliore alleato sarebbe il freddo. Speriamo, quindi, che a Sochi le temperature siano bassissime: questo ci aiuterebbe molto. Anzi, sarebbe determinante.
D. Quando ha cominciato ad andare sullo slittino?
R. Lo usavo già da bambino insieme a mio fratello Alex e ai miei cuginetti per andare a scuola. Poi le prime gare, nelle quali portavo ancora i capelli lunghi che uscivano dal casco. Ma tutto questo fa parte del mondo dei ricordi, di una magica era, ormai scomparsa, in cui la tecnologia non era ancora entrata.
D. Cosa ricorda della sua prima medaglia olimpica, il bronzo di Lillehammer in Norvegia, nel 1994?
R. Avevo vent’anni e una carica strepitosa, certamente più esuberante di quella che posso covare attualmente dentro e che risente, beneficamente oggi, della lunga esperienza. Quindi forse  non mi sono reso conto appieno del significato della vittoria di una medaglia così importante. Ma è capitato a tutti gli atleti vittoriosi, quando sono estremamente giovani, di essere inebriati e storditi dal successo del trionfo.
D. Cinque medaglie olimpiche, 6 ori iridati, 56 gare vinte e 10 trofei in Coppa del Mondo conquistati. Quale di questi riconoscimenti è «scolpito» indelebilmente nella sua mente e perché?
R. Tutte le vittorie per me sono importanti, ma la medaglia d’oro a Torino 2006 è stata qualcosa di speciale. Vincere l’Olimpiade nel tuo Paese è indimenticabile e questa grande vittoria ha contribuito a diffondere lo sport dello slittino in tutta Italia. Non smetterò mai di esserne fiero.
D. Qual è stato il suo errore più grande in tutta la sua carriera?
R. Certamente ne ho fatti tanti in 25 anni, ma tutti veniali. Cioè direi niente di così grave, visto che non mi viene in mente.
D. Qual’è la ricetta della sua longevità agonistica?
R. Tanto allenamento, pesi, ginnastica e atletica, ma anche buoni allenatori. E poi spirito di sacrificio, capacità di sentire il proprio corpo per curarne i dettagli utili. Infine, e non da ultimo, riuscire a rimanere sotto la «buona stella».
D. Oltre che a se stesso, chi ringrazia nel suo entourage tecnico-federale per i grandi traguardi raggiunti ?
R. Un grazie particolare va certamente ai miei allenatori, al Gruppo Sportivo dei Carabinieri e, soprattutto, alla mia famiglia che mi è sempre vicina, anche se io spesso sono fisicamente lontano da loro. È importantissimo avere una famiglia che ti sostiene e rispetta le lunghe assenze della stagione agonistica.
D. I suoi figli seguono le sue orme sul ghiaccio?
R. Mia figlia Nina, di 12 anni, è una grande appassionata e gareggia nello slittino della sua categoria. Credo però che, all’inizio, sia più importante il divertimento, ed eventuali risultati sono sempre una conseguenza dell’unione tra passione e impegno. Non la forzerò mai a fare nulla, ma le darò sempre i migliori consigli, prima come padre e poi come esperto, se parliamo della mia specialità.
D. Come sono i suoi rapporti con la Federazione Sport Invernali e quelli personali con il presidente Flavio Roda?
R. Ho un rapporto molto buono con la FISI e con il presidente Roda, fin dall’inizio dalla sua presidenza.
D. Dopo Sochi, pensa di rimanere nell’ambiente sportivo?
R. Ho alcune idee per il futuro e non sono sicuro di rimanere in tale settore. Ma chi può dire esattamente cosa farò quando ci sono ancora tante sorprese ad attendermi? Lasciamo un pizzico di casualità a questa scelta.
D.  Alto Adige, terra di campioni: oltre lei, Gustavo Thoeni, Klaus Dibiasi, Tania e Giorgio Cagnotto, Caroline Kostner, Denise Karbon e Manfred Moelgg. Cosa permette la crescita dei campioni altoatesini? La diffusione capillare dello sport? L’agonismo coltivato con capacità? O il caparbio carattere montanaro?
R. Non è facile rispondere. Sicuramente la montagna forgia dei caratteri forti. Credo anche che sia fondamentale la passione per far uscire il campione che hai dentro, ma se da piccoli si va a scuola sugli sci o sulla slitta ci sono più possibilità di vivere questa passione in libertà, come scelta non imposta, rispetto a chi la montagna deve andare a cercarla. Poi, però, in caso di agonismo devono subentrare sacrificio e dedizione, che riportano al carattere e non alla regione di provenienza.
D. Grande tifoso della Ferrari, lei nel 2006 è sceso in pista al volante di una Ferrari F430 Challenge da competizione. Il suo amore per i motori è proverbiale e in passato si è dilettato anche su una moto Ducati Monster. È solo la passione per la velocità o potrebbe avere un futuro una volta appeso lo slittino al chiodo?
R. Diciamo che quello per la velocità è solo «amore», nient’altro, e tale rimarrà. La motocicletta, è meno noto, l’ho venduta in realtà quando sono diventato papà per la prima volta. E non me ne sono mai pentito. Quella del pilota però, è una professione che ammiro e che talvolta ho sognato di praticare. Lo dico esortando col pensiero Michael Schumacher a resistere. Motori a parte, io però non amo quell’ebbrezza che taluni sport estremi, e veramente pericolosi, regalano. Assolutamente.
D. Quale importanza ha avuto per lei il Centro di addestramento alpino dei Carabinieri di Selva Gardena che, oltre a lei, negli anni ha «sfornato» campioni del calibro di Alberto Tomba, Giorgio Rocca, Michele Stefani e Antonio Tartaglia? E ultimamente chi vede in odore di vittoria in quel team dell’Arma?
R. È molto importante per ogni atleta appartenere a un gruppo sportivo. Si sente la presenza e la forza degli altri e ci si può concentrare e dedicare al lavoro degli allenamenti e delle gare. Diventa quasi una seconda famiglia. Frequento ancora il Centro e vi incontro sempre tanti amici e grandi campioni, ma proprio per il rispetto che porto ad ognuno  di loro preferisco non fare nomi. Più in generale, garantisco però che l’Italia riserverà ancora tante belle sorprese.
D. Se lei, dall’alto della sua lunga esperienza sportiva, potesse dare un consiglio al ministro dello Sport Graziano Delrio da rivolgere ai giovani, cosa suggerirebbe di fare per lo Sport in Italia?
R. Penso che le cose da fare siano tante e sicuramente il ministro avrà ricevuto tanti buoni suggerimenti, magari da persone più esperte di me. Oltre, però, alle idee e alle buone competenze, mi auguro  si trovino anche i fondi necessari per realizzare quello di cui ha bisogno l’Italia dello sport.  

(Fabrizio Svalduz) 

Tags: Febbraio 2014 Graziano Delrio Carabinieri sport Svalduz Giovanni Malagò

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